Ha scommesso tutto sulla libertà dell'altro

L'intervento
Julián Carrón

Il suo genio educativo? «Stava nella sua capacità di ridestare nell’io il desiderio di qualcosa di bello e di vero».
Una capacità che oggi, se possibile, è ancora più attuale

Fino dalla prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni”. Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita» (Il rischio educativo, Rizzoli, p.20).
Queste parole di don Giussani esprimono il suo atteggiamento originale, fin dalla prima ora di scuola, nei confronti dei ragazzi: una fiducia totale. Un giorno disse di avere scommesso tutto sulla “libertà pura” dell’altro. Pensiamo quale stima bisogna avere per l’umanità di chi si incontra per rischiare tutto su di essa e com’è difficile incontrare qualcuno così, oggi.
Questa fiducia era fondata nel riconoscimento della capacità critica dei suoi studenti, cioè nel riconoscimento di quella risorsa di cui la natura dota un uomo per rendersi conto della realtà fino a conoscerne il significato. Il metodo educativo di don Giussani era tutt’altro che un fare propaganda a delle idee pur giuste. Il suo era piuttosto un richiamo: egli mirava a destare qualcosa che era nell’altro, a provocarne la libertà e in questo compiva un gesto supremo di amicizia. Richiamava alle esigenze ed evidenze originali del cuore di ciascuno - esigenze di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità -, invitando a un paragone continuo con esse. E per realizzare questo utilizzava tutto ciò che il genio dell’umanità aveva prodotto, dalla musica alla poesia.
A questo proposito, mi permetto di leggere un brano in cui don Giussani racconta un fatto capitatogli qui, durante un’ora di lezione. È, per me, un esempio solare di un’educazione che spalanca tutto l’io, fino al punto in cui comincia a intravedere il fondo delle cose: «Quando insegnavo in prima liceo, andavo da casa mia al Berchet con in braccio un giradischi… e poi facevo sentire Chopin, Beethoven... Uno dei primi che ho fatto sentire è stato questo concerto [per violino e orchestra] di Beethoven, dove c’è il refrain che ho chiamato della comunità, quando tutta l’orchestra entra e ha sempre la stessa melodia, poi per tre volte il violino, che rappresenta la singolarità, prende la fuga e va per il suo destino, fin quando, stanco, è ripreso dal tema melodico dell’orchestra intera... quando c’è stato il pezzo che abbiamo sentito, nell’aula di quella prima E dove c’era assoluto silenzio, una ragazza che era al primo banco, qui a destra, che si chiamava Milene Di Gioia - me la ricordo ancora -, improvvisamente è scoppiata in un pianto dirotto, che non riusciva più a frenare… Lo struggimento che il tema fondamentale genera - struggimento tale che una sensibilità come quella della Milene l’ha fatta scoppiare in pianto - questo struggimento è l’emblema dell’attesa di Dio che ha l’uomo (Si può vivere così?, Rizzoli, pp. 300-301).

Di ritorno da una visita al planetario, all’epoca in cui insegnavo religione a Madrid, domandai ai miei studenti che cosa li avesse colpiti di più. Riempirono la lavagna di domande: non si chiedevano quante fossero le stelle o le galassie, ma chi aveva fatto tutto quello che avevano visto, se ne siamo i padroni, che senso avesse l’universo intero. Ne rimasi impressionato: in quei miei studenti lo spettacolo del cielo stellato aveva ridestato la domanda sul senso della realtà, alla maniera del pastore errante dell’Asia cantato da Leopardi, il poeta che don Giussani chiamava «amico» e che chissà quante volte avrà letto in queste aule durante gli anni del Berchet:
«E quando miro in ciel arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?».

Il genio educativo di don Giussani stava in questa sua capacità di ridestare nell’io il desiderio di qualcosa di bello e di vero, a partire dall’incontro con la realtà. E per fare questo si è, in qualche modo, “consegnato” ai suoi studenti, è stato di fronte a loro da uomo, li ha sfidati a verificare la proposta cristiana come una cosa da esseri ragionevoli. Tanti di loro hanno accolto il suo invito e questo li ha messi nelle condizioni migliori per dare un contributo alla realtà civile di Milano e del Paese.
Come un uomo utilizza la ragione, come impegna il suo desiderio, la speranza e l’affezione, tutto questo è decisivo e interessante per chiunque, non solo per il cristiano. Don Giussani, che questa sera la “sua” scuola ricorda nel terzo anniversario della morte con una iniziativa così significativa, ha impegnato in questa sfida tutta la sua reputazione: mostrare che l’essere uomini è vivere intensamente il reale alla ricerca del significato di tutto e che l’essere cristiani non è essere un po’ di meno uomini, con qualche desiderio di meno e qualche regola morale in più. Il cristianesimo, infatti, nella proposta di don Giussani, rappresenta la pienezza di una umanità raggiunta e comunicata. Il suo è un modo di presentare la fede in familiarità con la ragione, come qualcosa che appartiene, quindi, alla nostra natura di uomini. Lo disse egli stesso in una certa occasione: «La scuola di religione mi ha dato questa intuizione e questa passione: l’intuizione che la fede ha innanzitutto bisogno di dimostrare la sua familiarità con la ragione in tutta la sua consequenzialità, l’intuizione cioè della ragionevolezza della fede, della fede come la cosa più ragionevole che ci sia e, quindi, come la cosa più umana che ci sia. Perché… la ragione è esigenza, passione ed esigenza di conoscenza di tutto, della totalità… Una ragione viva è una ragione totalizzante come orizzonte di tensione, come pretesa di sapere» (1994).

