Come si destano le domande ultime

Da Luigi Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-148
Luigi Giussani


Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una «presenza». Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente della parola «cosa». Le cose! Che «cosa»! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola «essere». L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone.
Chi non crede in Dio è inescusabile, diceva san Paolo nella Lettera ai Romani, perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell’«altro» (cfr. Rm 1,19-21). Il bambino la vive senza accorgersi, perché ancora non del tutto cosciente: ma l’adulto che non la vive o non la percepisce da uomo cosciente è meno che un bambino, è come atrofizzato.
Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza.
In questo momento io, se sono attento, cioè se sono maturo, non posso negare che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me, non sto facendomi da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono, sono «dato». È l’attimo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro.
Quanto più io scendo dentro me stesso, se scendo fino in fondo, donde scaturisco? Non da me: da altro. È la percezione di me come un fiotto che nasce da una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me, e da cui vengo fatto. Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire una origine che non sa che cos’è, è altro da sé.
Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avuto, di questa misteriosa presenza da cui la consistenza del suo istante, del suo io, è resa possibile. Io sono «tu-che-mi-fai». Soltanto che questo «tu» è assolutamente senza faccia; uso questa parola «tu» perché è la meno inadeguata nella mia esperienza d’uomo per indicare quella incognita presenza che è, senza paragone, più della mia esperienza d’uomo. Quale altra parola dovrei usare altrimenti?
Quando io pongo il mio occhio su di me e avverto che io non sto facendomi da me, allora io, io, con la vibrazione cosciente e piena di affezione che urge in questa parola, alla Cosa che mi fa, alla sorgente da cui sto provenendo in questo istante non posso che rivolgermi usando la parola «tu». «Tu che mi fai» è perciò quello che la tradizione religiosa chiama Dio, è ciò che è più di me, è ciò che è più me di me stesso, è ciò per cui io sono.
Per questo la Bibbia dice di Dio «tam pater nemo» (cfr. Dt 32,16; Is 63,16; 64,7; Mt 6,9; 1 Cor 8,6; 2 Cor 6,18), nessuno è così padre, perché il padre che noi conosciamo nell’esperienza è chi dà l’abbrivio, l’inizio a una vita che, dalla prima frazione di istante in cui è posta in essere, si distacca, va per suo conto.
Ero ancora giovanissimo prete. Una donna veniva regolarmente a confessarsi. Per qualche tempo non l’ho più vista, e quando è ritornata mi dice: «Ho avuto una seconda bambina»; e, senza che io le dicessi niente, aggiunge: «Sapesse, che impressione! Appena mi sono accorta che si era staccata, non ho pensato se era un maschio o una femmina, se stava bene o male; ma la prima idea che mi è venuta è stata questa: “Ecco, comincia ad andarsene!”».
Mentre Dio, Padre in ogni istante, mi sta concependo ora. Nessuno è così padre, generatore.
La coscienza di sé fino in fondo percepisce al fondo di sé un Altro. Questa è la preghiera: la coscienza di sé fino in fondo che si imbatte in un Altro. Così la preghiera è l’unico gesto umano in cui la statura dell’uomo è totalmente realizzata.
L’io, l’uomo, è quel livello della natura in cui essa si accorge di non farsi da sé. Così che il cosmo intero è come la grande periferia del mio corpo senza soluzione di continuità. Si può anche dire: l’uomo è quel livello della natura in cui la natura diventa esperienza della propria contingenza. L’uomo si sperimenta contingente: sussistente per un’altra cosa, perché non si fa da sé. Sto in piedi perché mi appoggio a un altro. Sono perché sono fatto. Come la mia voce, eco di una vibrazione mia, se freno la vibrazione, la voce non c’è più. Come la polla sorgiva che deriva tutta dalla sorgente. Come il fiore che dipende in tutto dall’impeto della radice.
Allora non dico: «Io sono» consapevolmente, secondo la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con «Io sono fatto». È da quanto detto prima che dipende l’equilibrio ultimo della vita. Siccome la verità naturale dell’uomo, come si è visto, è la sua creaturalità, l’uomo è un essere che c’è perché è continuamente posseduto. Allora egli respira interamente, si sente a posto e lieto, quando riconosce di essere posseduto.
La coscienza vera di sé è ben rappresentata dal bambino tra le braccia del padre e della madre, sì che può entrare in qualsiasi situazione dell’esistenza con una tranquillità profonda, con una possibilità di letizia. Non c’è sistema curativo che possa pretendere questo, se non mutilando l’uomo. Spesso, cioè, per togliere la censura di certe ferite, si censura l’uomo nella sua umanità.
Tutti i movimenti, perciò, degli uomini, in quanto tendono alla pace e alla gioia, sono per la ricerca del Dio, di Ciò in cui è la consistenza esauriente della loro vita.