L'intervento di don Julián Carrón sul titolo del Meeting

Julián Carrón

«La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini; né i tesori che racchiude la terra né che copre il mare sono da paragonare a essa; per la libertà, come per l’onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita»[1].
Che non sia cambiato molto il valore della libertà per gli uomini da quando Cervantes scrisse questa frase lo dimostra questa affermazione dell’allora cardinal Ratzinger con cui inizia un suo intervento sulla libertà: «Nella coscienza dell’umanità di oggi la libertà appare di gran lunga come il bene più alto, al quale tutti gli altri beni sono subordinati»[2].
La somiglianza delle due affermazioni non deve però farci sfuggire la differenza del modo con cui era concepita la libertà allora e come lo è adesso. Per Cervantes essa era un bene così prezioso che per la libertà «si può e si deve mettere a repentaglio la vita». Invece oggi siamo in una situazione in cui è difficile trovare uomini che si avventurino nel cammino della libertà. Possiamo dire che la libertà oggi è un bene tanto prezioso quanto scarso. Basta domandarsi quanti uomini veramente liberi conosciamo. Ci troviamo di fronte a un desiderio enorme di libertà, ma allo stesso tempo all’incapacità d’essere veramente liberi, cioè noi stessi, nella realtà. È come se, di fatto, ognuno si piegasse a quanto ci si aspetta da noi in ogni circostanza: così si ha una faccia nel lavoro, un’altra con gli amici, un’altra ancora in casa… Dove siamo veramente noi stessi? Per non dire quante volte uno si sente soffocare nelle circostanze della vita quotidiana, senza la minima idea di come liberarsi, se non aspettando di cambiare le circostanze o che queste cambino per il loro gioco stesso. Alla fine uno si trova bloccato, sognando una libertà che non arriva mai. In un momento storico in cui si parla tanto di libertà assistiamo al paradosso della sua assenza. E quel che è ancora peggio, ci accontentiamo di vivere senza di essa, come denunciava Kafka: «Si temono la libertà e la responsabilità e ciascuno preferisce soffocare dietro le sbarre che si è costruito per se stessa».
 «La storia degli ultimi secoli potrebbe riassumersi come una riduzione progressiva della persona all’individuo spersonalizzato o alla libertà formale, mettendo tra parentesi la libertà reale»[3]. Cerchiamo di capire perché.

1. La riduzione moderna: la libertà come assenza di legami
La genialità di Gesù ci ha lasciato nella nota parabola evangelica del Figliol Prodigo una pagina memorabile che può aiutarci a capire qual è stato il percorso moderno quanto alla libertà che l’ha portata a questo formalismo[4].
Tutti l’abbiamo ben presente.
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano».
La parabola descrive una casa normale della Palestina del tempo di Gesù: un padre con due figli. Non si segnala nessun conflitto nei rapporti della famiglia. Il fatto di avere sostanze da spartire vuol dire che si tratta di una famiglia con un certo patrimonio. Il testo lo conferma ulteriormente con altri particolari: hanno dei servi, il padre porta l’anello, hanno a disposizione bei vestiti e sandali e un vitello grasso. Tutti segni del tipo di famiglia a cui apparteneva il figliol prodigo. Quella era casa sua, il luogo dove era figlio e, quindi, voluto bene. La casa: il luogo dove uno è veramente se stesso, perché non deve dimostrare niente a nessuno: è voluto bene per il fatto di essere figlio. La casa era il luogo dove tutto era suo e la realtà gli era amica, dove poteva sentirsi dire da suo padre: «Tutto ciò che è mio è tuo». Tutto era ordinato alla soddisfazione dei suoi bisogni nella familiarità col padre.
Malgrado tutto questo, il figlio più giovane non sembra soddisfatto e chiede al padre la parte del patrimonio che gli spetta per andarsene via da casa. Il fascino dell’autonomia ha vinto nel suo cuore. Il suo desiderio di libertà lo spinge a tagliare i legami più significativi. Non sembra importargli molto di doversi allontanare dal padre e dalla sua casa, dal suo luogo d’appartenenza. Forse tutto ciò gli appariva un ostacolo alla sua ansia di libertà; la casa gli stava stretta. Occorreva rompere i vincoli che lo tenevano legato a una casa, cioè a una tradizione, e andar lontano da essa[5]. Niente si sarebbe potuto, allora, frapporre al compimento dei suoi desideri. La strada sarebbe stata così tutta spianata. Pensava in questo modo di poter raggiungere una vetta di libertà mai sperimentata fino ad allora.
Cosa ha potuto spingere il figlio a una scelta così radicale? Forse era stato attratto dalla fama di città come Alessandria, Antiochia, Efeso o Corinto, che gli apparivano piene di promesse di libertà per un giovane con sostanze come lui. Ma, in realtà, questa attrattiva ha preso il sopravvento in lui già prima, quando aveva ceduto al fascino dell’autonomia che s’era insinuato nel suo cuore. Non ha saputo resistere alla seduzione di potersela cavare da solo, senza padre, né casa, né vera appartenenza.
La realtà lo desta presto dal sogno. Il ragazzo «sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto». Non trova niente all’altezza dei suoi desideri, tanto è vero che niente lo soddisfa abbastanza da farlo rimanere legato. Tutto passa senza lasciare traccia. Nessun legame, nessuna storia con nessuno. L’assenza di vincoli inizia a mostrare il suo vero volto: la solitudine. «Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno» (v.14). Comincia a rendersi conto che l’autonomia era soltanto un’illusione.
Ma il peggio stava ancora per venire. «Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (v.15-16). Ecco la fine dell’avventura dell’autonomia[6]. Senza padre e con un padrone. Come casa, quella dei porci. Dov’era finita la promessa di libertà? Il desiderio di pienezza non riesce a saziarsi nemmeno con le carrube che mangiavano i porci, perché nessuno gliene dava. La noia diventa la sua compagna[7]. Il suo destino non importa a nessuno[8]. È il compiuto realizzarsi della rottura di tutti legami, fino a quello con la realtà, che adesso gli risulta inospitale e estranea[9].
La libertà, però, non è per niente automatica, come dimostra il figlio maggiore. Questi resta a casa, con il padre, lì tutto è suo. Lui però non se ne rende conto, come dimostra la sua reazione davanti alla misericordia del padre al ritorno di suo fratello. S’arrabbia, non vuole partecipare alla festa, rinfaccia a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (vv. 29-30). Si può vivere in casa come servi, senza la consapevolezza gioiosa d’essere figlio. «Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). Il formalismo del figlio maggiore non mantiene della libertà più che il nome.
Sotto le macerie, nel figlio giovane qualcosa resta: il suo cuore. Neanche tutti i disastri fatti possono togliere dal suo cuore la nostalgia della libertà: «Allora rientrò in se stesso [cioè, nel suo cuore] e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!» (v. 16). Neanche morto di fame può fare a meno di desiderarla. E con la libertà, colui che la rendeva possibile: suo padre. E in fretta decide: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre» (vv. 18-20). È la memoria del padre che tiene desta la nostalgia della libertà. Con questa decisione, riconosce che l’unica vera libertà è quella filiale: non vivere come orfano, essendo figlio, ma vivere abbracciando coscientemente la condizione di figlio[10].
Questo è sempre possibile anche per noi ora, perché c’è sempre un padre che ci aspetta: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v. 17).
Qualsiasi sia la condizione in cui ci troviamo, ognuno di noi è chiamato alla libertà, a riconoscerla come «il più prezioso dono che i cieli abbiano mai donato agli uomini». Il percorso può essere travagliato, ma è sempre possibile. Come?

