Che cosa c'entra l'io con le opere

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Julián Carrón

Gli “Stati generali” della Compagnia delle Opere rappresentano un momento di lavoro dei responsabili dell’Associazione a livello nazionale e locale, e si svolgono quattro volte all’anno; si tratta di occasioni in cui illustrare e dibattere le linee operative della Compagnia delle Opere, in cui giudicare la situazione attuale per aiutarsi nelle responsabilità a livello civile e personale. A partire dall’incontro del 10 dicembre 2004, al momento di lavoro è stato affiancato un momento formativo, costituito da una lezione e, la volta successiva, da un’assemblea sulla lezione stessa. La prima è stata tenuta da don Julián Carrón sulla parola “io”, a partire dal libro di don Giussani che raccoglie gli interventi dell’autore alla Compagnia delle Opere, L’io, il potere, le opere (Ed. Marietti)

Che cosa c’entra l’io con un raduno della Compagnia delle Opere? Per fare l’opera occorre l’io. Sembra una banalità dirlo, ma è più evidente che mai che questo, che in altri tempi si dava per scontato, non si può oggi continuare a darlo per scontato. Lo si dava tanto per scontato che nessuno si poneva la questione di come generare l’io: eravamo convinti che, nell’alveo della tradizione in cui siamo nati, l’io veniva fuori, cioè che la società in cui vivevamo era in grado di educare delle persone, di farle diventare mature, con un senso di responsabilità davanti alle sfide della vita. Oggi vediamo che non è più così. E ce ne rendiamo conto quasi ogni giorno. Lo vediamo dappertutto, nella scuola, nella famiglia, nel lavoro. E tutto questo non può non riguardare l’operosità dell’uomo, la presa di iniziativa, la creatività, cioè la messa in moto dell’io nel reale, nell’accettare le sfide che la realtà ci mette davanti.

Non sempre si è consapevoli della situazione e spesso si cade nell’errore di dare per scontato che il soggetto che deve fare l’opera ci sia. Ma questo soggetto è così frammentato, così indebolito che è difficile, ogni volta più difficile, trovare in atto questa energia umana che lo costituisce. È difficile trovare degli “io” che rischino nel fare un’opera: per fare un’opera, per rischiare nel reale, occorrono un’energia e una capacità che non sempre si trovano. È come se non ci fosse un io con la potenza di generare, fino all’opera. Perciò il futuro che ci aspetta sarà di chi è in grado di generare l’io.

Destare l’io

Quanto abbiamo detto si vede oggi soprattutto nella scuola. Quello che si rende evidente nel mio lavoro è che non basta l’istruzione. L’istruzione non è in grado di generare un io in tutta la sua pienezza, di mettere in moto la totalità dell’io. Come direttore di una scuola, anni fa, mi è capitato di trovare dei professori molto, molto competenti, che erano disponibili a insegnare, a trasmettere tutte le loro conoscenze ai ragazzi. Ma mancavano i ragazzi che avevano voglia di ricevere quelle conoscenze. L’incrocio tra uno che ha delle conoscenze e un altro che non ha voglia di apprenderle non porta ovviamente a nulla. Si rende sempre più evidente che il professore deve destare l’io del ragazzo per farlo interessare alla conoscenza che poi deve trasmettere. Senza qualcuno in grado di destare tutto il suo interesse, il ragazzo non è disponibile ad ascoltare neanche per un po’. A volte si pretende di risolvere la situazione con delle tecniche di studio. Tempo fa una persona mi è venuta a proporre delle tecniche di studio per i ragazzi. Mi è bastato un minuto: «Guardi, signorina, il mio problema con i ragazzi è che non hanno voglia di studiare. Lei pensa che le tecniche di studio che intende vendermi rispondano a questo problema?». «No, purtroppo». «Quando avrà una risposta a questo, allora mi interesseranno le sue tecniche di studio». Con un ragazzo che ha voglia di studiare, il professore di solito ha le conoscenze e le tecniche di studio per farlo andare avanti. Ma il problema è come si desta quell’io che è in grado di interessarsi poi a tutto ciò che un altro vuole fargli imparare o che lui ha bisogno di imparare. In verità sappiamo di tutto, ma sempre di meno come si genera veramente l’io, l’io della persona. Per generarlo non basta rispondere con una cosa parziale, anche se interessante, come può essere qualche conoscenza di tipo matematico, letterario, ecc. Occorre veramente una generazione, occorre una paternità, un padre che generi veramente un io: un padre in grado di mettere in moto tutta l’espressività propria dell’io.

