Ol'ga Sedakova

L'infinito oltre la noia

Intellettuale non allineata, guarda con preoccupazione l’evolversi della società russa. Abbiamo chiesto a Ol'ga Sedakova di leggere la riflessione di Julián Carrón sull’Europa contenuta nella “Pagina Uno” di maggio (da Tracce, luglio/agosto 2014)
Luca Fiore

Che aspetto ha la crisi dell’Europa vista da Mosca? Con gli occhi di Putin, e della maggior parte dei russi, appare come una crisi da tardo impero: corruzione dei costumi e dei valori. A fronte della grande mobilitazione a favore dei “nuovi diritti”, il Governo di Mosca si pone verso i propri cittadini come il baluardo della tradizione della Russia cristiana. Ol’ga Sedakova, nata a Mosca nel 1949, tra le voci più intense della poesia russa contemporanea, non è d’accordo con la versione ufficiale. Per lei non è una novità, se è vero che il primo libro l’ha pubblicato in samizdat nel 1978.
Ha letto la presentazione di don Julián Carrón al documento di CL in vista delle elezioni europee. Guarda la Russia e guarda l’Europa. Due realtà così diverse. Eppure la lettura che fa il sacerdote spagnolo delle sfide contemporanee, sembra dire qualcosa di importante anche a chi, ortodosso russo, cerca di non arrendersi alla visione che domina la sua società.

La situazione in Russia è più grave di quella dell’Europa?
È diversa. Anche quella europea mi preoccupa, ma la nostra è terribile. Quando gli ucraini dicono di volere i valori europei, pensano a quelli che cita don Carrón: persona, lavoro, progresso e libertà. Li desiderano perché non li hanno e sperano che l’Europa non li abbia persi del tutto. Se L’Europa li perdesse del tutto sarebbe una vera tragedia. La nostra speranza è connessa con il futuro dell’Europa, ma oggi è chiaro che questo nesso non è più scontato.

Quella degli ucraini è un’utopia?
No, desiderano per loro i valori europei tradizionali e li amano forse più di quanto non li ami l’Europa.

La Russia ufficiale si presenta al mondo in polemica con la deriva culturale europea. Cosa sta accadendo?
Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. Mi domando come si possa conservare ciò che è già stato distrutto.

Che nomi hanno questi valori tradizionali russi?
Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana.

Don Carrón sostiene che per riguadagnare i fondamenti della società cristiana la strada non è tornare a uno Stato confessionale. Cosa ne pensa?
Mi piace molto l’osservazione per cui il problema non è l’affermazione dei valori in quanto tali, ma la testimonianza e il messaggio cristiano. Da noi in Russia si continua a parlare di valori... Ma nessuno dice, per esempio, che non è lecito rubare. “Non rubare” è un valore della tradizione? È uno dei Dieci Comandamenti. Ma da noi tutti rubano! Come possiamo essere un baluardo dei valori cristiani?
La Duma ha votato una legge per arginare la diffusione dell’aborto.
Sì, anche questo è uno dei punti su cui si insiste. Famiglia, gay, aborto. Ma non penso che sia questo il senso del messaggio cristiano. Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà.

Nel dibattito sui “nuovi diritti” si contrappongono fascino e avversione. Perché?
A me fa paura questa direzione. Si parla di qualcosa che fino a poco tempo fa era impensabile. Don Carrón spiega bene da dove nascono queste richieste e dice che chi chiede questi diritti concepisce la libertà come assoluta. Si chiede il diritto persino di scegliere il proprio sesso. Ma questo non mi sembra c’entri con la tradizione. Nessuno, prima che nascessimo, ci ha chiesto se volevamo essere uomo o donna. È qualcosa che ha a che fare con la natura, piuttosto.

Don Giussani diceva che, di fronte ai problemi della società, occorre approfondire la natura del soggetto. Cosa significa per lei?
L’uomo prima di prendere decisioni concrete deve conoscere se stesso, deve conoscere la propria vocazione di uomo. Ma come fare? Non lo so, forse è necessaria una nuova pedagogia... L’uomo deve sapere chi è lui e cos’è l’uomo in generale.

Lei come lo riscopre?
Sono stata molto attratta dal mondo interiore, spirituale, già dall’infanzia. L’ho sempre trovato molto attraente. Parlavo con me stessa e sentivo in me delle voci diverse da quelle che sentivo attorno a me, in famiglia o a scuola. È l’intuizione, che esiste anche nel contesto della cultura materialistica come quella di un regime comunista. Forse si deve insegnare ai bambini a essere attenti. Oggi tutto contribuisce alla distrazione, ma nella distrazione non si può trovare se stessi.