2. Che cos’è la libertà?
2.1 Sentirsi liberi: un fenomeno di soddisfazione
«Come facciamo a sapere che cosa è la libertà? Le parole sono dei segni con cui l’uomo identifica una determinata esperienza: la parola amore individua una determinata esperienza, la parola libertà individua una determinata esperienza»[11].
Siccome si tratta d’una esperienza, il punto di partenza di una presa di coscienza è guardare l’esperienza, come ci ha insegnato sempre don Giussani.
Se noi osserviamo con lealtà, quando ci sentiamo liberi?    
Immaginiamo il già classico esempio tra noi di una ragazza che viene a sapere che i suoi amici fanno una festa e le viene voglia di andare. Va da suo papà e questi, sorprendentemente e in contrasto con le sue abitudini, dice alla ragazza di no. Lo sconforto e la rabbia della ragazza sono segno inequivocabile che non si sente libera. Solo quando, dopo un dialogo piuttosto acceso, finalmente suo papà acconsente a lasciarla andare, lei si sente libera.      
Noi ci sentiamo liberi quando vediamo soddisfatto un desiderio. Perciò la libertà è la soddisfazione d’un desiderio. È la verità che si nasconde nell’impressione immediata, istintiva che tutti noi abbiamo della libertà e che si esprime palesemente nella semplice frase: «Essere liberi è fare ciò che pare e piace».

2.2. La totalità come dimensione del desiderio
Ma è pur vero che noi non ci accontentiamo della soddisfazione dei nostri desideri più immediati. Quanto più si compiono questi desideri tanto più viene a galla che desideriamo qualcosa di più. Quando eravamo bambini ci accontentavamo delle caramelle. Oggi non più. La nostra esperienza, se uno fa attenzione a quello che essa ci dice ed è leale con quello che emerge da essa, ci fa scoprire la vera natura del nostro desiderio, che non si esaurisce mai.
Noi tutti abbiamo fatto l’esperienza che non sempre la vita ci castiga, impedendoci di soddisfare il nostro desiderio. In tante occasioni noi riusciamo a compiere quello che desideriamo, ma questo non ci soddisfa definitivamente. Dopo poco siamo daccapo. Per questo io ho pensato spesso che si incomincia a rendersi conto del dramma del vivere, non quando la vita risponde di «no» al desiderio, ma quando risponde di «sì». Quando risponde di «no» uno può ancora aspettare l’occasione in cui risponda affermativamente, ma il dramma incomincia quando la vita risponde di «sì», e questo non basta. Quando un uomo fa questa esperienza con il lavoro, la moglie, le cose, … finisce per domandarsi: allora, che cosa basta? «Quid animo satis?».
Ho raccontato tante volte quello che mi è capitato andando a trovare degli amici a Barcellona. C’era una amica che dipingeva. Il suo sogno era fare una grande mostra. Finalmente è riuscita nel suo intento. Il successo è stato, come lei stessa mi raccontava dopo, aldilà di tutte le previsioni. Così non le potevo credere quando mi diceva che il giorno del grande successo aveva trascorso tutto il pomeriggio piangendo. Perché uno può piangere dopo un successo? La mia amica non era normale, aveva forse qualche problema? No, aveva fatto la stessa esperienza di Pavese il giorno in cui gli è stato consegnato il Premio Strega: «A Roma, apoteosi. E con questo?»[12]. Perché non basta, perché dopo il successo non si è pienamente soddisfatti? Che cosa ci soddisfa, allora?
L’insoddisfazione dopo il successo cosa mi insegna riguardo alla natura del mio desiderio, della mia natura d’uomo? Pavese l’aveva intuito benissimo: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità»[13].

2.3. Libertà come capacità di soddisfazione totale
La libertà, allora, proprio a partire dalla esperienza di soddisfazione di desideri immediati e parziali, si svela come la “capacità” della soddisfazione totale, completa, cioè come capacità della perfezione, della realizzazione di sé, vale a dire del proprio desiderio d’uomo[14].
Nessuno come Leopardi ha descritto la natura del desiderio umano:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana»[15].
Questa è la grandezza unica dell’uomo: il suo desiderio è «ancora più grande che sì fatto universo». È proprio per questa ampiezza del nostro desiderio che noi possiamo «accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia». Quello che per tanti è la disgrazia della vita - sentire l’insufficienza di tutto, patire mancamento e vòto -, è per Leopardi il maggior segno di grandezza della natura umana. Possiamo accusare quella insufficienza proprio perché, per natura, strutturalmente, abbiamo dentro di noi la capacità di giudicare: è ciò che la Bibbia chiama cuore. Senza la possibilità di giudicare da se stesso quello che gli corrisponde o meno, l’affermazione della dignità dell’uomo non è che una parola vuota, e l’uomo, in fondo, dipende dal potere. Come si desta il desiderio? Questa è una questione decisiva oggi, in cui il desiderio non si può dare per scontato perché, come dice A. del Noce, «il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, cioè, senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano)»[16].