L’impatto col reale

Ma come si genera l’io? La prima questione è rendersi conto di che cos’è l’io. L’io, abbiamo sentito dire spesso tra di noi, è esigenza di felicità, è esigenza di totalità. Perciò si genera l’io solo quando si desta questa esigenza. Se non si desta questa esigenza di totalità della ragione, della libertà e dell’affezione, non c’è un io in grado di interessarsi a tutto e quindi disposto a interessarsi e a imparare tutto il resto. Ma l’avvenimento dell’io è possibile soltanto se c’è qualcosa che entra in rapporto con lui destandone il nucleo intimo, tutta la sua esigenza di totalità, di felicità, di verità, ecc. Come si desta dunque questa esigenza di totalità? Nel ragazzo, come in tutti noi, essa si desta nell’impatto col reale. Una volta mi è capitato di portare i miei studenti al planetario. Per caso, dopo quella visita, avevo lezione con loro. Ho domandato: «Che cosa vi ha impressionato di tutto quel che avete visto?». Mi hanno riempito di domande, ma non su quante stelle ci sono, qual è il numero delle galassie, ecc., bensì di domande che riguardavano la totalità: chi ha fatto tutto questo? Ne siamo padroni? Da dove sorge? Erano domande che riguardano la totalità di quello che avevano visto e che aveva messo in moto tutta l’esigenza della loro ragione. È qui dove uno vede che cos’è la ragione e che l’esigenza di totalità è la natura stessa della ragione.

Un’evidenza che commuove

È il reale che desta tutta questa curiosità e, destandola, desta l’io in tutta la sua interezza, in tutta la sua completezza. Noi diciamo sempre che questo destarsi dell’io nell’impatto con il reale è in grado di destare quella conoscenza amorosa in cui consiste la conoscenza del reale e perciò l’io. Dove si trovano tutti i fattori di questo mistero del rapporto dell’io con il reale? Leggendo L’autocoscienza del cosmo, mi sono trovato davanti una frase di don Giussani che sintetizza tutto questo che lui ci ha sempre detto: «Un’evidenza che ci commuove. Due cose potentissime: senza evidenza non saremmo commossi»; senza qualcosa di reale, di evidente, l’io non sarebbe colpito, non sarebbe commosso, ma: «senza commozione non ci sarebbe evidenza» (p. 277). Questo avvenimento di un’evidenza che ci commuove, dove si trovano uniti il reale e l’io; questo avvenimento dell’io in rapporto con il reale, che desta tutta l’esigenza della ragione, che mette in moto tutto, questo è veramente l’inizio di tutto. Per capirlo basta vedere un bambino davanti a un giocattolo: si vede la parabola di tutto quello che fa destare la sua curiosità, la stessa che permette a Newton di interessarsi di una cosa che cade, la stessa!
La questione è che non si desta più questa esigenza di totalità e si cerca di trasmettere delle conoscenze parziali, che però non interessano, perché non hanno nulla a che vedere con quell’esigenza. Se il ragazzo non vede il rapporto, il legame, tra una conoscenza parziale e l’esigenza di totalità del suo io, non può interessarsi ad essa. Parlando di questa esigenza di totalità non compiamo dunque un’astrazione, perché fuori di questo non c’è la ragione per interessarsi al particolare: senza questo legame tra il particolare e l’esigenza del mio io, non mi interesso più a niente. Oggi, non volendo dare risposta a questa esigenza di totalità, non viene fuori l’io. Questo è il guaio di adesso. Nessuno vuole venir via da una neutralità parziale - perché altrimenti dovrebbe lui stesso sfondare quella neutralità di fronte a qualcosa che lo spinge oltre -, e questo blocca l’io, non permette che venga a galla la sua esigenza di totalità.

