L'attrattiva vincente

Gs
Julián Carrón

Appunti dall’intervento di don Julián Carrón Triduo pasquale di Gioventù Studentesca.
Rimini, 26 marzo 2005

Sono molto contento e grato del vostro invito, perché mi consentite di condividere con voi questo momento, perché c’è un posto anche per me tra di voi. Quello che voglio di più è essere con voi, che diventiamo compagni al destino, che io possa sentire voi come compagni al destino, e che voi uno a uno possiate sentire me come compagno al destino, cioè alla felicità, a quella intensità del vivere per cui siamo nati, a quella vibrazione intensa dell’umano per cui vale la pena vivere.
Sono contento di essere qui perché mi date la possibilità di raccontarvi dov’è l’origine di questa intensità, come è nata la mia passione per Cristo nel rapporto con don Giussani.
Il mio rapporto con don Giussani ha avuto soltanto questo scopo, mi ha interessato il rapporto con lui soltanto per questo scopo: per un’intensità ogni volta più grande del rapporto con Cristo, che faceva diventare tutto di un’intensità prima sconosciuta a me. All’inizio, prima di conoscerlo, mi è finito tra le mani uno dei suoi primi testi, era il primo libro pubblicato in spagnolo, Tracce di esperienza cristiana. Una delle cose che subito mi aveva colpito era la sua concezione della solitudine, perché da tutti, e anche da me, la solitudine era concepita come qualcosa di sentimentale. Invece don Giussani diceva che la solitudine è sinonimo di impotenza, cioè del fatto che uno non sa cosa fare nella vita, come vivere e perciò si sente solo, perché nessuno lo accompagna. Può essere circondato da tante persone, forse simpatiche, con cui si trova bene, ma che sono confuse come lui; per questo stare insieme non toglie la solitudine, perché è un’altra cosa: è impotenza. Per rispondere a questa impotenza occorre un altro, diverso, molto diverso, che abbia qualcosa da dire alla mia impotenza. Perciò ho incominciato ad amare don Giussani prima di conoscerlo, quando cominciavo a familiarizzare con la sua proposta, perché era proprio una risposta a questa mia impotenza del vivere.
La prima cosa che mi ha colpito era come parlava dell’esperienza. Esperienza non era più soltanto provare qualcosa, ma avere un giudizio, arrivare a un giudizio su quello che vivevo, e per questo occorreva un criterio di giudizio: il cuore, l’unico in grado di percepire quando qualcosa corrisponde alla propria umanità.

Guardate che questa è una novità assoluta, perché tutti ci dicono e vi dicono: «Siete poveretti, non capite niente, vi spiego io». L’unico in grado di sfidarli e di dire: «No!» è don Giussani, che dice: «Tu! Tu hai qualcosa dentro di te che ti consente di capire, di giudicare tutto, ed è il tuo cuore».
Un’esaltazione così del mio io non l’avevo mai trovata prima. Un’esaltazione della mia persona, un mettere in moto così la mia persona, non l’avevo mai trovata. E soprattutto questo mi dava uno strumento per vivere tutto, per lanciarmi nella vita e vedere quando qualcosa corrispondeva alle esigenze del cuore e quando no. Lo dicevo sempre al don Gius: «Ti sarò sempre grato, perché da quando ti ho incontrato ho cominciato a fare un cammino umano, a vivere la vita come un’avventura che mi portava da qualche parte, che mi consentiva di fare dei passaggi, di capire di più, di dire: “Questo è vero e questo non è vero”». Cominciavo a giudicare, a usare tutto, anche - e questo è micidiale - gli sbagli. Perché quando uno sbaglia è come se dicesse: «Questo non è, ma c’è l’altro!»; è come un passo. Per questo non abbiate paura degli sbagli, perché tutto serve se uno è leale con l’esperienza del cuore e col giudizio che ne viene; l’unica cosa è non avere paura dello sbaglio, non essere formali senza mettere in gioco la propria umanità, il proprio cuore, perché il cuore capisce più di qualunque altra cosa quando qualcosa gli corrisponde.
Da allora non ho avuto più paura della mia umanità, dei miei desideri, delle mie esigenze, perché la mia umanità era mio alleato, non era il nemico che faceva confusione, non era qualcosa da far tacere o da rimettere costantemente a posto, ma qualcosa che mi spingeva. Sarò sempre grato di questo, perché senza questa umanità, senza lo svelarsi di questa umanità, senza il ribollire in me di questa umanità non avrei mai saputo dire sul serio che cosa era Cristo. Perché Cristo non lo capiscono i sassi, Cristo lo capisce soltanto il cuore, perché si propone al nostro io come risposta al nostro cuore, alle esigenze del nostro cuore, della nostra umanità. Tu capisci la tua ragazza molto più che i sassi, perché la vibrazione che produce in te la sua presenza la senti tu, la sperimenti tu, la sorprendi in te e per questo la ami, e per questo ti rendi conto che è diversa. Perché lei è lei, e si sente commossa davanti a questa vibrazione del tuo io, e anche lei vibra. È una cosa unica. Senza questo tutto è formale, come tante volte tutto è piatto: si dicono delle cose, ma manca l’umano, manca la vibrazione, non si capisce niente; non ti interessa niente, niente riesce a interessarti e a trascinare tutta la tua umanità.