3. Il cammino della libertà
Qualsiasi sia la situazione in cui ognuno di noi si trova, il reale continua a venirci incontro, destando in noi stupore, cioè la curiosità e il desiderio di quello che abbiamo davanti. È sempre l’impatto col reale che desta la nostra umanità, in tutte le sue dimensioni e capacità.
«Le capacità che sono in noi non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono in atto da sole. Sono come una macchina che, oltre ad essere stata costruita da altri, ha bisogno anche di un altro che la metta in marcia. Ogni capacità umana, in una parola, deve essere provocata, sollecitata per mettersi in azione»[17]. Ciò che la mette in moto è l’impatto con la realtà.
È quindi il reale che desta il desiderio, in quanto si mostra carico di attrattiva. Lungi dal restare indifferente, noi siamo originalmente attratti dalla bellezza - dal bene -del reale. Nell’incontro con la realtà che attrae, la libertà è messa in moto. In questo impatto col reale, che accade in continuazione - perché non possiamo pensarci al di fuori della realtà - e che ci attira, la libertà è già dall’inizio chiamata in causa. Come? Deve rispondere alla chiamata dell’attrattiva del reale. La libertà è chiamata qui a compiere il primo passo del suo cammino: a decidere se cedere o meno all’attrattiva del reale che ha davanti. Questa non neutralità della libertà di fronte al reale fa sì che le diverse opzioni di fronte al significato del reale non siano ugualmente ragionevoli. Chi respinge l’attrattiva del reale sta già censurando un dato e per questo è meno ragionevole che chi ne prende atto[18].
Questo mette in evidenza un primo aspetto di autopossesso che caratterizza la libertà[19]. Qualsiasi sia l’attrattiva del reale, questa non elimina infatti la capacità di scelta della libertà. Anzi, la mette in moto. Tutta l’imponente attrattiva dell’Essere non risparmia all’uomo la sua capacità di decidere, ne costituisce al contrario la vera e originaria provocazione.
In base a che cosa decidiamo di aderire o meno a questa provocazione? In base alla corrispondenza che il reale realizza con le esigenze del cuore. Il contraccolpo che l’Essere provoca in me costituisce il giudizio in base al quale mi muovo[20]. Quando davanti a delle belle montagne mi stupisco e dico: «Che bello!», do un giudizio su quelle montagne, come quando grido di dolore davanti a una insofferenza ingiustamente inflitta a me o ad altri. Questo giudizio velocissimo, per cui sorprendo se una cosa mi corrisponde o no, è ciò che prepara e orienta la mossa, il passo, a cui la libertà è chiamata[21].
Ma questo, come dicevamo, è solo il primo passo del cammino della libertà. Domandiamo: che cosa si gioca nella scelta, in ogni scelta? L’adesione a ciò che appare e riconosciamo come un bene. La scelta è cioè in vista del compimento, del fine. Perché voglio avere capacità di scelta? Per aderire a ciò da cui sono colpito e attratto. «La mia libertà - scrive J. R. Jiménez - consiste nel prendere della vita ciò che mi sembra meglio per me e per tutti”». La ragazza vuole avere capacità di scelta per poter decidere di andare alla festa, cioè per aderire a un bene intravisto. È proprio in questa adesione che trova soddisfazione il suo desiderio e, quindi, essa si sente libera.
La capacità di scelta è propria di una libertà ancora in cammino verso la sua piena realizzazione, che consiste nella adesione a quello che corrisponde, cioè al Bene, al destino. Fermarsi soltanto al primo aspetto - la possibilità di scelta - è, di fatto, rinunciare al compimento della libertà, perché io non esercito la capacità di scelta che ho, se non nell’aderire a quello che desidero. La capacità di scelta ha, quindi, come scopo l’adesione. «Io non posso concepire né tollerare alcuna utopia che non mi lasci la libertà che è più cara: la libertà di vincolare me stesso»[22]; di vincolarmi a ciò che mi compie, all’infinito che cerco nei piaceri, al Tu che mi chiama attraverso l’attrattiva delle cose, al Tu che mi fa essere, a Colui cui posso dire: «La mia verità sei tu, il mio io sei tu, io sono Tu che mi fai».
È in questa adesione a quello che mi corrisponde che il desiderio trova soddisfazione.

4. Il rapporto col Mistero, fondamento della libertà dell’uomo
Come spiegare questo mio, tuo, desiderio di totalità, o “d’infinità”, come diceva Pavese? L’unica ipotesi ragionevole è l’Infinito. Questa apertura alla totalità è il segno più palese che l’uomo è rapporto diretto col Mistero che lo fa. Io mi trovo addosso questo desiderio, ma chi me lo da? Un altro che mi fa così. È questa apertura alla totalità che mi fa essere libero, capace di scegliere tra diverse cose, di non essere ridotto a parte dell’ingranaggio delle circostanze, o del potere. Péguy l’ha espresso con la sua genialità unica:

«Questa libertà
è il più bel riflesso che ci sia al mondo perché essa mi ricorda, essa mi rimanda,
perché essa è un riflesso della mia propria libertà,
che è il segreto stesso e il mistero
e il centro e il cuore e il germe della mia creazione»[23].

La libertà finita, cioè creata, rimanda alla libertà infinita. La libertà infinita è all’origine della mia libertà. Senza quella, la mia non ci sarebbe.
L’uomo è rapporto diretto col Mistero. «L’io è rapporto con l’infinito. Tutto il dinamismo dell’io si svolge e tende a una perfezione, cioè a un compimento di sé che in tutto quello che raggiunge non c’è mai. Ciò a cui l’uomo tende è qualcosa che è al di là, sempre al di là: è trascendente. Così la coscienza di sé percepisce l’esistenza di qualcosa d’altro, cioè di Dio, del Mistero, Dio come Mistero. Dio è l’estremo limite a cui il desiderio dell’uomo tende»[24].
Questo è quello che dice il catechismo, che l’anima è data direttamente da Dio. Questa è la verità più grande della dottrina cristiana della creazione. Il fatto che noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che siamo chiamati a un rapporto unico e diretto con Lui. La vocazione della vita è questo rapporto. Chiamati, non a qualsiasi cosa, ma a Dio, alla felicità piena. L’uomo è capax Dei.
È questo che impedisce che l’uomo sia ridotto ai suoi antecedenti biologici, psicologici, sociologici, ecc. Il tentativo dei “maestri del dubbio” di ridurre l’io all’uno o all’altro di questi fattori fallirà sempre. Certo, possono incidere su di me, ma non mi determinano fino al punto di ridurmi in balia di essi. L’uomo non può essere mai ridotto a un pezzo d’un ingranaggio delle circostanze interne o esterne. L’io può sempre emergere al di sopra delle circostanze, dei propri sentimenti o stati d’animo.