Andando avanti nella vita uno si accorge che questa apertura originale del cuore non tiene nel tempo, viene meno, anche davanti alle cose belle, alle cose che più interessano: neanche queste sono in grado di mantenerla. Occorre capire fino a che punto siamo bisognosi e che, affinché questa apertura nel tempo regga, tenga, non basta tutta l’energia con cui un bambino viene fuori dal seno di sua mamma, non basta l’impeto con cui uno comincia a lavorare, l’impeto con cui uno si innamora. Non possiamo non fare cenno qui a quel realismo della concezione cristiana dell’uomo che afferma ciò che si chiama “peccato originale”. Dice don Giussani, in uno dei suoi interventi citati in Vivendo nella carne: «È l’abolizione di tale nozione che ha reso possibile tutta la hybris dell’uomo moderno. Ma si tratta di una palese menzogna perché, comunque si concepisca l’idea cristiana di peccato originale, non c’è un’ipotesi di spiegazione più plausibile della dolorosa condizione umana di questa originaria spaccatura e contraddizione posta nel cuore della persona» (p. 230 nota 18).
Questo venir meno dell’io, come conseguenza di tale originaria spaccatura, ci fa capire ancora di più che, se non c’è qualcos’altro, il desiderio di totalità destato dal reale non è in grado di tenere. Tutti sono in contatto con il reale, ma non ci sono tanti “io” con questa esigenza di totalità viva ed espressa! Spesso mi raccontate di gente che avete incontrato, che è rimasta stupita davanti a una creatività nuova, cioè a delle persone che vivono con un impeto di totalità e che per questo non possono non stupire gli altri. Ma da dove vengono queste persone? Vengono dall’aver incontrato qualcosa che risponde al venir meno dell’io. Occorre un luogo nella storia dove riaccada continuamente quel destarsi dell’io che lo rimette in pista, un luogo che lo faccia risorgere, un luogo umano, fatto di persone in contatto con le quali la vita ricomincia, si sprigiona, riparte. È questo che ci è successo nell’incontro con Cristo. È Lui, attraverso la Sua continua presenza nella storia, che continua a ridestare la totalità del nostro io; è Lui l’unico in grado di destare questa totalità.

Qualcosa che dà speranza all’uomo

Perciò incontrare delle persone così è già un segno che nella storia, qui, adesso, presente, c’è qualcosa che dà speranza a questa situazione umana in cui ci troviamo, che rende possibile ripartire, qualsiasi sia la situazione, qualsiasi sia il disastro. Ma non basta dire la parola “Cristo”, anche questa può essere ridotta a un moralismo o a uno spiritualismo: è una concezione del cristianesimo come fatto, come avvenimento. E si vede che è un avvenimento proprio per il destarsi di persone in questo impeto di totalità. Come ci ha ricordato don Giussani di recente, in un’intervista al Corriere della Sera: «Tutto l’inizio nuovo dell’esperienza cristiana - e quindi di ogni rapporto - [perciò di ogni io] non si genera da un punto di vista culturale, quasi fosse un discorso che si applica alle cose, ma avviene sperimentalmente. È un atto di vita che mette in moto tutto» (15 ottobre 2004).

Barlume di pienezza che il cuore desidera

Un atto di vita che mette in moto tutto. Se non partecipa a un luogo dove riaccade costantemente questo atto di vita che mette in moto tutto, l’io prima o poi si ferma. Si ferma pur continuando a fare tantissime cose, ma si ferma nel suo punto centrale. Allora, anche quando si riesce nell’ambito del lavoro, si sperimenta che manca qualcosa. Se questa esigenza di totalità non è soddisfatta, manca qualcosa e questo fa fermare il centro intimo della persona, pur dentro tantissime attività.
Ma perché un luogo come quello descritto è in grado di destare, di mettere in moto e di mantenere in moto la totalità dell’io? Lo desta perché lo compie. Perché la presenza della persona amata riesce a destare il nostro io, anche se rattrappito? Perché è un barlume di quella pienezza che il cuore nostro desidera. Se l’io non trova quel barlume di pienezza che il cuore desidera, si chiude, resta fermo. Invece, ogni volta che questo appare, vediamo l’avvenimento dell’io che riparte, che si mette in moto. Senza l’incontro con ciò che riempie il cuore non c’è la possibilità di vivere nel reale con tutta la capacità, con tutto l’io che va a lavorare, che ha voglia di lavorare, che è nel reale con la sua creatività, suggestività, ecc. È soltanto a questa condizione che l’io può mettere in opera tutta l’energia che ha: tale energia appartiene, infatti, alla natura propria dell’io prima di qualsiasi mossa della libertà; vi appartiene, ma deve essere costantemente ridestata da un luogo di persone che siano state a loro volta ridestate dallo stesso incontro e che perciò possano mettersi sempre in moto, ma essere libere dalla riuscita.

