L'esaltazione dell'Essere

Da «Tracce Litterae Communionis», 2003, n. 9, pp. 120-125
Julián Carrón

La lezione di Julián Carrón all'Assemblea internazionale responsabili. La Thuile, 20 agosto 2003.
A partire dal messaggio per il pellegrinaggio Macerata-Loreto, ha ripercorso i passaggi della Lettera di don Luigi Giussani alla Fraternità di CL del 22 giugno 2003.



«Quando ci si mette insieme, perché lo facciamo? Per strappare agli amici, e se fosse possibile a tutto il mondo, il nulla in cui ogni uomo si trova»1.
Il nostro stare insieme ha questo scopo: strapparci dal nulla. La lotta è contro il nulla. Non stiamo insieme per organizzare meglio le cose, per gestirle meglio, ma per una carità verso di noi, perché ci interessa non soccombere al nulla.
La prima questione è guardare la realtà, la nostra esperienza, perché si potrebbe anche far strada in noi un’insinuazione: «Ecco, incominciamo a parlare di cose filosofiche». Chi pensa che il nulla di cui parliamo sia qualcosa di filosofico può andare a vedere il film The Hours, dove il regista è riuscito efficacemente a trasmettere che cos’è una vita senza significato (quando sono uscito dal cinema sentivo su di me il peso del vuoto, come tante volte durante la giornata uno può sentirlo).
Niente serve a strapparci da questo nulla che incombe anche su di noi, perché noi siamo come tutti; non siamo diversi per il fatto di essere qui, siamo come tutti gli uomini, nel senso che abbiamo l’esperienza di tutti: è impossibile vivere dentro una cultura e non esserne influenzati.
Il nulla incombe su di noi in tanti modi. Don Giussani ha usato diverse espressioni. Parlando agli universitari, lo ha definito «cinismo da vagabondi»2; l’anno scorso, nell’intervista a Libero, ha parlato di «conformismo», denunciando il fatto che tanti non attendono più la pienezza (e questo vale dentro e fuori Cl, nella Chiesa e fuori di essa): non c’è più attesa3. Oppure si può parlare di «aridità del cuore», di «freddezza», di «formalismo». Sono tutte modalità diverse in cui il nulla ci prende, al punto da diventare una tentazione della nostra cultura. Paola De Carolis, sul Corriere della Sera, parlando del buddismo, diceva: «La beatitudine eterna è il nulla»4 (è lo strano fascino del buddismo nella nostra cultura), oppure - ma tutti i giornali sono pieni di questo - «La noia ci salverà», dice la Repubblica: «Affrontare la paura del vuoto e diventarne consapevoli o, meglio ancora, passare a quella “presa di incoscienza” che, da sola, vale più di mille sedute di autoanalisi»5.
Il nulla. Diceva uno di voi, parlando della sua esperienza del Gruppo Adulto, ma si può estendere a ciascuno di noi: «C’è un pericolo mortale che ho visto con chiarezza all’inizio di quest’anno: lo starci a metà, lo stare senza starci. C’è una lotta che logora senza paragone più di qualsiasi lavoro o tensione provocata dalle circostanze esterne, ed è stare in una vocazione come la nostra senza volerla. “Fare” senza volere ciò che si fa disgrega dall’interno la persona, la fa infelice, perché blocca la sua libertà, la inaridisce fino al midollo perché non si ama quello che c’è, e non si può amare quello che non c’è».
Il nulla «ci inaridisce fino al midollo», non stiamo a quello che c’è: perché, come diceva Cornelio Fabro, «il nulla non si sceglie, ci si abbandona al nulla». Ci si abbandona, ci si lascia andare, scivoliamo: ci abbandoniamo a una vita senza senso. Quanti momenti nella giornata vissuti senza senso!
Si capisce allora perché don Giussani, nella lettera alla Fraternità, afferma (e noi tutti non possiamo che essere d’accordo): «L’io deve essere continuamente esaltato da una rinascita del reale, da una ri-creazione»6. L’io, il nostro io, tu e io dobbiamo essere continuamente esaltati da una rinascita. Siamo insieme per questo. Come dice il messaggio in occasione del pellegrinaggio Macerata-Loreto, «il nostro è un rapporto “vocazionale”»7. La vita è vocazione alla felicità, alla pienezza. «Il rapporto vocazionale è addirittura questo: che incontrando noi [che nel nostro essere insieme] (...) uno si senta come afferrato nel profondo, riscosso dalla sua apparente nullità, debolezza, cattiveria o confusione, e si senta come d’improvviso invitato alle nozze di un principe»8.

