Ricordi di don Francesco Ventorino (don Ciccio)

Brani tratti dal libro Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013
Alberto Savorana

pp. 225-226
Nel 1959 Francesco Ventorino (altrimenti noto come “don Ciccio”) è un giovane prete siciliano che ha terminato gli studi a Roma conseguendo il dottorato in Filosofia presso l’Università Gregoriana. I superiori, sicuri della sua preparazione culturale, gli affidano l’incarico di assistente della FUCI e l’insegnamento della religione in un liceo classico di Catania. Nel tentativo di evangelizzare gli studenti e gli universitari avverte una difficoltà: «Se da un canto ero convinto della verità del cristianesimo, d’altro canto non riuscivo a renderlo interessante per la vita dei miei ragazzi e dei miei amici». L’annuncio cristiano rimane, nel migliore dei casi, oggetto di investigazione intellettuale o di dialettica. «Non sapevo neanche a chi porre queste questioni in un contesto ecclesiale che, per lo più, viveva soddisfatto della massiccia presenza dei cristiani nella vita del Paese.» Un giorno tre suoi alunni gli chiedono il salone della FUCI per un incontro con una ragazza venuta da Milano che, a loro dire, «“faceva religione” meglio di me. Diedi volentieri le chiavi perché se ne servissero quando volevano. Ma una volta fui preso dalla curiosità e andai a vedere. Trovai la sala piena di giovani che facevano quello che poi appresi essere il “raggio” con questa ragazza [Adriana Olessina; N.d.A.] che presiedeva, dava la parola a ciascuno ordinatamente e alla fine tentava una sintesi. Era una ragazzina bionda e slanciata, di soli quindici anni».
Ascoltandola, don Ventorino si rende conto di avere trovato quel che aveva cercato invano: un metodo di vita cristiana. «Dopo l’incontro le chiesi da chi avesse appreso le cose dette e lei cominciò a parlarmi di un certo don Giussani, che aveva avuto come insegnante di religione a Milano solo per un anno […], dopo il quale era stata costretta a venire a Catania con la sua famiglia per motivi di lavoro del padre.» A quel punto le domanda di poter conoscere Giussani. L’incontro avviene nell’estate del 1960 al Passo di Costalunga, sulle Dolomiti, durante una vacanza di GS. «Ricordo che ho partecipato solo per una giornata […], ma essa mi confermò nella intuizione che avevo avuta: quell’uomo aveva il segreto che io cercavo. […] A ciascuno veniva […] proposto di rifare l’esperienza dei primi discepoli, così com’era descritta nel libretto che egli mi consegnò nel congedarmi.» Si trattava della bozza di Tracce d’esperienza cristiana, che sarebbe stato stampato di lì a poco. Lo sguardo di don Ventorino si fissa su questa frase: «Cristo era l’unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi. Le loro esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini lì, la loro umanità stessa».

