L’uomo dietro al fucile

Combattere in Iraq e Afghanistan. Vedere gli amici morire. Chiedersi come si può vivere dopo aver ucciso. Lui è uno dei 200 volontari del New York Encounter, ma ha una storia unica. Quella della sua battaglia con Dio... (da Tracce, marzo 2013)
Luca Fiore

«Perché sono qui? Non so. Forse per rifarmi del tempo perduto durante la mia battaglia con Dio. Ho sempre pensato che a un certo punto Lui si sarebbe preso tutto. So che può. E credo possa farlo». Lo chiameremo John. Lo abbiamo incontrato nella cucina del New York Encounter (v. Tracce di febbraio). Era uno dei duecento volontari. Pantaloni a tasconi laterali, berretto da baseball e medaglietta di metallo dell’esercito americano che gli cade sul petto. Ha 27 anni ed è nato in una famiglia cristiana battista. Il padre e il nonno sono entrambi morti in guerra. Nel 2003 entra anche lui in un centro di arruolamento. Da lì, appena maggiorenne, viene mandato in Iraq, poi in Afghanistan e Colombia. Oggi è di servizio sul territorio americano. Una sera, a fine turno, si è seduto a un tavolo e davanti a qualche nuovo amico ha accettato di raccontare la sua storia. Una sola condizione: «Niente nomi». Dice: «All’Encounter mi ha portato la mia ragazza, ci siamo conosciuti quando di recente ho pensato di farmi cattolico».

Fra le mie braccia. Il racconto è asciutto, senza enfasi. È un soldato e la sua università sono stati i campi di battaglia. Non gli servono giri di parole, anche perché non saprebbe farli. Dopo poche battute va subito al cuore del problema: «Sono arrivato a maledire Dio. Gli chiedevo: “Se sei l’Onnipotente, Colui che può tutto, perché continui a trattarmi così? Perché continui a far morire i miei compagni?”». Il suo migliore amico viene ucciso in Iraq nel gennaio del 2007 e lo vede andarsene tra le sue braccia. «Eravamo in missione. Io ero nel primo camion, lui nel terzo. Ascoltavo musica con le cuffie. Mi è parso di sentire un’esplosione. Non sapevo cosa fosse. Mi sono girato e ho visto uno stormo di uccelli sollevarsi da terra. Chiedo all’artigliere che cosa fosse successo. Mi risponde: “It’s bad! It’s bad!”. Il terzo camion era saltato sopra una mina. L’artigliere scagliato fuori dal veicolo. Il medico che sedeva nei sedili posteriori tagliato in due. L’autista era volato fuori dal parabrezza. Il motore gli era caduto addosso. Il passeggero che gli era accanto affogato in un canale lungo la strada». Sulle prime cercano di soccorrere i sopravvissuti. Poi da una casa qualcuno inizia a sparargli. In quel momento John pensa soltanto che vuole ammazzare qualcuno. Corre verso la casa. Lancia una granata. Entra. Vede due ragazzi armati e spara.
Tornato al convoglio, trova l’amico in fin di vita. Ha ferite su tutto il corpo, ma respira ancora. «Lo tenevo fra le braccia. Gli dico: “Pregherò per te. So che non credi e non so cosa questo potrà fare per te”. Gli parlavo, gli dicevo che sarei andato a trovare sua madre. A un certo punto ho chiuso gli occhi e l’ho aiutato a chiudere i suoi. Quando li ho riaperti lui ha tossito sangue ed è morto. Era il quarantesimo amico che perdevo in guerra».
Torna in patria per un periodo di congedo. Dentro di lui tanta inquietudine. E si trova addosso i cosiddetti “disturbi da stress post-traumatico”. Insonnia, incubi, paura dei rumori improvvisi. Ma è la rabbia che lo consuma. Rabbia contro gli uomini e contro Dio. La sua fede vacilla. A cosa serve? Cosa cambia? Finché non incontra Chris Kyle, il miglior cecchino della storia americana. Morto non in guerra, ma in patria il 2 febbraio. Ucciso non dai talebani, ma da un commilitone a colpi di fucile alle spalle. Di lui John dice: «C’erano due cose che sapeva fare bene: gli spaghetti e uccidere. Di solito i cecchini mirano, sbagliano, aggiustano, ritirano e colpiscono. A lui invece bastava sempre un colpo. One shot, one kill. Eppure era un cristiano evangelico, una delle persone più religiose che io abbia mai conosciuto».