1. L’esaltazione dell’Essere
Il nulla è vinto soltanto dall’Essere. Possiamo diventare amici, possiamo strapparci dal nulla, solo se in noi in qualche modo ha vinto l’Essere, se la nostra vita è stata percossa dall’Essere. L’Essere! Che ci sia l’Essere! È questo che ha impressionato don Giussani, come lui stesso dice nella lettera: «L’inno alla Vergine di Dante coincide con l’esaltazione dell’essere»9. E più avanti: «Per questo la prima parte dell’inno di Dante è l’esaltazione dell’eterno»10.
« Io avrei potuto incominciare la lettera così», ci diceva qualche giorno dopo averla scritta: «Dante voleva parlare dell’eterno, alla gente cui scriveva voleva parlare dell’eternità, era l’eternità che gli interessava. Tutto il resto è come un fiotto di luce di eternità. Parlare dell’eternità è parlare dell’Essere. È il problema dell’Essere quello che manca a tutta la gente».
È questo il nostro problema. Il nulla non c’è, non si può scegliere il nulla, ci si abbandona al nulla. Ma il problema è che a noi l’Essere sembra astratto, senza incidenza reale sulla vita. Davanti alle reazioni destate dalla lettera, don Giussani ha osservato: «Io ho dovuto scoprire in questi giorni che l’Essere non è vibrante in nessuno».
Il primo punto della lettera viene così normalmente “saltato”: è più facile, per esempio, pensare di capire che cos’è la libertà, ma riguardo all’Essere non sappiamo come metterci, perché non è vibrante in noi, ci sembra di non poterne fare esperienza. Aiutarci a capire la lettera è allora la questione decisiva, perché non la si capisce soltanto riflettendo su di essa, ma partecipando in qualche modo alla stessa esperienza di chi l’ha scritta.
Una volta un universitario ha chiesto a don Giussani - il quale aveva invitato tutti a immedesimarsi con il contenuto della Scuola di comunità come unica via per superare un modo astratto di sentire le parole - come accadeva questo immedesimarsi nella sua vita e nei suoi rapporti. E lui gli ha risposto: «Come avvenga nella mia vita non posso dirtelo, amico mio, se non in quanto già nella tua vita qualcosa di simile compare, è sperimentato. Si capisce solo quello che, in qualche modo, corrisponde a qualcosa che già sperimentiamo»11.
La questione è dunque fare esperienza di quello che ci è stato detto, perché altrimenti pensiamo di capire, ma riduciamo alle nostre misure. Aiutarci a fare esperienza delle cose: è questo che don Giussani persegue dall’inizio del movimento. Perché lui sa benissimo che qualcosa si capisce soltanto se “avviene”: l’inizio della conoscenza, ha detto in varie occasioni citando Finkielkraut, è un avvenimento12.
Il contenuto della lettera ci pone di fronte a un problema di conoscenza, come lui stesso ci aveva detto cinque anni fa (si può vedere il testo degli Esercizi del ’98, ancora tutto da imparare!). Già allora aveva in mente questo problema: voleva comunicare che «Dio è tutto in tutto» (cioè l’Essere) e che «“Dio è tutto in tutto” è la conseguenza impressionante cui conduce la ragione, quando è intesa secondo l’esperienza realisticamente naturale che noi facciamo di essa»13.
Se uno guardasse la sua esperienza, capirebbe che «Dio è tutto in tutto». Ma questo, osserva don Giussani, ci sembra «astratto»14. Lo si capisce quando si chiede a qualcuno: «Ma hai pensato questo? Ti rendi conto di questo?», e risponde: «Sì, lo so già!», ma senza esserne minimamente colpito, in un modo tale da lasciar trasparire il contrario. Come dire: «Lo so, ma non succede niente»: è un’astrazione.
Ha scritto una di voi: «Sono colpita dall’aver incontrato, qui al mare dove mi trovo, alcune persone del movimento e del Gruppo Adulto, perché, parlando con loro banalmente di cosa fanno o dove passeranno le vacanze, emerge una divisione impressionante tra il lavoro, i rapporti, le vacanze, i problemi, le questioni che veramente interessano, e il movimento, la vocazione, Gesù. Questi [il movimento, la vocazione, ecc.] non sono affatto in discussione, anzi! Solo non dicono niente alla vita».