Invece quando è così, è il ribollire di tutto l’io. E allora Cristo, il cui nome pur dicevo da piccolo, ma era come fuori, fuori dalla mia umanità, in un certo senso, fuori dalla realtà, fuori dalle cose che vivevo, fuori, come giustapposto, come appiccicato, entrava, ha incominciato a entrare nella vita, fino alle mie viscere, fino al midollo del mio io, della mia umanità e della mia vita.
Ed è stato lui, proprio lui, il don Gius, che mi ha introdotto a questo. È questa esaltazione della carne, di cui parlava prima don Giorgio, che accadeva e io vedevo nel presente questa vittoria del mio io, della mia umanità. E perciò la percepivano anche gli altri, come vi racconterò dopo.
Perché succedeva questo? Perché quando mi avvicinavo al don Gius… mi ricordo una volta che sono andato a incontrarlo perché aveva certe preoccupazioni da raccontarmi: mi sono sentito guardato in un modo che non dimenticherò più! A volte, negli ultimi mesi, quando pranzavo con lui mi diceva: «Ma tu non ti ricordi!». Eh - gli dicevo io -, come, non mi ricordo?! La mia vita è stata segnata da quel giorno lì», perché uno sguardo senza misura non l’avevo mai trovato. Avevo conosciuto gente grande, cristiani grandi, ma una cosa così, uno sguardo senza misura non l’avevo mai trovato. Poi ho ricordato una cosa che mi è piaciuta fin dall’inizio, gliel’ho riletta una delle ultime volte a tavola; don Giussani aveva detto che lo sguardo di Cristo rimane uno sguardo umano, ed è lo sguardo di Cristo che dà forma a uno sguardo umano (cfr. L. Giussani, Un caffè in compagnia, Rizzoli, Milano 2004, pp. 63-64). E anni dopo ho capito che quel momento di cui vi ho raccontato, quello sguardo con cui sono stato guardato - senza misura - era lo sguardo di Gesù. Cristo è risorto perché quello sguardo rimane, e uno si trova davanti una persona, un uomo che lo guarda così. Non rimane soltanto il racconto dei Vangeli, di una cosa che è successa nel passato. Dello sguardo con cui Zaccheo si è sentito guardato, io avevo letto tante volte, ma è soltanto quando un uomo ti guarda così adesso che tu capisci che Cristo è risorto e che rimane tra di noi. Non come un ricordo, perché tanti, tanti ti parlano di Zaccheo, ma nessuno ti guarda così. Qualcuno che racconta, che ti parla del passato, non basta; ci sono tanti che ti parlano del passato, ma nessuno ti guarda così nel presente. Per guardare così nel presente occorre un’altra cosa: c’è bisogno di un’altra cosa. Perciò, come abbiamo studiato nella Scuola di comunità, non soltanto rimane l’opera di Cristo, non soltanto rimane il Suo insegnamento, non soltanto rimane la Sua ispirazione, non soltanto rimane l’insieme di regole cristiane, perché questo non basterebbe a nessuno di noi, alle esigenze del cuore di nessuno di noi. Occorre Lui, è Lui che permane vivo tra di noi, e io lo so per questo sguardo. E quando uno ospita, quando accoglie questo sguardo, tutto, tutto incomincia a essere diverso, perché una vibrazione comincia a entrare nella vita. Di che cosa è fatto l’io? Della ragione; non è un sentimentalismo, ma è la ragione! Allora uno è introdotto, come siamo introdotti noi, a usare la ragione in un modo diverso, con una profondità mai pensata prima, come coscienza del reale secondo tutti i fattori, perché c’è qualcuno che ti fa sperimentare qualcosa che trascina la ragione fino a una potenza, a riconoscere certi fattori che senza quella presenza non saresti in grado di riconoscere. E la ragione è come facilitata a diventare se stessa, ha la capacità di entrare nel reale, di riconoscere il reale secondo tutti i fattori, ma siccome noi siamo poveretti, ci fermiamo sempre all’apparenza. Per questo c’è qualcuno che desta tutta la nostra affezione e ci fa entrare nel reale in un modo che non pensavamo esistesse. E allora la ragione è in grado di riconoscerlo.