«[…] Solo perché non mi sono fatto da me posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e, così, avrei perso la libertà»[25].
Siamo diretto, irriducibile rapporto con l’Infinito. Questa è la ragione ultima della grandezza dell’uomo. È tale, questa grandezza, che a volte ci fa paura. Perché occorre un bel coraggio per essere all’altezza dei nostri desideri infiniti. Non è facile trovare delle persone che vivano tutta l’ampiezza dei loro desideri, capaci di «desiderare l’impossibile», come il Caligola di Camus[26].
Per questo la libertà è a rischio oggi, perché pochi prendono sul serio il proprio desiderio, accettano di stare alla sua altezza. «La peggiore minaccia per la libertà non sta nel lasciarsela togliere - perché chi se l’è lasciata togliere può sempre riconquistarla -, ma nel disimparare ad amarla»[27]. Perché, come dice il poeta spagnolo Rafael Alberti,    «La libertà non l’hanno coloro che non hanno la sua sete».
Scrive Maria Zambrano: «L’uomo si trova di nuovo incatenato alla necessità, ma ora per decisione propria e in nome della libertà: ha rinunciato all’amore a vantaggio di una funzione organica, ha scambiato le sue passioni con dei complessi, perché non vuole accettare l’eredità divina credendo con ciò di liberarsi della sofferenza, della passione che tutto il divino soffre in mezzo a noi e dentro di noi»[28].
Invece è nell’accettare questa “eredità divina” ciò in cui consiste la libertà. In primo luogo, perché solo il Mistero divino può destare in me quel desiderio di totalità, quell’ultima irriducibilità a tutti i condizionamenti, senza cui non c’è libertà. E, in secondo luogo, perché solo il Mistero infinito può essere l’oggetto adeguato della mia libertà. La libertà finita, proprio in quanto capacità di soddisfazione totale, definita dal suo desiderio d’infinito, può compiersi solo nella libertà infinita.
Perciò la libertà è adesione all’Essere, al Mistero che ci fa, al Tu reale e misterioso da cui sono fatto in questo preciso istante. È nell’accettare il Padre, come il figliol prodigo, che divengo libero[29]. Forse noi, come lui, abbiamo avuto bisogno di andare via di casa per sentirne poi la nostalgia quando abbiamo perso tutto. E così abbiamo scoperto il bene d’avere un Padre, e che riconoscerLo non mette a rischio la nostra libertà, ma la rende possibile.
Il Mistero che ci ha fatto sa della nostra resistenza a questo abbandono nelle sue braccia di Padre.

«Conosco bene l’uomo. Sono io che l’ho fatto. È uno strano essere.
Perché in lui gioca quella libertà che è il mistero dei misteri.
Dopo tutto gli si può chiedere molto. Non è troppo cattivo.

Ma quello che non gli si può chiedere, santo dio, è un po’ di speranza,
un po’ di fiducia, insomma, un po’ di distensione,
un po’ di rinuncia, un po’ di abbandono nelle mie mani,
un po’ di remissione. Si irrigidisce sempre»[30].

Il rifiuto dell’Infinito non avviene senza conseguenze per la libertà. Questo rifiuto lascia la libertà senza oggetto adeguato. E senza l’adesione al Mistero infinito l’uomo resta in balia di tutte le forze di potere in campo in qualsiasi circostanza. Senza il riconoscimento del Mistero come radice e compimento di ogni desiderio e attrattiva parziale, la libertà non è che un’illusione. Se la libertà è l’esperienza di una soddisfazione, possiamo verificare lo stato della nostra libertà in cammino dal grado di soddisfazione vera che viviamo nel rapporto con persone e cose. Possiamo fare quello che ci pare e piace, ma tutti noi possiamo vedere quante volte in una giornata abbiamo un’esperienza reale di libertà, cioè di pienezza, di soddisfazione nel nostro buco, nella contingenza delle scelte quotidiane, nella adesione ai beni e alle attrattive parziali. Quello che di solito prevale è l’asfissia, il sentirci stretti ovunque, aspettando di scappare. Tanto è vero che tanti fuggono nell’immaginazione, per sopportare il «mancamento e vòto». «Senza riconoscimento del Mistero la notte avanza, la confusione avanza e - come tale, a livello di libertà - la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura che è come se non si attendesse più niente o si vive senza desiderare più niente, eccetto che la soddisfazione furtiva o la risposta furtiva a una breve richiesta»[31].
Invece è aderendo a questo Mistero in ogni cosa che l’uomo diventa libero. È lì dove può trovare la soddisfazione del desiderio di totalità. La nostra grandezza, come ci ricordava Leopardi, è sentire vibrare dentro di noi questo desiderio d’infinito, ma essere consapevoli della natura del nostro desiderio ci fa capire che non siamo in grado di rispondere ad esso. Come l’uomo riceve il desiderio di totalità, deve ricevere anche il compimento del desiderio. Il compimento c’è, è Colui che glielo desta, ma l’uomo non deve irrigidirsi, deve abbandonarsi. Senza questo abbandono all’Unico in grado di compierla, la libertà rimane smarrita, senza oggetto ultimo.
È soltanto questo che ci libera dai capricci, dalla dittatura dei desideri, che altro non è se non una riduzione del desiderio a qualcosa a portata di mano. Perciò, scrive don Giussani, «la religiosità cristiana sorge come unica condizione dell’umano. La scelta dell’uomo è: o concepirsi libero da tutto l’universo e dipendente solo da Dio, oppure libero dal Dio, e allora diventa schiavo di ogni circostanza»[32].
Ma come può l’uomo avere la coscienza chiara e l’energia affettiva per aderire al Mistero fintanto che questo resta mistero? Come può l’oggetto ancora oscuro e misterioso destare l’energia della libertà per compierla? Fino a quando l’oggetto è oscuro, uno può immaginarsi quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto come gli pare e piace.
È quanto succede nell’esperienza amorosa. Fin quando la persona da amare resta misteriosa, finché non è apparsa nell’orizzonte della mia vita la persona che prenda tutto il mio io, continuo a fare quello che mi pare e piace. Il fatto di sapere che esista non mi libera dall’essere in balia di tutto quanto appare davanti a me.    
So che desidero l’Infinito, che questo Infinito c’è perché ho sempre la nostalgia di lui, come diceva Lagerkvist, ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualsiasi oggetto, che poi mi lascia insoddisfatto. Questo è il destino dell’uomo, a meno che - come dice L. Wittgestein, nei Diari 1936-37 - “Dio” si degni di visitarlo: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi (…) Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire (…) Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti»[33].

5. Il compagno che rende storicamente possibile la libertà
È solo quando il Mistero, come la persona amata, svela il suo volto che l’uomo può avere la chiarezza e l’energia affettiva adeguata per aderire, cioè per impegnare tutta la sua libertà. Con Gesù il Mistero è diventato «una presenza affettivamente attraente», al punto da accendere il desiderio dell’uomo e sfidare come nessun altro la sua libertà, cioè la sua capacità d’adesione. All’uomo basta cedere all’attrattiva vincente della Sua persona. Come accade all’uomo innamorato, è la presenza affascinante della persona amata che desta in lui tutta la sua energia affettiva: basta cedere al fascino di colei che ha davanti.    
 
«Ciò che occorre è un uomo,
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose,
ciò che occorre è un uomo,
un passo sicuro, e tanto salda
la mano che porge che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi, e salvarsi»[34].
 