Negli Esercizi citati, don Giussani afferma che l’astrazione con cui noi percepiamo Dio è «nell’ordine della conoscenza»15 e che ciò ha la sua «origine in un distacco che si produce tra ragione ed esperienza»16. «La sostanza della questione è chiarita nella lotta che si sviluppa sul modo di intendere il rapporto tra ragione ed esperienza. Per capirlo, basterebbe guardare alla formula “Dio è tutto in tutto”, che squassa la formulazione più comune dell’esistenza di Dio (“Dio esiste”). È sempre tranquilla, infatti, l’affermazione di un Ente supremo, dell’esistenza di Dio, chiuso in se stesso, che non abbia rapporto con l’azione dell’uomo, se non, alla fine, come giudice che distrugge o approva quello che l’uomo ha compiuto»17.
Nel modo di concepire il rapporto tra ragione ed esperienza sta tutto il problema: «La negazione del fatto che “Dio è tutto in tutto” è dipesa da una irreligiosità»18. È una irreligiosità «che inizia, senza che nessuno se ne accorga, da un distacco che si opera tra Dio come origine e senso della vita (…) e Dio come fatto di pensiero»19. Quello che pensiamo di Dio, su Dio, è staccato dall’esperienza che noi facciamo di Lui: allora diventa astratto. Ciò si produce per una irreligiosità, per un distacco quasi impercettibile, che inizia senza che nessuno se ne accorga.
Se tu sei colpito dal reale e un istante dopo ti stacchi, ti separi, lì incomincia l’irreligiosità. Il problema non è quello di pregare oppure no. Il problema è il rapporto con il reale. Dio incomincia a diventare astratto se, quando parli di Dio, ti stacchi, parli di Dio come fatto del tuo pensiero e non a partire dall’esperienza che fai di Lui. Si introduce un distacco di Dio dall’esperienza. Lo si capisce benissimo se andiamo a vedere com’è l’esperienza originale - dove questo distacco non c’è - e perché è irreligiosità tale distacco.
Il punto di partenza è l’esperienza, e questo implica che tu e io possiamo fare esperienza dell’Essere. Perché possiamo farne esperienza? Perché l’Essere si comunica, dona se stesso in una forma: «L’Essere “si coestende” al suo comunicarsi totale, l’Essere arriva a toccare tutto ciò che lo circonda e per cui è stato fatto, ed è proprio nel suo comunicarsi totale che questo (la coestensione) avviene e si realizza, ti raggiunge»20.
L’Essere, ci diceva don Giussani, viene partecipato all’io umano attraverso una forma, come forma. L’Essere non può svelarsi se non come forma. L’Essere si dona, dona se stesso, attraverso una forma. L’Essere si può sperimentare, toccare, perché ci raggiunge attraverso il godibile. L’Essere che diventa godibile per l’esistenza: questa è la coestensione. L’Essere ci raggiunge attraverso una forma. Di fronte a quel che accade, tante volte diciamo: «Accade perché accade, non c’è niente dietro». No! Accade perché un Altro lo vuole, perché è il Mistero che si comunica: è l’impressionante libertà del Mistero.
Scrive Steiner: «L’atto creativo» - attraverso il quale l’Essere si comunica, si coestende a tutto e ci raggiunge - «è l’attuarsi di una libertà. È interamente libero. La sua esistenza comporta, implicitamente ed esplicitamente, l’alternativa della non-esistenza. (…) La “creazione”, correttamente intesa e percepita, è sinonimo di “libertà”, di quel fiat o “sia” che trova il suo significato soltanto nella sua relazione (…) con il “non sia”. È soltanto in questa gratuità verso l’essere - l’essere è sempre un dono - che l’artista, il poeta, il compositore, possono essere considerati “simili a Dio”»21. L’Essere ti raggiunge, ti tocca, ti chiama attraverso una forma, e perciò si può farne esperienza.
Ecco che cosa implica dire: il punto di partenza è l’esperienza. È esattamente il contrario dell’astrazione. «L’esperienza - dice genialmente don Giussani nella lezione citata - è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo dell’uomo»22. Conoscere che cos’è l’amore, la libertà, la mamma, le montagne, ciò avviene solo attraverso l’esperienza. Non è leggendo romanzi sull’amore, ma è attraverso l’esperienza dell’amore che uno capisce che cos’è l’amore.