Perché non ci si può accontentare che la legge difenda ciò che ai cristiani sta a cuore?
Fare o non fare qualcosa solo perché ce lo impone la legge, non comporta l’uso del cuore e della ragione. Non c’è convinzione. Il giorno in cui il divieto legislativo verrà meno, nulla impedirà di comportarci come se il divieto non ci fosse mai stato.

Come ci si può aiutare, e aiutare gli altri, a sviluppare questo livello di libertà che viene prima delle leggi?
Ancora: l’attenzione. È una preghiera dell’anima, una preghiera spontanea. È questa attenzione che manca nell’uomo moderno. Si possono anche pronunciare le parole di una preghiera, ma può mancare questo stato di allerta.

«Ciò che l’uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe alla speranza di conseguire questa infinità». Cosa ridesta in lei il desiderio di questo infinito di cui parla Pavese?
Per me è naturale, non posso dire perché e come. Senza questo desiderio di infinito non vorrei vivere. Sarebbe noioso. Vivere per meno di questo sarebbe da morire, non sarebbe interessante.

C’è qualcuno che sente vicino in questa dimensione?
Mi sento abbastanza sola, ma non l’unica. Ci sono delle persone che sono i miei amici, ma sono pochi. Mi piace, ad esempio, nella nostra Chiesa, il movimento detto dei kocetkovtsy, fondato dal sacerdote ortodosso padre Georgij Kocetkov. È una realtà abbastanza simile a Comunione e Liberazione. Sono loro amica e ho visitato queste comunità in diverse città russe. Sono gruppi di fraternità: mi piacciono molto perché è gente viva.

In che senso?
Sono felici, si amano tra loro, sanno cosa fare insieme. Amano soltanto le cose buone, leggono i libri buoni. È una realtà nuova per la nostra Chiesa, dove non sono mai esistiti movimenti di laici. Padre Georgij ha iniziato insieme a cinque persone e oggi sono in diverse migliaia. Ma la Chiesa ufficiale non è pronta, ha tanti dubbi. Soprattutto perché loro hanno tradotto le liturgie dallo slavo ecclesiastico al russo moderno. Non è che sia proibito, ma nessuno l’aveva mai fatto prima di loro.

Perché sente vicine queste persone rispetto alla dimensione del desiderio infinito?
Vedo persone che si sono risvegliate. La gente comune, di solito, è come addormentata rispetto alla vita. Loro, invece, sono consapevoli che la loro vita è collegata con la dimensione del mistero infinito.

Che cosa l’ha colpita di più nel testo di don Carrón?
L’insistenza sulla testimonianza di Cristo rispetto ai valori cristiani. La gioia che nasce dall’incontro di Cristo, che viene prima di tutto il resto. Mi piace l’idea che Cristo stesso è il centro della vita. È più importante delle leggi e delle norme. Questo è il cristianesimo autentico ed è questo che può toccare il cuore dell’uomo. Le norme non sono in grado di farlo. Alle leggi possiamo obbedire, ma non ci fanno felici. Certo, se violiamo le norme siamo infelici, questo sì. Ma rispettare tutte le regole, anche giuste, non è sufficiente a farci felici.

È per questo che neanche le “leggi cristiane” bastano a rendere cristiana la società?
Sì, certo. Il punto è che esistano testimoni da guardare. Le persone che hanno in sé questa santità, questa gioia, questa pace. Questa è l’influenza del cristianesimo. Il mio padre spirituale, ad esempio, poteva anche non dirmi nulla: mi bastava guardarlo, guardare il suo viso, i suoi movimenti. Anche Giovanni Paolo II era così. Bastava guardarlo per capire che era un santo. Lo stesso accadeva col metropolita Antonij Blum, che ho conosciuto personalmente.

Ma se dovesse descrivere questa diversità che vedeva, cosa direbbe?
Il metropolita Antonij diceva: soltanto negli occhi della persona umana possiamo vedere il Regno dei cieli. Non è un pensiero: si deve vedere che la persona ha in sé qualcosa di questo Regno. E tutti gli altri non hanno questa luce. È questa la differenza.

Lei parla di persone eccezionali, è possibile vedere questa cosa in persone comuni?
Sì, certo. Ma a questa gente non interessa apparire così. Sono concentrati su altro. Ed è questo che li rende interessanti. Ogni persona è creata da Dio e per questo ha qualcosa di questa luce, ma vivere o non vivere di questa luce dipende da una nostra libera volontà.