Don Alfredo Fecondo

«Io ci sono. Basta»

La testimonianza che nasce dal solo fatto di essere se stessi fino in fondo. Un missionario a Novosibirsk, uno studente a New York e una giovane impiegata di Atyrau (da Tracce, ottobre 2013)
Luca Fiore, Alessandra Stoppa e Davide Perillo

SIBERIA
LA SORGENTE DI ALFREDO

«Ne avevo sentito parlare, ma non ci ero mai andato. Si trova sul territorio della mia seconda parrocchia e ho deciso di andarci proprio quel sabato». Don Alfredo Fecondo, missionario della Fraternità San Carlo, si trova in Siberia dal 1994. L’anno scorso il Vescovo di Novosibirsk gli ha chiesto di occuparsi anche dei cattolici di Berdsk, una città a cinquanta chilometri da casa sua. Una parrocchia un po’ sfortunata, se è vero che la chiesetta ha subito non uno, ma due incendi negli ultimi anni. «Il posto si chiama Lojòk», spiega don Alfredo: «Lì sorgeva uno dei gulag più feroci della storia sovietica. Si trova a ridosso di una cava di calcare, dove i prigionieri venivano fatti lavorare. Tra il freddo e le polveri che entravano nei polmoni, la speranza di vita non superava i sei mesi. Lì furono imprigionati anche molti sacerdoti e suore. E sul punto in cui venivano fucilati e seppelliti è sgorgata una sorgente miracolosa. La gente del posto la chiama la “Santa fonte”».
Lojòk è sulle rive di un lago racchiuso in una corona di betulle. Sopra la fonte, negli anni, la Chiesa ortodossa ha costruito un tempietto dal tetto azzurro sormontato da una piccola cupola d’oro. I pellegrini vengono a pregare e con bottiglie e bottiglioni attingono all’acqua. Poco più all’interno, esiste ancora la fabbrica di mattoni in cui lavoravano i prigionieri e nel cui forno, raccontano le testimonianze, venivano bruciati anche i cadaveri.
«Quella mattina sarei dovuto andare a Mosca per l’Assemblea dei responsabili di Cl, ma sono rimasto a Novosibirsk per un problema al ginocchio. Allora, uno dopo l’altro, mi hanno chiamato gli amici più cari: monsignor Pezzi, don Pino, Jean-François, Carrón stesso... Ero pieno di gratitudine e, non so bene perché, mi è venuto in mente di andare finalmente a Lojòk, sul punto in cui sgorga la sorgente. Arrivato, sono rimasto in preghiera per alcuni minuti». Nella mente di don Alfredo si affollano i pensieri. I martiri uccisi in quel luogo, le voci degli amici, la propria vita, la vocazione: «È esplosa una domanda piena di commozione: “Signore, perché sei così misericordioso con me?”. Sono stato proprio travolto. Ero davanti alle presenze sconosciute di preti e suore che prima di me, come me, avevano dato la vita a Cristo. Eppure, ripensando all’affetto dei miei amici, in me dominava il senso di un abbraccio. Non so chiamarlo in modo diverso. E, appunto, mi domandavo: perché sei così pieno di misericordia proprio con me?». Nel raccontarlo si commuove di nuovo e aggiunge: «E poi si trattava di un’altra sorgente. Come quella di fronte alla quale, per me, è iniziato tutto...».