Guardiamo allora l’esperienza originale, l’esperienza dell’incontro dell’io con il reale (capitolo decimo de Il senso religioso)23. Se io aprissi gli occhi per la prima volta in questo momento e vedessi il Monte Bianco, la prima cosa, la prima esperienza in assoluto sarebbe uno stupore, un attaccamento. Innanzitutto, dunque, la realtà mi colpisce («Ma che bello!») e io mi attacco a essa; poi prendo consapevolezza di me. La prima esperienza che faccio è quella di un attaccamento, non di un distacco. Se si produce questo distacco, è per una mossa della libertà.
Davanti al reale, nell’impatto con la presenza del reale, nell’attaccamento per l’attrattiva del reale, del godibile, qui incomincia la religiosità. Al contrario, il distacco è l’inizio della irreligiosità, perché è contro la natura dell’esperienza che facciamo.
Perciò, come dice Finkielkraut, «l’utopia trionfante è la violenta pretesa di liberarci della realtà come dato, e soprattutto del dato come presenza»24. Se vince questa utopia, siamo “fregati”; tutto il resto non è che conseguenza.
L’inizio dell’irreligiosità, la prima vittoria del nulla, si produce in questo distacco, se noi accettiamo questo distacco, se ci abbandoniamo a esso, perché l’origine, l’esperienza originale è un attaccamento, non un distacco. Questo inizio avviene quasi senza che uno se ne accorga.
Come mostra il percorso di tutto il capitolo decimo de Il senso religioso, se siamo leali, nell’impatto col reale, l’urto della realtà, questo originale contraccolpo, desta in noi un desiderio, una tensione, un’esigenza di conoscere che non si compie se non arrivando a dire: «Tu che mi fai». Se ci fermiamo prima, come di solito facciamo, non arriviamo all’Essere, non facciamo esperienza dell’Essere, e quando parliamo dell’Essere ne parliamo al di fuori dell’esperienza.
Noi siamo stati educati a questa partenza dal reale. Se parto dal reale che vedo, che tocco, dalla forma con cui l’Essere si dona, sono costretto ad affermare come sua origine l’Essere, un Essere “reale”: non un fatto di pensiero (un fatto di pensiero non è capace di spiegare la presenza del reale), ma un Tu - dice don Giussani in Avvenimento di libertà -, un «Tu, reale e misterioso»25. Non importa se lo senti o non lo senti: c’è! Questo Tu reale e misterioso c’è. Perché c’è? Perché ci siamo noi. Non è un problema di sentimento, non è un problema di che cosa pensiamo: c’è! Se non possiamo fare un’affermazione così semplice - «C’è!» -, quando parliamo di Dio parliamo di un fatto di pensiero. Tant’è vero che quando sentiamo don Giussani parlare dell’Essere, di Dio, restiamo colpiti. Una volta, durante un pranzo - lo raccontava Giancarlo -, ha esclamato: «Per me Dio è reale come lo sono queste patate». È perché c’è che lo sperimento, lo sento. Non «perché lo sento, c’è», ma «perché c’è, lo posso sperimentare». È un problema, prima di tutto, di conoscenza. Se non si fa questo uso della ragione, non se ne rispetta la vera natura: la vera natura della ragione è definita, infatti, da questa esigenza che il reale desta in me. «L’inno alla Vergine di Dante coincide con l’esaltazione dell’essere, con l’ultima tensione da parte della coscienza dell’uomo che è alla presenza della “realtà” - che non nasce da se stessa, ma è fatta da un focus ineffabile»26. Quest’«ultima tensione della coscienza» che cos’è? La ragione! La presenza del reale desta questa esigenza, questa tensione, che definisce la natura della ragione.
Soltanto chi accetta questo contraccolpo e non si distacca dalla tensione che la realtà produce in lui, arriva al focus ineffabile, cioè al Tu reale e misterioso, all’Essere. La coscienza dell’uomo nella sua tensione ultima arriva al focus ineffabile dell’Essere (a condizione che uno non sia irreligioso, non si fermi, non si stacchi, non separi, non blocchi l’esigenza destata dalla presenza del reale).
Chi riconosce la realtà come creata non può non finire nell’esaltazione dell’Essere: tutto il creato è, infatti, il comunicarsi dell’Essere, vibra di questo Essere. «È un eterno consiglio, è una cosa che vibra e che si chiama eternità»27. Perciò è impossibile che l’Essere non sia vibrante in nessuno: se non vibriamo, c’è qualcosa che non va, è la vittoria di quel distacco. Altrimenti è impossibile, com’è impossibile guardare le montagne senza dire: «Che bello!», senza ricevere l’urto della bellezza. Non è possibile! Vuol dire che non accettiamo di vedere il reale. Se uno si trova davanti al reale, non può non vibrare.