E la vita è un’altra cosa. Per questo don Gius ci diceva: «Io vedo tutto quello che vedete voi, ma voi non vedete tutto quello che vedo io». Ci portava a vedere quello che vedeva lui. Perché c’era, c’era. Ma è soltanto se uno ti introduce alla totalità del reale, al Mistero, che tutto diventa segno, tutto diventa occasione di entrare nel Mistero. Mi ricordo che una volta ero nella mia stanza, stufo, non ce la facevo più, ma siccome avevo già cominciato a fare il lavoro di usare la ragione così, non mi sono fermato alla mia noia, a sopportare di essere stufo, e usando la ragione fino alla fine, a un certo momento, mi trovai con l’Origine del reale che era lì; sapevo che ero arrivato alla fine, a riconoscere il Mistero presente nella mia stanza, anche se ero da solo, per il cambiamento che vivevo, perché la Sua presenza, il riconoscere la Sua presenza riempie di letizia, di gioia.

Poi ho cominciato a sfidare anche gli altri. Un giorno mi chiama un’amica che era stata ricoverata all’ospedale psichiatrico; era preoccupata, e cominciamo a chiacchierare; a un certo momento la sfido, perché le persone, anche quando sono ammalate, restano persone e vivono il rapporto con l’Infinito; anche se stanno in un ospedale psichiatrico, non sono determinate soltanto dalla loro malattia, sono delle persone, così la sfido dicendole: «Qual è la differenza tra te che sei nella stanza dell’ospedale e io che sono nella mia stanza? Tutti e due abbiamo la possibilità di riconoscere il Mistero adesso - adesso -, e io posso non riconoscerlo stando fuori dall’ospedale come tu puoi non riconoscerlo stando lì. Non siamo diversi». Erano le otto di sera, finiamo la chiacchierata. La mattina successiva, alle sette, mi chiama e mi dice: «Sai che cosa mi è successo ieri? Dopo la nostra conversazione ho fatto quanto mi hai detto e mi sono addormentata così in pace che ho dormito per quattro ore di fila, fino a mezzanotte, e anche se erano passate solo quattro ore, quando mi sono svegliata ero così rilassata che mi sembrava un sogno. Poi, siccome i medici non volevano che rimanessi sveglia, mi hanno dato qualche pastiglia perché mi riaddormentassi». Io le dico: «Vedi, perfino l’ospedale psichiatrico può essere un luogo di vita, se uno riconosce Cristo».

Chi ti impedisce adesso di dire le Lodi? Nessuno. Chi ti può forzare a recitarle? Nessuno. Allora datti una mossa! Tutto è affidato alla tua libertà e alla mia. Ed è questo uso della ragione che esalta la libertà, perché allora qualsiasi circostanza, fino all’ospedale psichiatrico, diventa un luogo di vita, perché anche quello, se io riconosco Cristo, può essere il luogo della mia libertà, dove io sperimento la soddisfazione totale in cui consiste la libertà; e perciò, ogni volta di più che facevo questa strada della ragione, sapete che cosa succedeva? Ero stupito di essere libero nelle circostanze, libero, libero.
Che cosa significa questo? Che uno non dipende dalle circostanze, siano brutte o meno brutte, perché quello che soddisfa la vita c’è sempre, nelle circostanze brutte e in quelle belle! Anche andare alle isole Canarie, senza Cristo, è uno schifo, ci si annoia sempre di più, perché se manca Lui, che cosa può fare il nostro cuore che è desiderio dell’Infinito? Invece, con Cristo, sono libero nelle circostanze, libero nella riuscita o meno, libero.
La libertà è un bene così scarso oggi: tutti parlano della libertà, ma di questa soddisfazione totale no, perciò tanta gente è così poco libera che in ogni circostanza deve cambiare: se è a scuola, deve avere una faccia che corrisponda alla scuola, con gli amici deve averne un’altra, a casa un’altra ancora: dove uno è se stesso? Dove finalmente uno si esprime come è.
Guardate che è proprio così. In tanti, anche coloro che si riempiono la bocca della parola “libertà”, uno dopo l’altro, si piegano alle circostanze. Perciò la libertà o è nelle circostanze o dov’è? Se non siamo liberi nella scuola, se non possiamo essere noi stessi con gli amici o quando non c’è la riuscita, se dobbiamo sempre cambiare faccia piegandoci a quello che dicono tutti, la nostra è una libertà per modo di dire.