E come la persona amata, il Mistero presente lo scopro in un incontro. Imprevisto. Proprio una sorpresa! Come è capitato a Giovanni e Andrea, i primi che hanno incontrato Gesù, e gli sono rimasti attaccati per il resto della loro vita. La loro libertà è stata così sfidata dalla Sua eccezionalità unica, che non hanno potuto andare avanti nella vita senza fare i conti con quella persona. Con Lui è accaduta una corrispondenza così impossibile altrove, che non l’hanno abbandonato più. «La loro libertà autentica pertanto - ci ha detto il Papa nel messaggio rivolto a questo Meeting - è frutto dell’incontro personale con Gesù». La libertà di quelli che l’avevano incontrato ha trovato un compimento senza paragone. Il centuplo quaggiù, dirà poi Gesù. Cioè una soddisfazione cento volte più grande, come anticipo di quella piena[35]. E loro non erano dei visionari. Altrimenti, prima o poi, Lo avrebbero abbandonato. Si sarebbero sentiti smarriti anche loro.
È in questo rapporto che si chiarisce l’altrimenti confuso desiderio dell’uomo. Tanto è vero, come dice Guglielmo di Saint Thierry, che Cristo è «l’unico in grado di insegnarmi a vedere ciò che desidero»[36]. È proprio Lui, Cristo, a svelare pienamente l’uomo all’uomo[37]. «Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo», disse il famoso retore romano Gaio Mario Vittorino.
Il Mistero, per richiamare l’uomo senza che s’irrigidisca, come diceva Péguy, ha usato il metodo della preferenza. Come ci introduce all’amore, non attraverso un discorso, ma facendoci innamorare, così, per svelarci che cos’è la libertà, suscita tutto il nostro desiderio di totalità mettendoci davanti un’attrattiva così potente che possiamo fare, nello stesso momento, “in contemporanea”, l’esperienza del compimento di questo desiderio.
Caro cardo salutis. La carne, il Verbo fatto carne, è il cardine della salvezza. Una presenza carnale affettivamente attraente è l’unica in grado di vincere le nostre resistenze. Un’attrattiva vincente è l’unica speranza per noi, così sempre tentati dal fascino dell’autonomia, di quella affermazione quasi omicida di noi stessi che ci porta nel nulla. Solo l’attrattiva dell’Essere che brilla nel volto di Cristo, presente qui e ora nella carne della Chiesa, può sconfiggere il fascino del nulla.
Perché questo uomo ha questa attrattiva? Chi è costui? È Cristo, l’uomo pieno di Dio o Dio fatto uomo. Un uomo che accetta di appartenere totalmente al Mistero, al Padre. Accetta che sia un altro che gli riempie il cuore. In Lui si realizza la vocazione dell’uomo. E per questo è l’unico a introdurci nel mistero del Padre, nel quale si compie la nostra libertà. Figli nel Figlio (cfr. Gal 4,4-7).
Ma perché Lui si sveli a me come il compimento della mia libertà occorre la mia libertà di lasciarlo entrare nella profondità del mio io. In realtà scopriamo di avere trovato Colui che compie il nostro desiderio di libertà nel momento stesso in cui diventiamo liberi, cioè suoi. Non si svela prima che io abbia deciso liberamente per Lui.
Cristo non è venuto infatti a risparmiarci l’esercizio della libertà, come a volte ci piacerebbe. Che cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera? È il dramma di Dio espresso nella genialità di Péguy:    
 
«Ho voglia, sono tentato di metter loro la mano sotto la pancia
per sostenerli nella mia larga mano,
come un padre che insegna a nuotare a suo figlio,
nella corrente del fiume,
e che è diviso tra due sentimenti.
Perché, da una parte, se lo sostiene sempre e se lo sostiene troppo,
il bambino ci confiderà e non imparerà mai a nuotare.
Ma anche se non lo si sostiene bene e al momento buono,
quel bambino si troverà a bere

Tale è il mistero della libertà dell’uomo, dice Dio.
E del mio governo verso di lui e della sua libertà.
Se lo sostengo troppo, non è più libero
E se non lo sostengo abbastanza, cade.
Se lo sostengo troppo, espongo la sua libertà
E se non lo sostengo abbastanza, espongo la sua salvezza:
due beni in un certo senso quasi ugualmente preziosi.
Perché quella salvezza ha un valore infinito.
Ma cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera?»[38]
 
Non possiamo evitare di decadere, di venire meno. Ma allora, come ci si ridesta in continuazione? L’unica possibilità è che il cristianesimo continui ad accadere come avvenimento. Senza il continuo riaccadere dell’avvenimento cristiano non c’è possibilità di libertà reale. E il suo permanere è segno anche della sua verità: come il vero, esso dura. In questo modo, la libertà può verificare di essere ridestata in continuazione e messa in moto in modo da poter realizzare se stessa.    
Dove permane l’avvenimento cristiano? Nella Chiesa. «La libertà di Dio realizza la sua presenza attraverso degli uomini che la sua presenza ha cambiato, degli uomini cambiati dalla sua presenza. … La sua presenza, la presenza del Dio fatto uomo si rivela attraverso questi uomini cambiati. Il segno adeguato di questo cambiamento è questa capacità di unità, agli uomini impossibile, che si chiama, con un nome intero, Chiesa»[39]. Attraverso questi uomini il Mistero continua a rendere possibile la libertà reale dell’uomo, il cui primo cambiamento è la comunione tra di loro[40]. La comunione è la vittoria sull’assenza di legami, frutto del peccato.
La Chiesa diventa così il luogo della libertà, possibile per chiunque s’avvicina ad essa. Solo se è una comunità che rende possibile nella storia la libertà reale, potrà rispondere all’obiezione che la libertà non è possibile nell’appartenenza. Invece di assenza di legame, appartenenza vissuta.
Ma è possibile questa libertà reale nella comunità della Chiesa solo se essa mi educa al riconoscimento del Mistero, l’unica realtà che può rendermi libero nelle circostanze. Questo è il senso profondo della frase di sant’Ambrogio: «Ubi fides ibi libertas»[41]. Solo una comunità così può realizzare l’aspirazione a una dimora dove abiti la libertà: «L’aspirazione a liberarsi e a costruire una dimora nuova dove la libertà possa abitare - scrive Hannah Arendt - è senza precedenti e senza eguali in tutta la storia del passato»[42]. Il legame con Cristo nella Chiesa ricostruisce il legame con tutto e tutti.
Il cristianesimo viene incontro oggi a questo desiderio di libertà dell’uomo del nostro tempo. Tuttavia, se vuole avere qualche chance, il cristianesimo non può proporsi all’uomo in nessuna delle versioni riduttive (moralismo, spiritualismo, discorso), ma attraverso la testimonianza d’una esperienza: il cristianesimo deve mettere sul palcoscenico del mondo “uomini liberi”. Lo spettacolo di un uomo libero nelle circostanze, nel reale: lavoro, vicende, circostanze… È questo che rende testimonianza a Cristo.
Perciò don Giussani affermava alcuni anni fa, in una intervista, che quello di cui l’uomo oggi ha bisogno non è neanche un discorso religioso, ma «l’esperienza di un incontro (…) Si incontra il Fatto cristiano imbattendosi in persone che questo incontro hanno già compiuto e la cui vita da esso, in qualche modo, è stata già cambiata. (…) Non è un incontro sentir citare il Vangelo o ascoltare anche per ore i pensieri che il Vangelo fa venire in mente a una data persona. Questo è assistere a uno spettacolo, quando lo è, di reazioni sentimentali o suggerimenti dialettici che prendono le mosse da uno spunto religioso. Invece l’incontro è con un avvenimento, che può essere anche una persona che parla, ma ciò che colpisce non è tanto la parola in sé quanto il cambiamento comunque avvenuto in colui che parla»[43]. È ciò che documenta questa lettera:
 