La ferita di Giacobbe. Don Alfredo pensa a un giorno del 1990. In quel periodo insegnava religione all’VIII Liceo Scientifico di Milano. Era settembre, tra la fine degli esami di riparazione e l’inizio della scuola, e lui si trovava per qualche giorno a casa dei genitori a Pollutri, in Abruzzo. Il paese è disteso su una collina in mezzo a due valli lungo le quali scorrono due torrenti. «Di uno di questi mi ero sempre domandato da dove arrivasse. All’inizio pensavo venisse dalla Majella, poi ho scoperto che non poteva essere così. Ho deciso di ripercorrerlo a piedi: dopo quasi tre ore di cammino sono arrivato in un punto dove ho capito che, nascosta da un cespuglio, ci doveva essere la sorgente. Sono stato preso dallo stupore e ho detto: “Ho trovato la sorgente misteriosa. Vivrò per tutta la vita qui, come un eremita”. Io sono un po’ filosofo e un po’ poeta e le cose mi vengono così. Poi però ho pensato: “Ma qual è la sorgente vera della mia vita?”. Allora mi è venuto in mente don Giussani e l’amicizia con lui. Così, tornato a Milano, sono andato a trovarlo per raccontargli di quella sorgente e della vera sorgente. Quando gli ho detto che volevo entrare in seminario, ha risposto: «Non avrei mai immaginato che la misericordia di Dio fosse così grande». Lì è stato l’inizio della mia vocazione e vedo che l’immagine della sorgente negli anni mi sta seguendo, anche qui in Siberia».
A Lojòk confluiscono molte storie: di martirio, di amicizia e la storia che è dentro la storia di don Alfredo. Ma perché ci si commuove così di fronte alla percezione della misericordia che Dio ha verso di noi? Perché non la meritiamo? Perché è inaspettata? «Sì, non la meritiamo... ma c’è molto di più. Qui si va alle domande ultime. Rispondere di getto forse sminuirebbe la domanda. Io so solo che questa cosa me la porto addosso come la ferita di Giacobbe». Don Alfredo qui si ferma. Riflette per qualche attimo e poi riattacca: «Don Giussani amava molto una frase di Giovanni Paolo II: “La misericordia ha un nome nella storia: Gesù”. Questo “nome” riecheggia in un volto, in una telefonata, in un accento particolare con cui senti pronunciare il tuo nome. E ti svela, di schianto, la profondità insondabile e infinita dell’essere Suo e dell’essere tuo».
Sono passati alcuni mesi dal quel sabato pomeriggio, ma il contraccolpo perdura. Tanto che alla domanda «Come stai?», don Alfredo risponde raccontando della fonte miracolosa. Ma nella vita quotidiana, cosa cambia? «L’altro giorno sono andato all’università, ad Akademgorodok, dove tengo un corso di Storia italiana. Ho una classe di otto studenti, ma ce n’erano solo tre. La prima reazione è stata: “Come? Solo tre?”. Come tutti sono ricaduto nella misura. Poi mi sono ripreso e mi sono detto: “È così grande la misericordia che sperimento che spero che la possano vivere anche loro”. È una tensione che mette dentro una certa impazienza. Ma è un’impazienza che vive d’attesa. L’esperienza di essere amato mi rende libero. Non è che ti faccia soffrire di meno: tu vorresti che gli studenti fossero tutti lì, perché tu hai da comunicare loro qualcosa di grande e di bello... però se non accade, va bene lo stesso: non è che io sia meno riempito da questa travolgente misericordia».
Nella parrocchia nei pressi dell’università è iniziato a girare attorno a lui un piccolo gruppo di giovani. Non sono molti. Eppure lui li guarda stupito per come vede crescere l’amicizia tra di loro. «Di solito accade che si attaccano personalmente a me, mentre tra loro non accade nulla. In questi mesi, invece, vedo qualcosa di diverso tra loro. Sta nascendo una piccola...». Non usa la parola “comunità”. Forse gli rimane in bocca o forse non osa adoperarla. «Qui è tutto piccolo. Un piccolo seme, che crescerà se Dio vuole». Crescerà. Come sorgeranno le mura della nuova chiesa della parrocchia di Berdsk, quella bruciata due volte e che ora il Vescovo vuole che don Alfredo ricostruisca. Su questo ha già le idee chiare: «I mattoni li andrò a prendere a Lojòk, accanto alla fonte miracolosa».



STATI UNITI
«È PROPRIO PER ME?»