Invece quando è come ho descritto, tutto diventa il centuplo, perché essendo libero, come io mi sentivo libero facendo lezione, incominciavo a essere commosso di quanto succedeva. Questa vera liberazione mi consentiva di essere me stesso, perciò di andare a far lezione e di goderne. Non ero preoccupato della faccia che dovevo avere, di come i ragazzi rispondevano. No, andavo per essere io, per diventare me stesso. Tante volte avrei pagato per non fare lezione, perché ero stanco o perché ero giù, ma devo riconoscere che andando a scuola a fare lezione così, tornavo alla mia stanza lungo il corridoio commosso di quello che il Signore faceva attraverso di me; non Gli importava se ero giù o preoccupato: faceva accadere cose incredibili e perciò ogni volta ero più attaccato, andavo a fare lezione più contento. Mentre gli altri preti cercavano qualche alibi per andarsene e non fare l’ora di religione, l’unico prete che ha resistito per dieci anni sono stato io, ogni volta più contento. L’ultima volta che ho fatto lezione il primo che è intervenuto ha detto: «Io ero ateo, poi è finita che ho fatto il prete!».

È un’intensità del vivere mai conosciuta prima. Io so che cosa vuol dire la vittoria di Cristo nella carne. Queste cose non le sapevo prima, ho dovuto arrendermi all’evidenza che accadeva davanti ai miei occhi, come i discepoli. Per questo, quando qualcuno mi dice che i Vangeli non sono veri, dico: «Tu sei impazzito!», perché quello che hanno scritto i discepoli non potevano neanche immaginarlo; per poter inventare qualche cosa bisogna poterlo immaginare e io vi giuro che queste cose che vi ho detto non avrei potuto immaginarle prima; di tantissimi particolari posso parlare soltanto perché sono fatti accaduti. È questo che mi faceva diventare “matto” per Cristo: non era soltanto fare la meditazione su Cristo, ma era vedere che cosa Cristo introduceva nella vita: una passione; come diceva san Tommaso, «la vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione». La mia affezione a Cristo è cresciuta perché trovavo in Lui la mia più grande soddisfazione, e per questo è diventata la cosa più cara in assoluto; perciò mi sorprendo del fatto che quando succede qualcosa tutto mi rimanda a Lui, me Lo fa presente. L’altro ieri sono andato a cena con un gruppetto di universitari della Statale di Milano. Hanno iniziato con un canto portoghese, Lela, poi hanno cominciato a chiacchierare, a fare domande. A un certo punto li ho fermati e ho domandato: «Vi è successo qualcosa ascoltando Lela? A me mancava qualcosa». Chi mi era più vicino ha risposto: «Mi sono ricordato della mia morosa». A me mancava Cristo; tutto me Lo fa ricordare, tutto diventa occasione di memoria, non di ricordo, come tante volte pensiamo, no! Tutto diventa occasione di memoria perché tutto me Lo rende presente, me Lo avvicina, non Lo invento per consolarmi! Di tutti gli altri ragazzi che c’erano, nessuno ha pensato a niente, soltanto colui che era innamorato ha pensato alla sua morosa: gli altri non hanno pensato a niente, non è venuto loro in mente niente; non hanno inventato Cristo, perché Cristo è qualcosa che c’è e che è entrato nella nostra vita, e tutto te Lo fa ricordare, tutto te Lo rende presente.
Questo è un punto di non ritorno: una volta che entra nella vita, non si può vedere neanche un tramonto senza di Lui, senza che te Lo faccia presente; come si fa a sentire una bella canzone, a sorprendersi davanti a una bella giornata, a stare nel traffico caotico, a essere stanchi senza che tutto questo te Lo renda presente? È come se dal di dentro dell’esperienza - è una frase del don Gius che mi piace da morire - il Mistero ti dicesse all’orecchio, dal di dentro delle viscere della tua esperienza: «Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu gusti».