Ma non basta la meditazione di testi o la lettura di un romanzo sull’amore. Occorre un avvenimento, occorre la commozione: il test che noi siamo arrivati all’Essere è questa commozione. Possiamo essere esperti del discorso, ma quanti tra noi sono commossi? L’Essere si comunica soltanto attraverso la commozione che produce in noi. Non c’è un altro modo.
Allora tutto - le montagne, la donna, le circostanze, il disastro -, tutto è la modalità, la forma con cui l’Essere mi chiama, si comunica e mi chiama dal fondo di questo focus ineffabile. «Il Tu è il fondo della verità, cioè della realtà».
Il lavoro da fare - l’educazione che ci manca, dopo quattro secoli di razionalismo, di blocco nell’apparenza - è arrivare a questo focus, perché l’apparenza, la forma, «è il primo manifestarsi di ciò che è per sempre»28, come si legge in Affezione e dimora. È veramente una cosa dell’altro mondo: l’apparenza non è preludio al niente, inganno, vanità. «L’apparenza è il primo manifestarsi di ciò che è per sempre». «Quel che si vede è l’apparenza, ma bisogna lasciarsi trascinare, attrarre dall’apparenza fino al cuore dell’apparenza, che è un’altra cosa, che è un Altro. Non è un’apparenza, è un Altro. Ma questo non ti fa dimenticare l’apparenza: te la fa stringere di più»29, proprio perché ti rimanda all’Altro. Questa è la maturità: «Lasciarsi attrarre così tanto dall’apparenza da arrivare all’intimità dell’apparenza»30, al cuore.
Non facciamo esperienza dell’Essere, o parliamo dell’Essere al di fuori dell’esperienza, se non arriviamo fin qui, se restiamo nell’apparenza. È un problema di educazione, e questo vale con tutto quello che capita, con tutto il reale.
Prendiamo il racconto del cieco nato, guardiamo il percorso che egli fa davanti al miracolo (il miracolo: qualcosa che accade). «Prima non vedevo, adesso ci vedo»31. E quell’uomo inizia un percorso dall’apparenza al cuore dell’apparenza. Qual è il cuore? Vediamo sinteticamente i passaggi. «Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va’ a Siloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”. Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. Allora alcuni dei farisei dicevano: “Questo uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!” [prima ha detto: “Quell’uomo che si chiama Gesù”, e adesso dice: “È un profeta”]. Ma i giudei non vollero credere di lui che era stato cieco» [per continuare nel pregiudizio occorre cancellare il reale, perché il reale desta il percorso che fa il cieco; per fermare questo percorso occorre un distacco dall’esperienza, e questo distacco è la negazione del reale] e perciò chiamano i genitori: «“È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?”. I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo: chiedetelo a lui”». «Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore” [è il pregiudizio]. Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”»32.
Questo attaccamento al reale lo rende vincitore davanti a tutta la scaltrezza dei farisei. Non c’è niente da fare, questo è il punto («So una cosa sola: prima ero cieco e ora ci vedo»).
« Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!”». «Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia [è reale e misterioso], eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, Egli lo ascolta. (…) Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori. Gesù [è la fine del percorso] seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’Uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi»33.
Anche davanti a un miracolo così imponente, non si può evitare di fare questo percorso. Il contrario è non accorgersene nemmeno. Si può leggere in proposito il Vangelo di Luca, l’episodio dei dieci lebbrosi: tutti sono guariti, ma uno solo se ne accorge34.
A noi tutti è data la vita, l’Essere si comunica a noi: soltanto alcuni se ne accorgono. Questo è il problema dell’educazione di cui abbiamo bisogno. Come il bambino ha bisogno di una mamma che, davanti al dono che gli è appena stato fatto, mentre è così contento di quello che ha ricevuto da dimenticarsi di tutto, gli ricordi: «Ma come si dice?». E il bambino: «Grazie!». La mamma fa capire al bambino che non accade perché accade: c’è un altro. Questa è l’introduzione al reale, al Tu, attraverso tutto. Che cosa grande è la vita, quando in tutto quello che accade non ci fermiamo all’apparenza!