Da questo punto di vista, il tentativo di don Giussani può continuare a dare un contributo positivo anche oggi, in un’epoca che ha rinunciato alla ricerca della verità e in cui la fede è stata ridotta a qualcosa di sentimentale o a etica. Oltre cinquant’anni fa egli aveva intuito l’avanzare di una crisi che ora tutti riconoscono, tanto che parlano di “emergenza educativa”. Per anni si è pensato che bastasse insegnare ai ragazzi la matematica o la lingua, invece che indicare la strada per entrare nel reale, e questo ha prodotto una drammatica indifferenza, come un’incapacità di interessarsi a qualunque cosa o persona. La crisi riguarda questo livello dell’esperienza umana.
Tutti ci rendiamo conto del contesto in cui un adulto deve assolvere il compito educativo, tanto più chi è impegnato nel mondo della scuola. È come se ogni mattina, entrando in classe, dominasse una domanda: oggi, facendo lezione, ci sarà una qualche possibilità di suscitare un interesse nei ragazzi fino al punto di metterli nelle condizioni di affrontare la realtà in un modo vero, positivamente? Non basta un discorso per mettere in moto il loro interesse. Proprio per questo don Giussani salì i gradini del Berchet: per comunicare un metodo che consentisse ai suoi studenti di fare una strada e così crescere come uomini, allargando la loro ragione.
È di questo allargamento della ragione - intesa come una finestra spalancata sulla realtà - che egli ha dato testimonianza, valorizzando tutto ciò che di bello, di vero e di buono incontrava sulla sua strada, come abbiamo visto. La stessa preoccupazione troviamo in Benedetto XVI. Ed è significativo, per me, che oggi siano due uomini di Chiesa a difendere un uso della ragione libero da ogni dogmatismo - clericale e laicista -, senza paura di esporsi a critiche e incomprensioni.

Ecco, allora, il livello della sfida che ci sta davanti e che don Giussani ha affrontato con quella passione educativa che tanti oggi gli riconoscono. Egli ha sempre definito l’educazione una introduzione alla realtà totale: comunicazione di un significato dell’esistenza attraverso l’esperienza di un rapporto da persona a persona. Un giovane - ma anche un adulto - non supera lo scetticismo e l’indifferenza perché qualcuno gli spiega una teoria, ma se si imbatte in un testimone che documenta una pienezza del vivere che appare subito come desiderabile. Questo è stato don Giussani per migliaia di persone nel mondo, a partire proprio da questa scuola, tracciando una strada che non legava a sé, ma sulla quale egli si faceva compagno di chiunque, senza mai sostituirsi alla libertà di coloro cui faceva scuola. Al contrario, egli sfidava continuamente la ragione con una proposta di fronte alla quale bisognava prendere posizione, sempre e comunque: per aderirvi o per rifiutarla.
Tutti abbiamo bisogno di persone che ci provochino fino al punto da farci desiderare quella vita che vediamo in loro come affascinante. Il cristianesimo che don Giussani ha proposto - e che mi ha conquistato - è iniziato proprio così: per aiutare l’uomo a conoscere il significato di tutto, Dio non si è servito di un discorso. La “lezione” che il Mistero ha fatto agli uomini è stata il diventare carne e sangue, un uomo con cui si poteva passeggiare per le strade di Gerusalemme, con cui si poteva mangiare e bere.

Grazie, dunque, al Preside e al Consiglio d’Istituto che hanno voluto ricordare con un segno, posto all’ingresso della scuola, un insegnante grazie al quale il nome del Berchet è oggi conosciuto in tutto il mondo come un luogo dove una passione educativa ha trovato e trova lo spazio e la libertà di esprimersi, una scuola dove don Giussani ha potuto affidare qualcosa di sé alla creatività dell’altro, continuando a esserci maestro.