Ora, si è parlato tantissimo dell’origine del capitalismo, della sua radice protestante, calvinista, proprio perché l’io ha bisogno di questa riuscita e il cattolicesimo non sembra in grado di assicurargliela. È proprio il contrario. È soltanto un io destato con tutta la potenza della totalità che può essere in grado di essere “libero” dalla riuscita, nel senso bello del termine. Voglio spiegarmi. Tutti abbiamo bisogno di riuscire facendo un’opera, non siamo indifferenti alla riuscita, perché se no l’opera fallisce. Ma la questione è che questo non basta. Ricordo sempre quello che racconta Pavese, tornato da Roma dopo aver ricevuto il premio Strega: «A Roma, apoteosi! E con questo?» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi 1973, p. 360). Anche la più grande riuscita finisce così. E se finisce così, prima o poi uno si ferma. Che cosa è in grado di destare costantemente il desiderio dell’uomo, rendendolo libero dalla riuscita e perciò mettendolo in moto ogni volta? È soltanto se noi, nell’incontro con Cristo, nell’incontro con un luogo, troviamo la pienezza del cuore, troviamo la soddisfazione dell’io, che possiamo buttarci nel reale, con tutta la creatività umana, liberi dalla riuscita, non perché siamo indifferenti, non perché non ci interessa, ma perché non ci blocca, in tutti i percorsi della vita in cui non riusciamo. Il problema è, infatti, che cosa succede nella vita quando le cose non vanno secondo i nostri pensieri: ci insabbiamo, ci blocchiamo. Se non c’è qualcosa che ci fa ripartire, prima o poi smettiamo.

Ciò che riempie il cuore

È per questo che - scusate questo paragone, ma il fondo della vicenda mi sembra giusto - per una vera riuscita, per un vero rapporto con il reale, occorre un’esperienza della vita simile a quella della verginità. È soltanto il trovare qualcosa che è in grado di riempire il cuore che ci fa rapportare all’altro non come tentativo di possederlo, ma lasciandolo libero di essere se stesso, trattandolo con una gratuità unica, rispettando la sua dignità umana. È soltanto questa pienezza del cuore che ci fa buttare nel reale con tutto il desiderio, senza dipendere dalla riuscita, ci fa mettere in gioco tutta la nostra energia libera - libera! -, per costruire una società più umana che risponda ai bisogni dell’uomo. È la differenza tra Calvino e san Benedetto. Non che i monaci benedettini non abbiano fatto niente, hanno fatto eccome, hanno generato tutta una cultura. Ma da dove è nata questa cultura? Qual è l’origine dell’Europa? L’Europa è nata da uomini pieni di una pienezza che non dà automaticamente la riuscita, ma che mette in moto una energia capace di ricostruire tutta una civiltà. Che grande sfida abbiamo davanti, di fronte a tutto il bisogno umano che vediamo!

Per questo, per avere la possibilità di un’esperienza simile, capisco che occorre una “compagnia delle opere”. È questo che uno sente più urgente: un luogo che costantemente lo rigeneri, lo faccia ripartire, gli faccia fare un’esperienza della vita che lo metta costantemente in moto davanti a tutto, in tutti quegli insabbiamenti in cui tante volte inciampiamo; una compagnia che sia veramente dimora dell’io, un luogo dove l’io sia aiutato, corretto, sostenuto a vivere dentro il lavoro, dentro l’opera, e che ridesti ogni volta la voglia di lavorare, di rischiare, di intraprendere, che risponda a quell’astrazione di un io autonomo che finisce nella solitudine, nella perdita del gusto delle cose; una compagnia reale, insomma. Occorre una consapevolezza di quale sia il vero bisogno nostro come uomini - un bisogno che riguarda la totalità dell’io - e che non possiamo cavarcela da soli. Siamo qui per questo, per questa stima reciproca come uomini, grata, commossa che un altro, tanti altri vogliano condividere con noi il cammino al destino, vogliano condividere con me questa avventura della vita vissuta in tutta la faccenda umana, nello svolgersi del lavoro, delle opere ecc. Quella che viviamo è un’amicizia per il destino.
Una compagnia come la nostra non può che essere al servizio dell’io, della sua capacità di creatività, di generazione, di stima. Perché si può anche raggiungere la riuscita, ma chi ha a cuore il nostro destino, chi ha a cuore il destino dell’io, chi risponde, chi si interessa di quello di cui ha bisogno? Senza questo siamo di nuovo soli e prima o poi ci fermiamo. Invece quello che colpisce tanti che ci incontrano è proprio questo impeto di totalità, questo impeto che ci mette in moto, questo modo di rispondere al problema particolare con quest’impeto di totalità di mezzo. Una compagnia come la nostra deve essere al servizio di questo, con una capacità di valorizzare tutto quello che sorge tra noi, tutto quello che il Mistero fa sorgere costantemente davanti ai nostri occhi per la mossa della libertà e della creatività di ognuno.