« Questo avvertire la presenza è avvertire che il nulla è vinto»35, dice Cornelio Fabro. Occorre che noi avvertiamo la presenza dell’Essere affinché il nostro io possa rinascere. Questa rinascita accade nel riconoscimento dell’Essere, che diventa preghiera, domanda dell’Essere davanti al segno: «Rivelati! Che io ti riconosca!». Questa è l’espressione ultima dell’uomo: che io Ti riconosca in tutto! Questo è il gioco della nostra religiosità oppure della nostra irreligiosità: che io Ti riconosca attraverso tutto! Che io arrivi fino alla fine, fino al Tu, che non mi fermi prima.

2. Il metodo di Dio: la Madonna
Il metodo di Dio: questo è quello che ha rispettato la Madonna. Che cos’è l’Essere, si rende evidente nella Madonna. Qui risiede la sua importanza unica. «La Madonna diventa commossa dall’infinito»36.
L’Annunciazione è l’Essere che si comunica: il Magnificat ne è la commozione, e proclama la grandezza del Signore: «Perché il Signore ha guardato il niente della sua serva»37. Ma questo accade ogni mattina quando diciamo l’Angelus. Non accade perché accade (poteva non accadere; potevo dimenticarmi), ma è Dio, è il Mistero che si comunica a me, che mi fa dire: «L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria». Non è un ricordo, è adesso. E uno si rende conto di qual è la differenza tra una preghiera pia o un avvenimento: se si commuove oppure no!
Questo è ciò che fa rinascere l’io, l’esaltazione del singolo. Qui sta la sfida più grande dell’Essere a ognuno di noi, che ci mette davanti al nostro vero dramma: «Senza il riconoscimento del Mistero vivificante (l’Essere), il singolo si spegne e muore»38.
«È il dramma supremo che l’Essere domandi di essere riconosciuto dall’uomo. Questo è il dramma della libertà che deve vivere l’io: l’adesione al fatto che l’io deve essere continuamente esaltato da una rinascita del reale, da una ri-creazione che nella figura della Madonna diventa commossa dall’Infinito»39. Ecco il dramma supremo dell’io: per vivere, per rinascere dal nulla a cui ci abbandoniamo, abbiamo bisogno di accettare l’urto dell’Essere, di aderire all’Essere. La Madonna è il metodo, perché è il paradigma della vera religiosità: «La figura della Madonna è il costituirsi della personalità cristiana»40. Senza questo, c’è il nulla, cioè il potere: l’unico limite al potere, infatti, è la vera religiosità.
« La Madonna ha rispettato totalmente la libertà di Dio, ne ha salvato la libertà; ha obbedito a Dio perché ne ha rispettato la libertà: non vi ha opposto un suo metodo»41. La libertà di Dio che si comunica all’uomo rende possibile la libertà dell’uomo. Perciò «la salvezza è il Mistero di Dio che si comunica all’uomo»42.
Si capisce allora perché la «libertà dell’uomo è la salvezza dell’uomo»43: la libertà dell’uomo è il segno che l’uomo è stato salvato. E nella Madonna questo diventa solare. È come se Dio, ci diceva ancora don Giussani, parlasse con chiarezza: «Guardate che cosa può essere la vita di una creatura che rispetta la libertà di Dio». «Vi insegno io, dice Dio attraverso la Madonna, vi insegno io come dovete fare».
La Madonna è il metodo con cui noi impariamo la familiarità con Cristo. Questo donarsi del Mistero, che riempie così tanto l’essere, la creatura, l’io, questa gratuità dell’Essere, questa verginità dell’Essere, che comunica la sua pienezza alla Madonna, è ciò che le permette di rapportarsi con gratuità a tutto il reale. «La prima caratteristica con cui l’Essere si comunica è la verginità»44: purità assoluta, gratuità assoluta.
Soltanto se siamo riempiti dall’Essere possiamo lasciare che tutto sia quello che è, non avere la pretesa di possedere, possiamo rispettare l’altro, lasciarlo libero, come Dio lo ha creato, libero. Perché? Perché all’interno del suo rapporto con noi, c’è questa verginità, questa pienezza. E questa pienezza, che è la verginità, è generatrice, è maternità: non abbiamo bisogno che di qualcuno che ci generi; non abbiamo bisogno di consigli, non abbiamo bisogno di chiacchiere, non abbiamo bisogno di niente; abbiamo bisogno solo di uno che ci comunichi l’Essere, in cui l’Essere sia trasparente.