«Carissimo don Carrón,
raccontavo ad un’amica dei Memores una mia recente esperienza e lei mi ha suggerito di scriverle. Ecco quanto il Signore mi ha dato di capire.
Sono stata ricoverata in ospedale per una settimana per svolgere degli esami a seguito della malattia che ho da 13 anni: il morbo di Parkinson (insorto quando avevo 38 anni). Mi hanno messo in una camera dove già era ricoverata una signora anziana, che presentava dei gravi problemi connessi alla mia stessa malattia: non riusciva a stare ferma per i movimenti involontari né di giorno né di notte e aveva delle contratture anche a livello della gola e della lingua, per cui non riuscivano neppure ad alimentarla. Sfinita dalle distonie e dalle discinesie alla fine, isterica, gridava: non trovava altro mezzo per farsi sentire che urlare. Per me voleva dire non dormire e non riposare né di giorno, né di notte.
Mi sono subito resa contro che dovevo portare pazienza perché quando uno viene ricoverato in ospedale sa che può incappare in situazioni così. Cercavo di calmarla come potevo, chiamandola per nome, rincuorandola, facendole sentire la mia presenza, anche perché lei non aveva la possibilità di essere assistita quotidianamente dai parenti.
Dopo due giorni di questa situazione mi sono ritrovata veramente stanca; sono perciò andata a cercare la caposala, le ho detto che non ce la facevo più perché non potevo riposare mai e le ho chiesto se poteva fare qualcosa; poi me ne sono tornata in camera in lacrime.
Appena entrata, però, mi sono ricordata di quello che don Giussani ci ha insegnato: “Vivi la circostanza come il Mistero che ti si fa incontro”. E allora, guardando quella donnetta che si contorceva tutta e che urlava, che gridava un bisogno, una drammatica richiesta di aiuto, ricordando le parole del Gius è cambiata la posizione del mio cuore e della mia mente. Sicuramente mi avrà fatto bene piangere, però non è stato quello che mi ha rilassato: ciò che mi ha dato la forza di continuare con lei è stata proprio questa coscienza che il Mistero mi si faceva Presenza dentro quella situazione lì, in quella camera lì. E allora mi sono detta: “O la circostanza la subisco, oppure la vivo, l’abbraccio”.
Così ho cominciato, oltre che a rincuorarla, ad essere anche più attenta alle sue reazione ai dosaggi dei farmaci che le venivano somministrati. Dopo un paio d’ore è entrato il primario con altri medici e si chiedevano cosa fare per aiutare questa signora, perché non riuscivano a mettere a punto la terapia. Allora ho trovato il coraggio di riferire quello che avevo osservato riguardo alle reazioni ai dosaggi dei medicinali e ho aggiunto che quando si sentiva rincuorata e in compagnia di qualcuno (anche se venivano a trovare me), si calmava: segno che aveva certamente bisogno di una terapia, ma anche un bisogno di compagnia.
Da quel momento ogni due o tre ore, quando entravano a visitarla, chiedevano a me come aveva passato quel periodo dopo il nuovo dosaggio della terapia, al punto che verso sera una dottoressa chiese al primario se io ero diventata la referente di questa paziente. Il primario, scherzando, rispose: “Eh sì! Non possiamo dimetterla: la signora sta diventando utile per capire bene come gestire questa terapia!”. A quel punto ho però fatto presente che dovevano chiedere anche a me come stavo, perché la situazione era veramente insostenibile per tanto tempo. Il primario, allora, mi ha garantito che avrebbero sveltito gli esami per dimettermi. E così è stato.
Alla sera è entrato in camera un infermiere per comunicarmi che, anche se solo per quella notte, avrei potuto dormire in una camera singola in modo da riposare. Io allora mi sono scusata per la reazione avuta al mattino, dovuta alla terribile stanchezza, ma lui mi ha risposto: “Signora, lei non deve scusarsi per nulla e sappia, comunque, che è l’unica che ha resistito”.
Quando sono stata dimessa un’infermiera mi ha ringraziato per l’aiuto che avevo dato anche a loro, non continuando a suonare il campanello, ma cercando di accudire la paziente per quello che potevo fare io e mi ha detto: “Faccia il possibile: non cambi mai il carattere che ha, resti sempre così!”.
Ho voluto raccontare questa esperienza proprio perché secondo me un fatto è stato lampante: non che sono brava io - che sono riuscita a vivere questa circostanza in un modo diverso dalle altre persone che prima di me erano capitate in quella camera -, ma che è per la presenza di un Altro che la sofferenza può essere sostenuta e diventare vivibile. È il riconoscimento che il Mistero si vive dentro la circostanza che la cambia, che cambia te innanzitutto: vivi meglio tu la circostanza e fai vivere meglio quelli che con te sono chiamati a viverla».
 