Adesso capite: quando mi chiamò don Giussani per venire in Italia, che cosa potevo dire? Stavo benissimo in Spagna, ero professore ordinario nella facoltà di Teologia di Madrid, avevo una casa stupenda nella zona più bella di Madrid e una valanga di amici. Cambiare Paese a cinquantaquattro anni, capite? Ma dal primo giorno ho detto a don Gius: «Guarda, io a te non posso dire di no su niente, e non perché devo fare il buon prete o il buon ciellino, ma perché dopo questa intensità di vita a cui mi hai introdotto non posso dirti di no. Per cinque anni ho pensato che non ce la facesse, perché doveva mettere d’accordo tutti, anche il mio Cardinale, che non voleva lasciarmi andare. Ma poi ha fatto una mossa un po’ audace: ha scritto al Papa, e allora mi sono spaventato un po’, perché forse ce la faceva. E alla fine ce l’ha fatta! Davanti a tutte queste cose mi era evidente che c’era di mezzo il Mistero, non era soltanto un piacere da fare al don Gius, perché per mettere tutti d’accordo… non è che mancasse lo Spirito Santo, anzi, era lì! E capivo bene che non era una questione di gusti, perché ero chiamato dal Mistero a rispondere e senza di esso non avrei avuto una ragione adeguata per un cambiamento così. Per questo appena ho intuito che c’era di mezzo il Mistero, ho detto: «Io ci sto».
Tutto quello che è successo da allora ha acquistato una portata unica, ma tutto era già così dall’inizio: ho voluto dire io di sì, e sono molto contento che nessuno mi voglia risparmiare il dramma del dire di sì, come adesso non voglio essere qui con voi in modo formale; voglio essere tutto me stesso con voi, come voglio dire Tu al Mistero ogni volta, a Cristo ogni mattina, con tutto il mio io, con tutta la vibrazione del mio io e così ho voluto dire di sì a don Gius; dentro la mia piccolezza, dentro il mio male, ma dire di sì.

Quando mi domandano della mia responsabilità, rispondo che adesso la mia unica responsabilità è la stessa di prima: dire di sì a Cristo, perché il movimento non è un’organizzazione, non è un pezzo dell’organizzazione che viene riempito, ma è il sì. È questa l’unica cosa che genera il popolo, come abbiamo visto, e che genera l’unità; non è un’organizzazione, non è un ruolo, ma è un’attrattiva vincente. Perciò è indispensabile questo pezzo, questo particolare, questo punto storico che adesso passa attraverso di me - soltanto a pensarlo vengono i brividi! -. Per questo aspetto che almeno diciate una preghiera per me, perché questo mio sì, detto e ridetto adesso con tutta la consapevolezza di cui sono capace, è la modalità con cui divento compagno del vostro cammino. Io a questo ci sto, perché è questo il metodo che il don Gius ci ha insegnato sempre: la preferenza, un punto umano, un’attrattiva umana è l’unica in grado di trascinare tutto il nostro io, se no poveretti noi, ma poveretti fino al midollo. Se non c’è qualcosa che ci affascina e che ci trascina tutto il nostro io, non c’è niente da fare.
Questa è una sfida alla libertà di tutti. Io non sono venuto per risparmiare il vostro sì, ma per sfidare il vostro sì. Ognuno deve rispondere; non lo dico per rimproverarvi qualcosa, ma perché non vi perdiate la cosa più bella, che è dire di sì e sentire la vibrazione di questo sì! Perché se non diventa vostro, se non è vostro il sì, se non sentite l’emozione di dire questo sì, perdete il meglio, perché voglio essere io a sentirlo il bene, voglio essere io a dirti: «Ti voglio bene!». E in questo senso non vogliamo che nessuno ce lo risparmi: è facile, è molto facile, si chiama semplicità di cuore.