Al servizio della creatività sociale

In questi giorni ho riletto l’intervento di don Giussani ad Assago nel 1987. Mi colpiva una cosa, che mi è venuta in mente pensando a voi: «Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società» (L’io, il potere, le opere p. 169). Vale a dire, la politica è al servizio di questa ricca creatività sociale. Ma una compagnia come la nostra non può avere altro scopo che essere al servizio di questa ricca creatività che è tra di noi, non per sostituirsi ad essa, bensì per servirla, per aiutarla a crescere, per farla diventare grande, matura. «Ogni potere», dice ancora, «deve scoprirsi “servitore”, deve sentire la dignità del proprio essere “servizio”, partecipando così alla grande condiscendenza di Dio che per amore del singolo uomo ha dato se stesso» (L’io, il potere, le opere, p. 18). Noi siamo qui, come compagnia, per questo servizio vicendevole, che è partecipare a quella condiscendenza di Dio per amore del singolo uomo. Così è cominciata tutta la storia. «Il Signore disse [a Mosè]: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”» (Es 3,7-8).

Tutta la mossa del Mistero è stata questa misericordia davanti al singolo, perciò tutto, da quel momento - il primo inizio della storia della salvezza - fino all’Incarnazione, fino ad adesso, è al servizio del singolo uomo. Dobbiamo essere attenti come Dio a quello che sorge, al servizio di quello che un Altro muove, suscita tra di noi, che è il modo di obbedire a una misura che non è la nostra, perciò di collaborare con l’unico creatore di tutto, con l’unico che è in grado di destare tutta la capacità dell’io. Occorre uno sguardo come quello che descriveva Pier Paolo Pasolini: «Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico. Vedo sempre le cose come un po’ miracolose, ogni oggetto è un po’ miracoloso. Ho una visione, in maniera sempre informe, in certo qual modo religiosa» (da un’intervista, 1970). Questo miracolo che accade davanti a noi è il miracolo che noi dobbiamo servire, che noi dobbiamo accogliere. Diceva ancora don Giussani nell’intervista al Corriere: «La mia partenza ha preso le mosse [guardate che similitudine con quella condiscendenza di Dio] da un modo di guardare le cose come “passione per”, come “amore”, un atteggiamento di apertura che non lascia partire da soli e mette in moto la vicenda di un rapporto. È impossibile affrontare una situazione in cui c’entra la vita senza che questo contesto operi uno scardinamento, una sorpresa».

È questa «passione per» che muove tutto e che deve muovere anche noi riguardo a tutti quelli che entrano in rapporto con noi in questa amicizia. Per accogliere tutta questa ricchezza che il Mistero fa sorgere davanti ai nostri occhi, occorre un’amicizia, una unità in atto di adulti liberi, in grado di aiutare non schematicamente a rispondere a tutta quella diversità creativa che c’è tra di noi.

Un punto ultimo di riferimento

Potranno sorgere così in questa compagnia degli «io» per il popolo: degli “io” come fattori sociali. È impossibile che un io che nasce così non abbia il desiderio di affrontare i bisogni che ha davanti, «in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo “opere”» (L’io, il potere, le opere p. 168) per tentare di rispondervi. È quello che ci ha ricordato di recente il cardinale Ruini, a proposito di ciò che sta succedendo in Europa: i cristiani non possono protestare soltanto, ma devono trovare nuove forme perché la fede possa continuare a essere protagonista; non per imporre uno schema cristiano, ma per amore a questo destino dell’uomo che è sempre la questione decisiva, che il centro delle nostre preoccupazioni sia la persona. Perciò, diceva, «è necessario sviluppare il nostro patrimonio civile, culturale e religioso che fa perno sul ruolo centrale del soggetto e della persona».

Ma questa “compagnia delle opere” noi da soli non siamo in grado di generarla: abbiamo bisogno di un punto ultimo di riferimento che non può esser altro che quello che ha generato tanti di noi, il movimento. È questo il punto ultimo di giudizio, non come tentativo di ingerenza nella gestione della vostra compagnia, ma come aiuto per vivere in compagnia, per risorgere, altrimenti prima o poi prevarranno altri interessi sull’ideale. È soltanto questo punto ultimo che rende possibile una “compagnia delle opere”, e l’esserne consapevoli è tutt’altro che secondario per lo scopo della vostra compagnia. L’energia viva che rende esperienza tutto quanto abbiamo detto è quello che chiamiamo “carisma”, questa potenza che troviamo tra di noi, che abbiamo incontrato, che genera costantemente una compagnia per l’io. Soltanto così ci accompagniamo, si cammina insieme verso il destino e si fa veramente l’esperienza, si compie la verifica della speranza dell’unica vera riuscita che interessa tutti, che è quella della vita. Senza questa riuscita, tutte le altre sono insufficienti. Il mio augurio è che, nel fare le cose, nel fare tutto quanto facciamo insieme, ci accompagniamo come uomini, siamo veramente compagni dell’unica vera riuscita che interessa.