Ecco la libertà in atto: non un io incastrato nell’ingranaggio delle circostanze, ma un io che trova nel riconoscimento del Mistero nella circostanza la possibilità della libertà reale. «Se l’uomo vuole essere libero da tutto ciò che lo circonda - diceva don Giussani al Meeting 1983 -, se vuole essere libero da tutto ciò che esiste attorno a lui, deve essere dipendente da Dio. È la dipendenza da Dio la libertà dell’uomo».
Noi, come questa signora, possiamo fare esperienza della libertà in ogni circostanza perché abbiamo conosciuto un uomo libero che ci ha insegnato a vivere tutte le    circostanze nell’unico modo in cui non ci schiacciano: come riconoscimento del Mistero, cioè come figli[44]. Lui, noi ne siamo stati testimoni, ha vissuto la sua vita e la sua malattia così e ci ha insegnato a guardare la positività del reale in qualsiasi circostanza. È a lui che noi saremo sempre grati. L’omaggio più bello che gli possiamo offrire in questo primo Meeting senza di lui è quello di essere testimoni per tutti quelli che ci incontrano che l’unica possibilità di libertà reale è il riconoscimento del Mistero presente. Grazie, ancora una volta, don Giussani.
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[1] M. de Cervantes, Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia, BUR, Milano 2005, p. 471. «La libertad, Sancho, es uno de los más preciosos dones que a los hombres dieron los cielos; con ella no pueden igualarse los tesoros que encierran la tierra y el mar: por la libertad, así como por la honra, se puede y debe aventurar la vida» (M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha).
[2] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 245.
[3] P. Gilbert, «Libertà e impegno» in La Civiltà Cattolica, 3505 (1996) 147, p. 22.
[4] Cfr. la sintesi di questo percorso in J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, op. cit., 251-260; P. Gilbert, «Libertà e impegno» in La Civiltà Cattolica, 3505 (1996) 147, p. 17-20. Cfr. anche M. Borghesi, «La aparición de las nociones de tolerancia y libertad religiosa a partir de las guerras de religión y la Ilustración inglesa y francesa»: R.C.I. Communio 26 (2004) pp. 38-53; G. del Pozo, «Génesis y desarrollo de la doctrina de la Iglesia sobre la libertad religiosa a partir de la Revolución Francesa»: R.C.I. Communio 26 (2004) pp. 54-81.
[5] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, op. cit., pp. 258-259: «Nella mentalità dominante… istituzione, tradizione, autorità appaiono in sé come il polo opposto alla libertà. La caratteristica anarchica del desiderio di libertà si rafforza, perché le forme regolate della libertà comunitaria non soddisfano. Le grandi promesse dell’inizio dell’epoca moderna non sono state mantenute, ma il loro fascino è inalterato. La forma democraticamente ordinata della libertà non può più oggi essere difesa semplicemente con questa o quella riforma di legge. La questione tocca i fondamenti stessi. Si tratta di cosa è l’uomo e come egli possa vivere giustamente in quanto singolo e nella collettività».
[6] Un esempio moderno di questo è J.P. Sartre. J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, op. cit., pp. 259-260: «Sartre vede la libertà dell’uomo come la sua condanna. ... L’uomo non ha alcuna natura, ma è solo libertà. Deve vivere la vita da qualche parte, ma comunque essa finisce nel vuoto. Questa libertà senza un significato è l’inferno dell’uomo. … La libertà assolutamente anarchica come determinazione essenziale dell’essere umano - si svela, per colui che cerca di viverla, non come l’esaltazione suprema dell’esistenza, ma come la vanificazione della vita, come il vuoto assoluto, come la definizione della perdizione. Nell’estrapolazione di un concetto radicale di libertà, che per Sartre stesso fu esperienza di vita, diviene visibile che la liberazione della verità non produce la pura libertà, ma la toglie. La libertà anarchica, assunta in modo radicale, non redime l’uomo, ma ne fa una creatura fallita, un essere senza senso».
[7]La stessa che F.M. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano 1990, p. 329. «Tutto era ormai così divenuto a noia che non c’era da far cerimonie in fatto di svaghi, purché fosse una cosa interessante». Davanti alla scena di un giovane suicida, uno dei presenti commenta: «Perché avevano da noi cominciato così spesso ad impiccarsi ed a spararsi, come se si fossero divelti dalle radici, come se avessero person tutti il terreno sotto i piedi?» (p. 348).
[8] A. J. Heschel, Il canto della libertà, Qiqajon, Magnano 1999, p. 55: "L’uomo diventa sempre più scipito, deprezzato, insignificante ai suoi stessi occhi. Invece, senza il senso della significazione ultima e della preziosità ultima della nostra esistenza, la libertà diventa un’espressione vuota.
[9] «È vero, l’uomo europeo è malato di nichilismo - scrive Giovanni Reale -. Non quello totale, che lo stesso Nietzsche voleva in qualche modo recuperare, ma quello che non riconosce nessun valore irreversibile, e che maschera con una patina dorata gli antivalori: il guadagno, la potenza, i vari modi in chi il nulla si traveste». (G. Reale, citato in N. Tiliacos, «I danni del nichilismo passivo», in Il Foglio, 25 marzo 2004, p. 4.)
[10] Che la figura compiuta della libertà finita sia la figliolanza lo aveva ben visto Freud, che non a caso imposta la sua teoria per risolvere alternativamente il problema del Padre.
[11] L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1977, p. 119. Cfr. anche R. Guardini, Persona e libertà, La Scuola, Brescia 1987, pp. 57-58: «La libertà non è per niente un “problema”, bensì un dato di fatto. La consapevolezza di essere libero non è il risultato di una dimostrazione, ma immediato contenuto d’esperienza».
[12] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 341.
[13] C. Pavese, Il mestiere di vivere, op. cit, p. 190.
[14] È quello che chiediamo nella colletta della settimana XX del tempo ordinario, amare Dio “in ogni cosa” e “sopra ogni cosa”: «Oh Dio che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio».
[15] G. Leopardi, «Pensieri» LXVIII, in Poesie e prose, Mondadori, Milano 1980, vol. 2, p. 321.
[16] A. del Noce, Lettera a Rodolfo Quadrelli, Inedito 1984.
[17] L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, BUR, Milano 1994, p. 19.
[18] Perciò il Concilio Vaticano II ha insistito nel dire che l’atteggiamento che porta all’ateismo non è mai originario bensì secondario (Gaudium et spes 19-20). Nessun uomo nasce originalmente ateo, deve diventarlo, eliminando alcuni fattori della sua esperienza umana. Non è senza la sua libertà, benché sia lo stesso Concilio a calibrare molto misuratamente tanti altri fattori che possono portare a un concreto uomo a non saper riconoscere nella sua vita la realtà come segno che attira e apre al Mistero.