3. Carità e speranza
« L’Essere - il darsi dell’Essere, il comunicarsi dell’Essere - è carità»45. «L’Essere-Mistero - diceva ancora don Giussani nell’intervista a Libero - non potrebbe essere individuabile, non lo si potrebbe sorprendere e aderirvi se non si svelasse come Carità»46. Carità, la parola espressiva suprema dell’atteggiamento di Dio con l’uomo.
Basta leggere il Vangelo di Giovanni: «Dio ha tanto amato il mondo che ha mandato il Suo unico Figlio»47; oppure la lettera ai Romani: «Quando eravamo nemici di Dio, Dio ha dato Suo Figlio per noi»48; o quella ai Galati: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me»49.
« L’essenza dell’Essere è l’amore, questa è la grande rivelazione»50. «La questione è semplice: ciò che c’è, il mistero che c’è, la realtà dell’Essere, si accetta solo in forza di un’esperienza in cui uno è diventato oggetto di Dio»51.
Se tutto quello che succede noi lo riconosciamo come il darsi dell’Essere, il donarsi di questo Tu al nostro niente, tutto quello che succede nella vita è incremento della certezza sull’Essere, sulla carità dell’Essere verso di noi. «Senza essere presi da quel vortice che è il Mistero-Carità si è alla fine sterili»52. Questo vortice sta accadendo adesso, succede adesso.
Il darsi dell’Essere è «l’invadenza del desiderio, è un desiderio senza fine»53, desta tutto il nostro io, ci rende «uno»: è la vittoria sul dualismo. La carità di Dio desta in noi la carità verso tutto, come riverbero dell’avvenimento dell’Essere.
Diceva ancora don Giussani: «L’esistente, l’io attratto dall’Essere nell’incontro con una forma, con questo amore, si spalanca ad essa, realizzando così la carità». È questa carità verso di noi che ci spalanca. «L’amore è così la formula partecipativa a quello che resterebbe un puro effimero»54. Tutto resterebbe effimero, e invece diventa strada al Mistero.
È la carità di cui parla san Paolo, nella Lettera ai Romani: «Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? [questa è la vittoria sul distacco] Forse la tribolazione [la tribolazione ti separa, introduce un sospetto nel tuo rapporto con Cristo], l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore»55.
Il nulla non ha più così alcuna presa. Questa è la vittoria dell’Essere, il cui esempio più eclatante è il «sì» di Pietro. «Il “sì” di Pietro è l’espressione più grande dell’opera redentrice di Cristo sull’uomo, è l’esplodere del positivo dell’Essere sul negativo della menzogna dell’azione dell’uomo»56.
La commozione di Pietro! A un universitario che gli domanda: «Come è possibile che il mio sì sia un sì commosso (…) come quello di Simone?», don Giussani risponde: «Come fa a non essere commosso? Come può non commuovere il pensiero che il Mistero dell’essere penetri nel mio povero essere umano, altrimenti mortale nel senso totale del termine, destinato alla polverizzazione totale? Come fa il Mistero dell’essere ad amarmi fino a penetrarmi, farmi simile a Sé, e tirarmi su per le braccia come fa la mamma col bambino, prendendomi sotto le ascelle (…)? Ma come può avvenire che Dio faccia così con me, con te? (…) Dio è misericordia»57.
Questa misericordia dell’Essere è l’essenza dell’Essere. Perciò «dobbiamo rendere preferenza umana la presenza di Cristo»58. Guarda tutto e paragonalo con questo amore! Come puoi preferire altri che Gesù?
La carità di Cristo è l’estasi della speranza. Il rapporto dell’Essere con la vita dell’uomo è l’inizio della fine, del compimento. La vita incomincia continuamente come sorgente di Essere. Perciò, se c’è questa speranza, c’è una forza di ripresa in qualsiasi circostanza, che altrimenti non ci sarebbe. «La speranza passa come luce negli occhi e come ardenza nel cuore di quell’Essere che definisce la ricompensa dell’attesa umana: non è un premio perché l’io sia bravo, ma perché l’io vive l’estasi della speranza»59.
È da qui che sorge il popolo. Il Mistero diviene il popolo umano, l’enfasi di una personalità cristiana: ci alziamo al mattino per questo, «ci si alza per una esplosione in se stessi del fatto di Cristo!»60.
Per meno di questo non si vive.