Quelle Puma rosa. La domanda che aveva fatto John è quella più umana: «Come fai a uccidere o vedere un amico morire e continuare a vivere?». La risposta era stata semplice. E oggi John la ripete così come l’ha sentita. Ma è una risposta che apre mille altre domande. «Mi disse che quando perdi un amico non puoi arrabbiarti e odiare il nemico. Che tu ci creda o no, sul campo di battaglia ci sono soldati come te. Tu combatti per quello in cui credi e loro pure. Non c’è ragione per odiare. C’è il codice combat: ti uccido prima che tu possa uccidere me. Ma non c’è ragione per cui tu debba odiare chi vai ad uccidere». All’inizio quelle parole lo sconvolgono. Chiude gli occhi e vede i volti delle persone che vorrebbe morte. «Solo oggi comincio a capire. Anzi, quando penso ai miei nemici ora sono addirittura fiero di loro». Fiero? «I talebani vanno in giro con un paio di sandali e fucili anni Settanta. Vorrei incontrarli un giorno in Paradiso e, davanti a una birra, chiedergli: “Ragazzi, come avete fatto?”. Oggi ripenso a tutte le cose brutte che ho detto contro Dio. Desidero una chance per redimermi e ritornare a quello che avevo lasciato».
Si ascolta senza fiato. Tante domande in gola, di fronte al flusso di coscienza che sembra tormentarlo. «Sono stanco della stampa. “Soldato uccide questo, marine uccide l’altro”, “massacro in Iraq, massacro in Afghanistan”. I giornali e le tv si buttano solo sulle cose negative. Ma nemmeno io so più quante volte sono stato in missione con l’unico scopo di sorvegliare la ricostruzione di scuole e ospedali per bambini. Ma di questo alla gente non gliene frega niente. Alla gente interessiamo solo se sbagliamo». John racconta di quando si è trovato in un villaggio in Afghanistan. Il territorio è secco, roccioso. Vede girare bambini senza scarpe e senza calze che alla sera hanno i piedi che sanguinano. Chiede alla madre di organizzare una raccolta di scarpe nella sua parrocchia battista. Le scarpe arrivano e i soldati le distribuiscono il giorno di Pasqua. «A un certo punto mi accorgo che un bambino ha adocchiato delle Puma rosa. Erano scarpe da femmina. Ne prendo un paio da maschio e mi dirigo verso di lui. Ma mentre mi avvicino vedo la sua faccia. Penso: “Non posso farlo, forse è il primo paio di scarpe della sua vita. E io cosa faccio? Vado lì e gli dico che non vanno bene?” Correva per il villaggio con un sorriso che gli attraversava la faccia. Ho lasciato perdere». Nel villaggio, racconta John, c’erano molti sostenitori dei talebani. Dopo la distribuzione delle scarpe andavano da loro a segnalargli i terroristi. Ne arrestano una quarantina. Qualcuno rivela anche la posizione di mine anticarro. «Ci hanno salvato la vita».
John ha solo 27 anni, ma per lui è già giunto il momento dei bilanci. Pensa alla gente che ha ucciso e a quella che ha salvato. Al perché è finito a fare quello che fa. «Dio dà dei talenti. Qualcuno sa parlare bene e allora forse farà l’avvocato. A qualcuno piace cucinare e forse diventerà un cuoco. Io sono bravo a combattere, mi piace guidare soldati, essere al fronte... È per questo che faccio il soldato. Ma la gente non sa che cosa voglia dire esserlo davvero. Si parla dei Navy Seals (i corpi speciali dei marines; ndr), ma o si sa esattamente che cosa siano, o non se ne ha la minima idea. Non c’è una via di mezzo. Per alcuni sono eroi, per altri solo cowboys assetati di sangue. Non sono né l’una, né l’altra cosa».