Nessun problema, nessuna ostilità plateale. Al contrario tutt’intorno il mondo gli pare innocuo e al top: New York, Columbia University, alto livello accademico, bel progetto di tesi, ottimo prof. Giacomo Nicolini è arrivato da Bologna a marzo, per una tesi in Ingegneria sulla gestione dell’emergenza dopo l’uragano Sandy. Si butta subito nello studio dandoci dentro, la sera torna all’International House con altri settecento studenti da ogni parte del mondo: mensa e bagni in comune, poi la sua stanzetta tre per due dove stare stretto solo per la notte. Ma, nessun problema, perché fuori di lì tutto è un’opportunità. Viaggia a mille all’ora.
È così - velocemente - che penetra in lui un giudizio felpato, per niente innocuo: tu sei quello che fai. E lui, «senza troppo rendermene conto», inizia a calcolare. «A tratti, mi accorgevo di certi ragionamenti che facevo con gli amici o del criterio che usavo pensando alle scelte che mi aspettano, il lavoro, il matrimonio, dove andare a vivere... Quel giudizio era il modo con cui guardavo me stesso».
Ad aprile, cominciano i giramenti di testa. Quelli fisici. Lo disturbano, ma Giacomo va avanti. Arriva anche a trovarlo dall’Italia la sua fidanzata e per farle un regalo prenota una messa gospel. In chiesa, sviene. «Dopo vari controlli mi hanno diagnosticato la labirintite. Niente di grave, grazie a Dio. Ma mi ha bloccato a letto per un mese». Fregato. Nella stanzetta tre per due, notte e giorno, non riesce a fare niente. Prendere in mano un bicchiere lo fa cadere. «Io sono uno che non sta mai fermo. In più ero dall’altra parte dell’Oceano, venuto apposta con un progetto preciso, una grande occasione... Mi dicevo: perché adesso, perché qui? È contro di me». Più ci pensa, più si convince che non c’è né momento né posto peggiore per stare come sta. «La fatica vera non era sopportare il malessere. Stringendo i denti ne ero capace, e ho resistito. È che non la riconoscevo come una chiamata, ma come qualcosa che doveva passare, per riprendere a vivere. Ho iniziato a chiedere che il Signore mi convertisse». Gli amici cominciano a chiederlo con lui.
«Ora che migliori, più cammini meglio è». All’ultimo controllo, il medico è pratico. Giacomo decide di uscire a fare una passeggiata, da solo, la fidanzata che lo ha accudito per tre settimane è ripartita. «Era il primo giorno in cui mi trovavo io». Nel parchetto di fronte al dormitorio, va piano piano, un po’ barcollante, e si guarda intorno. Di botto, «veramente di botto», cade il velo: «Ma cammino!». Un attimo. E tutta la lotta si scioglie. «Ho rivissuto che c’è Uno che mi vuole bene. Io sopportavo, mentre Dio voleva ridarmi la vita, farmi riconoscere che tutto mi è dato. Mi sono commosso: ma l’ha data proprio a me? Questa labirintite, questa prova se pur così piccola, l’ha pensata per me? Ho pianto di gioia». Lo chiama un «regalo conquistato»: «Perché la lotta è stata una richiesta costante. È stata dentro una fedeltà. Una fedeltà al movimento e al lasciarmi accompagnare anche a distanza dagli Esercizi della Fraternità».

La passeggiata e Bart. Gli rimbombano in cuore le parole di don Carrón al telefono: «Non importa la circostanza in cui ti trovi, tutto è affrontabile. La cosa importante è essere nella posizione giusta». E poi: «Per questo abbiamo bisogno della Chiesa, di Cristo, non perché ci guarisca, ma perché ci rimetta nella posizione giusta».
Da quella passeggiata, non è cambiato nulla alla Columbia. Ma lui non era più separato da se stesso. «Il giudizio era nuovo: senza riconoscere la presenza di Gesù, io non so guardarmi». E ha imparato altro: «Solo se so guardare me, so guardare gli altri. Di più: mi nasce il desiderio di guardarli». Quando è arrivato non aveva questa apertura. «Invece, dopo, stavo in studentato, lì dove ero messo, e non scappavo più via. Ho iniziato a sedermi a tavola, a coinvolgermi con chi c’era, parlare, chiedere. Questo non sarebbe stato possibile senza accorgermi di essere traboccante di questo bene su di me. Così sono accaduti tanti incontri».
Quello più caro è con Bart. Dottorando in Legge, di Lovanio. Una sera, una di queste tante cene, si trovano allo stesso tavolo. Uno a uno gli altri se ne vanno, restano in due. «Un’umanità bellissima, quel ragazzo. È cresciuto un dialogo acceso, leale, dalle cose più banali fino alle domande ultime». Si alzano e Bart lo invita da lui per un bicchiere di vino. E vanno avanti a parlare, per ore, tutto in inglese, balbettando appassionati. «È stato così bello che gli ho portato Il senso religioso». Bart lo divora in tre giorni poi si rifà vivo, libro in mano, tutto sottolineato: «La cosa che mi colpisce di più è la ragionevolezza. Bisogna che ci vediamo per una birra». Si vedono e bombarda Giacomo di domande. «Mi ha detto: “Io voglio andare avanti, perché è troppo bello”». Giacomo gli dà il secondo libro e lo invita: «Vieni con noi, perché esiste un posto che vive di queste cose».