Note
1 L. Giussani, «Per che cosa ci mettiamo insieme? Per liberarci dal male! Chi ci libera è Cristo», messaggio per il Pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto, in Tracce, luglio-agosto 2003, p. 105.
2 L. Giussani, «Dalla mia vita alla vostra», in Avvenimento di libertà. Conversazioni con giovani universitari, Marietti 1820, Genova 2002, p. 10.
3 «Gli stessi capi comunità non capiscono bene queste cose, nel senso di spezzare il loro conformismo così da aprire varchi verso il futuro: non attendono la pienezza. Non c’è attesa. Questo vale in Cl e fuori, nella Chiesa e fuori». (R. Farina, «Ebrei e cristiani alla fine si riuniranno», intervista a don Giussani, Libero, 22 agosto 2002, p. 1; ripubblicato con il titolo «L’Essere è carità», Tracce, settembre 2002, p. 106).
4 Cfr. P. De Carolis, «C’è la prova scientifica. I buddisti sono più felici», in Corriere della Sera, 23 maggio 2003, p. 14.
5 V. Schiavazzi, «La noia ci salverà la vita», in la Repubblica, 22 luglio 2003, p. 26.
6 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», Lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, 22 giugno 2003, in Tracce, luglio-agosto 2003, pp. 1ss.
7 L. Giussani, «Per che cosa ci mettiamo insieme?…», op. cit., p. 105.
8 Ibidem.
9 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 1.
10 Ibidem, p. 2.
11 L. Giussani, «Attraverso l’umano», in Avvenimento di libertà…, op. cit., p. 35.
12 Cfr.: «Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno. Un qualcosa di imprevisto. È questo il metodo supremo della conoscenza. Bisogna ridare all’avvenimento la sua dimensione ontologica di nuovo inizio. È una irruzione del nuovo che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un processo» (A. Finkielkraut, Tirerò Péguy fuori dal ghetto, intervista a cura di S.M. Paci, in 30Giorni, giugno 1992, pp. 58-61).
13 L. Giussani, «Dio e l’esistenza», in L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti 1820, Genova 1999, p. 103.
14 Ibidem.
15 Ibidem, p. 104.
16 Cfr. ibidem, p. 105.
17 Ibidem, pp. 106-107.
18 Ibidem, p. 105.
19 Ibidem.
20 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 1.
21 G. Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano 2003, pp. 122-123.
22 L. Giussani, «Dio e l’esistenza», in L’uomo e il suo destino…, op. cit., p. 107.
23 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp. 139ss.
24 Cfr. L. Amicone, «Avvenimento come incontro. Sempre in lotta contro l’utopia», in Tracce, maggio 2003, p. 24. Cfr. anche C. Dignola, «L’ideologia è morta. Anzi, no», in Tracce, marzo 2003, pp. 62-63.
25 L. Giussani, «Lo scopo e la strada», in Avvenimento di libertà…, op. cit., p. 20.
26 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 1.
27 Ibidem, p. 2.
28 L. Giussani, Affezione e dimora, BUR, Milano 2001, p. 314.
29 Ibidem, p. 364.
30 Cfr. ibidem, p. 363.
31 Cfr. Gv 9,25.
32 Gv 9,10-21.24-25.
33 Gv 9,26-28.30-31.33-38.
34 Cfr. Lc 17,11-19.
35 C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 28.
36 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 1.
37 Cfr. Lc 1,48.
38 R. Farina, «Ebrei e cristiani alla fine si riuniranno», op. cit., p. 106.
39 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 1.
40 Ibidem.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 Ibidem.
45 R. Farina, «Ebrei e cristiani alla fine si riuniranno», op. cit., p. 106.
46 Ibidem, p. 105.
47 Cfr. Gv 3,16-21.
48 Cfr. Rm 5,6-11.
49 Gal 2,20.
50 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 3.
51 R. Farina, «Ebrei e cristiani alla fine si riuniranno», op. cit., p. 106.
52 Ibidem, p. 107.
53 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», cit., p. 2.
54 Ibidem, p. 3.
55 Rm 8,31-35.37-39.
56 L. Giussani, «Fede in Dio è fede in Cristo», in L’uomo e il suo destino…, op. cit. p. 146.
57 L. Giussani, «Attraverso l’umano», in Avvenimento di libertà…, op. cit., pp. 54-55.
58 L. Giussani, Affezione e dimora, op. cit., p. 96.
59 L. Giussani, «Commossi dall’Infinito», op. cit., p. 3.
60 Ibidem.