pp. 935-937
«Lo sguardo è una vita che vive, tende, desidera, stima, ama»
A metà degli anni Novanta c’è un pensiero che ricorre nella mente di Giussani, dal giorno in cui Giancarlo Cesana è rientrato a Milano da un raduno col gruppo dei responsabili spagnoli del movimento: «Mi stava parlando di quello di cui avevano discorso, alla fine dice (con la sua serietà brianzola): “Però da noi una unità come c’è tra quelli, un gruppo così – specifica – non c’è”. Allora mi sono detto: “Benissimo, invece che fare la solita Presidenza [il raduno settimanale del gruppo guida del movimento insieme a Giussani; N.d.A.], diciamo la santa messa perché la solita Presidenza sia l’insolita unità tra di noi”».
Nel raccontare l’episodio all’inizio della messa, il 9 maggio 1995, Giussani sottolinea che questa è la forza che salva il mondo: «La partecipazione alla croce di Cristo è la nostra unità, e la gioia di Dio è la nostra forza, se la gioia di Dio si riflette nel volto della nostra unità». E all’omelia dice: «È come se un vento impetuoso che vien su dal deserto delle capacità umane, investisse le relazioni, strappasse via da questo dinamismo il soggetto normale o naturale, e ponesse al suo posto – non come soggetto, ma come termine dell’azione – un Altro. Io sono un Altro, io opero per un Altro, io realizzo un Altro: il disegno del Padre».
Sempre durante la predica, Giussani ricorda un altro recente dialogo, avuto con Marco Bona Castellotti, docente universitario e storico dell’arte: «Come è stato efficace quando – dopo un pranzo in una casa del Gruppo adulto –, mentre si stava parlando, diceva che lui era stato colpito dal Vangelo di Emmaus, perché i due apostoli, che andavano a casa malinconici, non l’avevano riconosciuto: colui che avevano vicino era Cristo, ma la faccia non era quella di Cristo, quella da loro conosciuta come di Cristo, la faccia di carne di Cristo, la conoscenza carnale di Cristo, la conoscenza di un effimero Cristo, di Cristo in quanto effimero. Quando l’hanno riconosciuto? Allo spezzare del pane! È un gesto che fabbrica il mondo, è una azione che fabbrica la salvezza del mondo, che ricostruisce il mondo: l’hanno capito dall’azione che faceva, quando ha prolungato questa azione – diceva Castellotti –. E io, che con settantatré anni di vita non avevo mai pensato questa cosa di Emmaus, sono stato gratamente colpito».
Da questo episodio Giussani trae un insegnamento: si vive il mistero del popolo cristiano «se l’azione che si fa ha come fine, oggetto proprio, la gloria di Cristo», per cui «fattore di aiuto e di sviluppo del popolo cristiano, perciò che dilata il popolo cristiano» è «l’unità – e basta – nella coscienza dell’io, così che io, che ti sono estraneo e anche antipatico, entro nella definizione del tuo io, e tutta la vitalità del mio pensiero entra nella vitalità del tuo pensiero: è un’unità nella coscienza di sé, nella immaginazione del da farsi, nella presa di posizione di fronte a ciò che accade, di fronte al mondo, che si armano di pietà l’un l’altro quando la persecuzione incombe e si armano di richiamo all’umiltà l’un l’altro quando la grazia di Dio rende trionfale la croce di Cristo».
Giussani non parla in modo generico, perché si sta rivolgendo ai responsabili che ha convocato alla messa. Il suo richiamo è diretto innanzitutto a loro: «È questa unità che manca tra di noi come ideale previsto, pregato, desiderato e pregato, programmato, ricuperato, così che chi Dio sceglie – di fatto –, per dare il primo calcio alla palla che si deve muovere per entrare anch’essa nel gioco generale, dice: “In trent’anni (la maggior parte di voi ha dieci, vent’anni di capitaneria della flotta) neanche uno di voi mi ha mai chiesto se il suo metodo di vivere l’orizzonte del movimento è, a mio avviso, secondo quello che l’originale impulso intende o no”». Ed è estremamente significativo che tra i responsabili «in trent’anni nessuno abbia saputo fare questa domanda, tanto quanto sono invece preoccupati di essere a posto nella singola azione, nel singolo compito che ci è stato dato (per evitare pasticci e fastidi)».
Insomma, conclude Giussani, la mancanza di unità è «una invasione di meschinità che non può stare con la parola: “Sì, Signore, io Ti amo”. San Pietro poteva essere il più grande peccatore del mondo, ma questa frase, questo “sì” valeva la pena più di tutti i ragionamenti che si possono fare. Viviamo questa santa messa come domanda a Dio che questa unità si avveri in modo edificante (edificante!) per ognuno di noi».
Durante un raduno del 21 maggio 1995, a Milano, riecheggia la preoccupazione che Giussani ha espresso durante la messa dei giorni precedenti: «Siccome tutti i motivi dei nostri entusiasmi, delle nostre recriminazioni, dei nostri sforzi, pescano altrove che nel rapporto con il luogo sorgente del carisma, c’è come una sproporzione tra la promessa che il movimento è per grazia di Dio (e sempre più per grazia di Dio) e l’esito cui le nostre mani non partecipano e cui i nostri occhi non partecipano con un minimo di adeguatezza personale».
A questo punto interviene don Francesco Ventorino, che afferma di essersi dovuto ricredere rispetto all’idea che si era fatto della natura del carisma di CL: «Mi è parso evidente come non mai che si tratta, piuttosto che di un “criterio metodologico” da apprendere e poi da applicare, di uno “sguardo” da imparare». E Giussani, per inciso: «… più che un a priori hegeliano nuovo». Riprende don Ventorino: «Uno sguardo non lo si finisce mai di imparare», perché «il criterio si può supporre già imparato, come una cosa già acquisita una volta per sempre; uno sguardo non lo si finisce mai di imparare». Partecipando a recenti raduni con Giussani, il sacerdote catanese dichiara di essere stato commosso da questo:
«La sorpresa di trovarmi di fronte a un uomo che guarda la realtà, che ci conduce a poco a poco a guardare le cose, a una profondità alla quale da soli non si potrebbe mai arrivare». Individua anche l’errore: «Io lo capisco in me che sono da trentacinque anni dentro questa storia, abbiamo a un certo punto ritenuto “sufficiente” il giudizio cui eravamo pervenuti, dimenticando che l’uomo è sempre in correzione, ma in correzione “alla presenza” di un altro».
Colpito dall’intervento, Giussani ringrazia don Ventorino soprattutto per la formula da lui utilizzata, che gli appare nuova nella storia del movimento: «Sguardo e non criterio. Lo sguardo è una vita che vive, che tende, desidera, stima, in qualche modo ama. Criterio è una pura applicazione mentale, di tecnica mentale, in cui il maestro supremo non è stato Gesù Cristo, ma sono stati Kant e Hegel (i maestri di tutti, dall’Est all’Ovest)». Don Ventorino, di rimando, chiede: «È giusto quello che dico? Che lo sguardo ti porta sempre oltre…», cioè è un fattore di continuo cambiamento. Giussani esclama: «Perfetto!». E a tale proposito, ricorda il giorno in cui, verso la fine degli anni Settanta, aveva invitato un gruppo di adulti del movimento, taluni dei quali con lui fin dagli inizi, a una collaborazione più stretta nella conduzione di CL: «Adesso dovete aiutarmi come in principio, anzi, non come in principio, ma essendo voi maturati dentro l’alveo del movimento. Vi chiedo un colloquio periodico in cui giudicare – secondo l’amicizia che c’è tra di noi – come guidare questo movimento», perché «ci sono dei punti nel movimento che sono come se si levasse improvvisamente la punta del Monte Bianco su una catena di montagne piatta. Ci sono dei punti che vanno avanti, e noi restiamo indietro. Per esempio, il CLU può aver fatto un passo dentro l’esperienza più lungo del nostro, più potente del nostro». Giussani ricorda: «Non l’avessi mai detto!». Molti dei presenti se ne andarono dalla riunione delusi e irritati, al pensiero che dei giovani potessero essere più avanti di loro nell’esperienza del movimento.
Le parole di don Ventorino rifluiscono immediatamente nell’incontro nazionale dei responsabili di CL del 24 maggio 1995: per Giussani quell’intervento «spiega tutta la linea di sviluppo della storia. La storia di CL è fatta da chi è rimasto umilmente fedele a seguire e da chi si è ricreduto guardando; dando più preferenza al guardare che non al ragionare o discutere» in modo astratto o dialettico.