Sull’aereo. Bart inizia ad andare alla Scuola di comunità. Sentendo raccontare l’esperienza dei discepoli, interviene: «Nell’incontro con voi, sto vivendo la stessa cosa». Due mesi così, poi torna in Belgio. Giacomo, che rientra in Italia, lo invita al Meeting di Rimini e lui subito sì: «È arrivato come un bambino, con due occhi sgranati. Voleva vedere tutto, ed io a corrergli dietro». Un’amicizia che lo supera e lui non può dimenticare da dov’è venuta. «Io sono espansivo, ma l’apertura che ho vissuto non è un fatto caratteriale. Non mi comporto in un certo modo perché “sono fatto così”. Ma solo perché vivo tutto il mio bisogno, sono me stesso fino in fondo. Questo mi fa portatore di novità». La scopre riflessa nella faccia di Bart.
Per lui, tempo prima, Giacomo aveva cercato la comunità di Cl in Belgio e lasciato ad un certo Mauro i contatti dell’amico, così che si conoscessero. Ma la cosa non era mai riuscita. Eppure, proprio nel viaggio in aereo dal Belgio per l’Italia, Bart vede che l’uomo seduto al suo fianco sta leggendo Il senso religioso.
«Ma tu sei di Cl?».
«E tu sei Bart?».


KAZAKISTAN
Il fiore del caspio

«Non è una questione di parole o di pensieri. Io ci sono. Basta». Lei c’è. E basta a far fiorire un germoglio di vita anche dove non te lo aspetti. Ad Atyrau, Kazakistan, città da 170mila anime appoggiata sul Mar Caspio, zona di petrolio e gas e moschee eleganti ma poco affollate, ché l’islam qui abbraccia 7 abitanti su 10, ma non è così decisivo nella vita di tutti i giorni. Anche la fede ortodossa contava poco in casa di Julia Mashina, che oggi ha 35 anni e lavora in un’azienda petrolifera, ma aveva appena iniziato a studiare Lingue a Karaganda quando ha incrociato due preti italiani, don Edo Canetta e don Adelio Dell’Oro. «Era il 1996. Il comunismo era crollato da poco, ma la religione da noi non la praticava nessuno o quasi. Qualche Padre Nostro e la festa di Pasqua, niente di più. In pratica, mi sentivo atea. Nessuna appartenenza».
Quei due, invece, appartenevano a qualcosa. «Mi colpiva come stavano con noi. Erano diversi da tutti gli altri, pieni di vita. Lo sono anche adesso, che hanno più di sessant’anni». Julia sta con quel gruppetto sparuto di cattolici. Inizia ad andare in chiesa. Riceve la Comunione. Vive un’amicizia «che è qualcosa di stabile, qualcosa che c’è sempre: come una famiglia». La stessa che cerca ad Astana, dove si trasferisce dopo qualche anno, e a San Pietroburgo, quando finisce in Russia per fare l’interprete «e anche lì ho potuto trovare questi amici che mi ricordavano sempre che la vita non è solo il lavoro, che sono fatta per qualcosa di più». Qualcosa di grande che passa da gesti piccoli: gli incontri, le feste, la Scuola di comunità, «la caritativa, che era pulire i saloni dove ci si vedeva... Niente di epocale. Ma era una presenza». Perché? «Stare con loro era come stare in chiesa durante la messa: era Dio presente per me».
La svolta arriva a febbraio 2006. Nuovo lavoro, ad Atyrau. Gli amici, di colpo, sono a duemila chilometri. Lei è sola, in una città che «era ancora post-sovietica, grigia, sporca, e solo ora sta cambiando faccia. I primi mesi, appena arrivata, ero presa dal lavoro, dai colleghi nuovi. Pensavo mi bastassero. Anzi, vivevo come se mi bastassero». Aveva smesso pure di andare in chiesa. «Non ne sentivo la necessità. Non mi sembrava, almeno». «Come se», «sembrare»... I germi di qualcosa che non andava, dentro. «La vita, così, non era a posto. Mancava qualcosa. Non so come spiegare... la spina dorsale. Il centro dove arriva e da dove parte tutto». Una mancanza fatta di serate vuote, di uscite tra colleghi che lasciano la bocca amara, di rapporti «che non mi aiutavano davvero. La gente diventa scettica in fretta. In certe serate si parlava di tutto, senza limiti: di sesso, avventure. Io ridevo, ma tra me pensavo: a me non interessa questo. Cosa mi interessa?».