[19] Cf. R. Guardini, Persona e libertà, op.cit., p. 101: «Mi esperisco libero quando provo di appartenermi; quando provo che agendo dipendo da me stesso, che l’azione non transita attraverso di me e perciò spetta ad un’altra istanza, ma sorge in me, e quindi è mia in quel senso peculiare, ed in essa sono mio». Cfr. H. U. von Balthasar, Teodrammatica. II. Le persone del drama: L’uomo in Dio, Jaca Book, Milano 1982, pp. 183-316. Non è questa la sede per dimostrare la libertà contro i deterministi. Cf. A. Bausola, Libertà e responsabilità, Vita e Pensiero, Milano 21995. A noi basti adesso dire con C. Fabro, Il libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme 2000, p. 282: «La prima certezza esistenziale è la libertà». E con Bergson, che «la libertà è un fatto, e tra i fatti che osserviamo, non c’è nessuno che sia così chiaro».
[20] H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, p. 17: «Esiste nella nostra società una diffusa paura di giudicare… Dietro il non volere giudicare si cela il dubbio che nessuno sia libero, il dubbio che nessuno sia responsabile o possa rispondere degli atti che ha commesso. Ed ecco allora che appena qualcuno solleva il problema, anche solo en passant, si trova subito posto a confronto con questa tremenda mancanza di fiducia in se stessi».
[21] La mancanza di giudizio è un segno evidente del degrado dell’io, cioè della debolezza della sua libertà, che non s’impegna, perché niente ha abbastanza valore per muovere la libertà. «Se mi chiedete qual è il sintomo più generale di questa anemia spirituale (dell’Europa), rispondo esattamente: l’indifferenza verso la verità e verso la menzogna. Oggi, la propaganda dimostra quel che vuole, e la gente accetta più o meno quel che le viene proposto. Certo, questa indifferenza maschera piuttosto una fatica e quasi uno scoraggiamento della facoltà di giudizio. Ma la facoltà di giudizio non potrebbe esercitarsi senza un certo impegno interiore. Chi giudica si impegna. L’uomo moderno non si impegna più perché non ha più niente da impegnare. … L’uomo moderno è sempre capace di giudicare, perché è sempre capace di ragionare. Ma la sua facoltà di giudicare non funziona più, come un motore senza benzina. Al motore non manca alcun pezzo; però non c’è benzina nella riserva. Per molti questa indifferenza verso la verità e la menzogna è più comica che tragica. Ma io la trovo tragica. Essa implica una terribile disponibilità non soltanto dello spirito, ma di tutta la persona, anche della persona fisica. Chi è aperto indifferentemente alla verità e alla falsità è maturo per una tirannia. La passione per la verità va di pari passo con la passione per la libertà (G. Bernanos, Rivoluzione e libertà, Borla Roma 1963, pp. 49-50).
[22] Cfr. G.K. Chesterton, Ortodoxia, Edizioni Martello su concessione della Morcelliana, Vicenza 1988, p. 183.
[23] C. Péguy, «Il mistero dei santi innocenti», in I Misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 325.
[24] L. Giussani, Si può vivere cosi?, BUR, Milano 1994, pp. 68-69.
[25] H. Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Jaca Book, Milano 2002, p. : «Il dato - sia che si tratti della realtà del mondo o dell’imprevedibilità dell’altro o del dato di fatto per cui non mi faccio da me - diventa lo sfondo su cui si staglia la libertà dell’uomo, [costituisce] il materiale che infiamma questa libertà.
Che io non possa ridurre la realtà a quello che penso, ecco il trionfo della libertà possibile. O, paradossalmente, solo perché non mi sono fatto da me posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e, così, avrei perso la libertà».
[26] Cfr. A. Camus, Caligola, Bompiani 2000, atto I, scena IV. I rivoluzionari del Maggio dicevano nel ’68 a Parigi: «Soyez réalistes, demandez l’impossible», siate realisti, domandate l’impossibile.
[27] G. Bernanos, Rivoluzione e libertà, op. cit., p. 16.
[28] M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Lavoro, Roma 2001, p. 236. È impressionante ascoltare a uno che ha sofferto in modo indicibile per la libertà: «La vita è la libertà e perciò morire è l’annientamento progressivo della libertà: per prima cosa si allenta la coscienza e poi si offusca: i processi di vita in un organismo la cui coscienza sia svanita sussistono per qualche tempo, la circolazione del sangue, la respirazione e il metabolismo continuano ad effettuarsi. Ma è un’inevitabile ritirata verso la schiavitù: la coscienza si è spenta, il fuoco della libertà si è spento… La libertà consiste nell’irripetibilità, nella coscienza di un uomo è il fondamento della potenza umana, ma la vita si trasforma in felicità, libertà, valore supremo, solo se l’uomo esiste come mondo, persona, mai e da nessuno ripetibile… Solo a questa condizione possiamo provare la felicità della libertà, quando riconosciamo negli altri quello che abbiamo riconosciuto in noi stessi» (V. Grossamn, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, p. 551).
[29] Benedetto XVI alla Radio Vaticana: «Penso al Figliol Prodigo che considerava noiosa la sua vita nella casa paterna: voglio vivere la vita fino in fondo, godermela fino in fondo! E poi si accorge che la sua vita è vuota e che in realtà era libero e grande proprio quando viveva nella casa di suo padre!».
[30] C. Péguy, «Il mistero dei santi innocenti», in op.cit., p. 295.
[31] L. Giussani, Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, p. 124.
[32] L. Giussani, All’origene della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p.108. «La grandezza e la libertà dell’uomo derivano dalla dipendenza diretta da Dio, condizione per cui l’uomo realizzi e affermi sé. La dipendenza da Dio è la prima condizione per l’interesse umano» (L. Giussani, All’origene della pretesa cristiana, op.cit. p. 109).
[33] L. Wittgenstein, Movimenti di pensiero. Diari 1930-32/1936-37, Macerata 1999, p. 85. Citato in M. Borghesi, “La nueva evangelización de la cultura”: Humanitas 34 (2004).
[34] C. Betocchi, Dal definitivo istante. Poesie scelte e inediti, BUR, Milano p. 146.
[35] R. Guardini, Persona e libertà, op.cit., p. 113: «Dio è Colui che dà a chi gli si avvicina la definitiva pienezza e appunto così la definitiva soluzione. Questo si compie nel cristianesimo».
[36] Guglielmo di Saint Thierry, La contemplazione di Dio, Fabbri, Milano 1997, p. 62.
[37] Cfr. Gaudium et spes 22.
[38] C. Péguy, «Il mistero dei santi innocenti», in op.cit., pp. 320-321.
[39] L. Giussani, Libertà di Dio, Marietti, Genova 2005, p. 36.
[40] «La carità genera l’amicizia, ne è come la madre. È dono di Dio, viene da Lui, perché noi siamo carnali, Egli fa che il nostro desiderio e il nostro amore comincino dalla carne. Nel nostro cuore Dio inscrive verso i nostri amici un amore che essi non possono leggere, ma che noi possiamo manifestare loro. Ne risulta un’affezione, più spesso un affectus, un attaccamento profondo, inesprimibile, che è dell’ordine dell’esperienza e che fissa all’amicizia diritti e doveri» (S. Bernardo).
[41] Sant’Ambrogio, Ep 65,5 («Dove c’è la fede lì c’è la libertà»).
[42] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di comunità 1996, p. 31.
[43] L. Giussani, «Il “potere” del laico, cioè del cristiano», en Un avvenimento di vita, cioè una storia, Il Sabato 1993, pp. 38-39.
[44] Cf. H. U. von Balthasar, Teodrammatica. II. Le persone del drama: L’uomo in Dio, op.cit., pp. 268-292; A. Scola-G. Marengo-J. Prades, La persona umana. Antropologia teologica (Amateca 15), Jaca Book, Milano 2000, pp. 104-196.