Tornare al fronte. Nel plotone di John c’era l’abitudine, tornati alla base dopo le missioni, di sedersi attorno al fuoco e guardarsi in faccia. L’hanno fatto anche dopo il più devastante degli attacchi: un’imboscata durata quattro giorni durante la quale, per miracolo, nessuno era stato ferito. Proiettili da tutte le direzioni. Colpi dai lanciagranate da spalla. Due attacchi suicidi. Un incubo. Tornati alla base si siedono in cerchio come sempre. Passano tre quarti d’ora senza che nessuno apra bocca. Il primo che parla dice soltanto: «Ragazzi, che roba». «È stato lo scontro più selvaggio che abbia mai visto», racconta John: «È stato come se Dio ci avesse protetto con il suo scudo di ferro... Ma non sempre va così. Dei compagni con cui mi sono arruolato siamo rimasti in dieci. Anzi, nove. Uno si è ucciso l’anno scorso».
Un altro silenzio interrompe il fiume in piena. Qualcuno prende la rincorsa e domanda quello che tutti vorrebbero chiedere: torneresti al fronte, John? «Sì, se fossi in grado di aiutare anche una sola persona ne varrebbe la pena. Come quel ragazzino con le scarpe rosa. Se potessi, non dico uccidere qualcuno, ma togliere qualche pericolo dalla strada. Se fosse per migliorare la vita di una persona, ne varrebbe la pena». E ancora: qual è il vero motivo per cui lo si fa? «Puoi chiedere al 90 per cento dei soldati e sono sicuro che ti diranno la stessa cosa: quando sei al fronte e rischi la vita non pensi mai, nemmeno di striscio “sto morendo per l’America”. Pensi al compagno che hai a fianco. Non ti interessa la politica, non ti interessa quello che dice la gente, quello che scrivono, non ti interessa nemmeno la libertà. La maggior parte di noi non è nemmeno d’accordo con il motivo per cui combattiamo. È una guerra assurda, ma è il nostro lavoro. Non è una scelta». Hai mai desiderato un’altra vita? «Assolutamente no. Ogni tanto vorrei essere un campione di hula hoop o un torero, ma ho ancora tempo... (sorride) Fare il soldato mi ha reso quello che sono, e soprattutto mi ha reso più grato nei confronti della vita. Ma non ho rimpianti, tornerei nello stesso centro di arruolamento in cui sono entrato nel 2003».

«Non sono l’unico». Prima di arrivare al New York Encounter, John è andato cinque o sei volte alla Scuola di comunità. Quando gli chiedi com’è, lui risponde: «Lunedì scorso una ragazza parlava del proprio lavoro e diceva di sentirsi triste. Mi ha confortato scoprire che non sono l’unico a dire che la vita è dura. Io spesso mi ritrovo a dirmelo. Mi incoraggia sapere che non sono l’unico a sentirsi fallito». John, dopo il weekend newyorkese, tornerà ancora dagli amici di Cl. La voglia di raccontarsi, il bisogno di essere ascoltato. La voglia di stare con gli amici della sua ragazza. Il vedere qualcun altro farsi le stesse domande che si fa lui. Oppure fare domande che gli altri non possono essersi mai fatti. Forse ha trovato il suo posto. Dice che probabilmente non tornerà più al fronte. Ma la sua battaglia con Dio è ancora in corso. Non sappiamo come andrà a finire. Nemmeno lui lo sa.