Lotteria. Un po’ alla volta Julia è tornata a cercare gli altri amici, quelli di Karaganda («tornavo a casa ogni tre mesi e andavo da loro»). A frequentare la messa («c’era un coro messo in piedi da una professoressa di italiano»). Fino all’apparizione di Nastja, un’amica venuta a lavorare con lei. «È ortodossa, non è di Cl, ma sapeva chi siamo e cos’è la Scuola di comunità». Per Julia è stata l’occasione per il gesto più semplice: gliel’ha proposta. «Avevo capito che era tutto legato: chiesa e movimento. Leggevo il libro di Scuola di comunità quasi ogni giorno e insieme chiedevo a Dio una compagnia. L’amicizia con Nastja è stata come un punto di luce». In che senso? «Un primo passo per uscire dalla tristezza».
Il secondo arriva con Nicola, un amico arrivato ad Atyrau dall’Italia. «Gli aveva dato il mio numero don Adelio». La Scuola si è allargata a tre. «Poi abbiamo invitato qualche ragazza di quel coro. Un paio sono venute». Qualcun altro l’ha incontrato organizzando dei corsi di italiano «perché qui vogliono studiarlo in tanti»; l’idea era venuta a Nicola (che dopo un po’ è dovuto tornare in Italia), ma ha permesso a Julia di conoscere ragazze come Muldir, che studia Risorse idriche, o Anara, chimica. «Entrambe musulmane, entrambe fedelissime alla Scuola di comunità». Perché? «Anara una volta mi ha detto che nella chiesa cristiana ha trovato un Dio che partecipa alla nostra vita, che ci fa incontrare gente e situazioni fatte apposta per noi». E i colleghi, intorno? «Mi guardano in un altro modo. C’è un rispetto, grande. Meno discorsi inutili».
Fai i conti, e vedi che sulle rive del Caspio è fiorita una presenza. Minuscola, ma c’è. Fatta di cinque persone che si ritrovano ogni settimana («anche d’estate, perché siamo indietro con il testo: sai, Anara e Muldir non possono leggerlo a casa loro, quindi dobbiamo farlo insieme...») e, da qualche mese, da un ingresso a sorpresa: il Vescovo. Proprio quel don Adelio Dell’Oro, inviato dal Papa nello stesso Paese dove era stato in missione prima (v. Tracce n. 1/2013). «Quando me l’hanno detto, mi sembrava di aver vinto una lotteria. Ho pensato: ora cambia tutto. Diventerà più facile, più profondo. Di più, insomma». E lo è? «Sì. Perché mi sento più amata». Ma tu? In questi anni, sei cambiata? «Quando dico “Cristo” ora è qualcosa di più concreto. Lo vedo da come ho cominciato ad apprezzare anche i momenti brutti». Come? «Grido di più. Non dico “salvami da questi dolori”, ma “grazie di avermeli dati, perché così mi ricordo di Te”».