Carità: dono di sé, commosso

Da Luigi Giussani, Si può vivere così, Rizzoli, Milano 2007, pp. 325-335
Luigi Giussani


Puro dono di sé. Prima di tutto, il rapporto di Dio con l’uomo, del Mistero con l’uomo - diciamo il Mistero, perché Mistero è Dio e Cristo, è Dio e un uomo - il Mistero appare all’uomo come gratuità, cioè come carità. Anzi, si può dire quel che ha detto san Giovanni: la natura stessa di Dio è carità (1 Gv 4,16). La natura è quella fattura per cui uno agisce in un certo modo; la natura è l’origine delle azioni, perciò, se uno agisce con carità, è perché ha la natura che è origine della carità. E infatti dice: «Deus charitas est», Dio è amore, ma amore nel suo senso totale, assoluto: vuole il bene dell’altro.
La natura di Dio appare come gratuità in quanto si è donata all’uomo. Dono: questa è la prima parola in cui s’affissa il termine gratuità o il termine carità o il termine amore. È puro dono, abbiamo detto: senza ritorno. Senza ritorno vuol dire che è puro dono. La natura di Dio è dare, appare all’uomo come dare, dono, senza ritorno, dono puro.
Che cosa ti dà? Se stesso, vale a dire l’Essere, l’Essere perché senza di Lui nulla è stato fatto di quello che è stato fatto.
«Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5): immaginatevi quella scena, la sera del Giovedì Santo. Tutto era contro di loro e Gesù parlava, parlava - quel lungo discorso che leggiamo insieme il Giovedì Santo (Si fa riferimento al raduno degli universitari di Cl che tradizionalmente si svolge alla Certosa di Pavia in occasione del Giovedì Santo; nel corso della mattina vengono letti i capitoli 14-17 del vangelo di san Giovanni) -, quegli uomini che erano abituati a sentirlo parlare e lo fissavano mentre parlava, osservando tutte le sue azioni, gli erano attenti più del solito, tutti intenti. Quell’uomo che aveva messo la mano nel piatto per mangiare insieme a loro, come si usava, a un certo punto si interrompe e dice: «Senza di me non potete fare niente...». Ma questo è Dio, l’unico che può dire così è Dio!
La natura di Dio appare all’uomo come dono assoluto: Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice (felice, cioè totalmente soddisfatto o perfetto; come ho sempre detto, in latino e in greco, perfetto e soddisfatto sono la stessa parola: perfectus, cioè perfetto o compiuto, soddisfatto è un uomo compiuto).
Si è dato a me, dandomi il suo essere: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). E poi, quando meno l’uomo se lo aspettava, non poteva neanche sognarselo, non se lo aspettava più, non pensava più a Colui dal quale aveva ricevuto l’essere, questo rientra nella vita dell’uomo per salvarla, ridà se stesso morendo per l’uomo. Si dà tutto, dono di sé totale, fino a: «Nessuno ama tanto gli amici come chi dà la vita per gli amici» (Gv 15,13). Dono totale.
Ma qui c’è un’ultima sfumatura: quello che Cristo ci dà morendo per noi - morendo perché l’abbiamo tradito - per purificarci del tradimento, quello che ci dà è più grande di quello che ci aspettava. Questo è come un angolo aperto all’infinito da scandagliare col tempo della vita che passa, da sperimentare. Cristo ci dà più di quello che occorreva per salvarci: dove abbondò il delitto, sovrabbonda la gratuità. Ha fatto più di quello che era necessario per salvarci. Per salvarci Cristo poteva dire soltanto: «Padre, perdona loro», bastava questo. Mentre era sdraiato a mangiare l’ultima cena, poteva dire: «Padre, perdona loro». Bastava questo, anzi, bastava che dicesse: «Sì, Padre, manda me», ed entrasse nel seno di Maria, diventando bambino, diventando uomo. Solo questo bastava. Invece no: «Dove abbondò il delitto, sovrabbonda la grazia» (Rm 5,20). Comunque il concetto fondamentale che dispiega tutto il valore del termine carità o gratuità - che delinea così la natura di Dio, il modo di agire di Dio, che noi dobbiamo imitare perché è il Padre - è il dono di sé. (…)
Commosso. Il secondo fattore - il primo è quello essenziale - è come un aggettivo accanto al sostantivo, è aggettivale; aggettivo vuol dire che si appoggia, s’appoggia al sostantivo, perciò sarebbe secondario rispetto al primo. Eppure è il più impressionante, e noi - scommetto - non l’abbiamo mai pensato e non lo penseremmo mai, se Dio non ci avesse messo insieme.
Perché Dio dedica se stesso a me? Perché si dona a me creandomi, dandomi l’essere, cioè se stesso (mi dà se stesso, cioè l’essere)? Perché, per di più, diventa uomo e si dà a me per rendermi di nuovo innocente - come dice il canto di oggi («In questa letizia pasquale, rifatti di nuovo innocenti»; L’aurora risplende di luce, inno delle lodi della domenica, in Il libro delle ore, Jaca Book, Milano 1978, p. 35) - e muore per me (che non c’era assolutamente bisogno: bastava un zic del pollice e del medio e il Padre avrebbe agito per forza)? Perché muore per me? Perché questo dono di sé fino all’estremo concepibile, al di là dell’estremo concepibile? (…)
Questa pietà - «avendo pietà del tuo niente» - è bello scoprirla nel vangelo. Per esempio, quando - due volte è detto - una sera vede la sua città dalla collina e piange sulla sua città, pensando alla sua rovina (Lc 13,34-35).Quella città l’avrebbe ucciso alcune settimane dopo, ma per Lui questo non c’entra.
O quell’altra sera, proprio immediatamente prima che fosse preso, nello splendore dell’oro del tempio illuminato dal sole che tramontava, edákruse, dice il testo greco, singhiozzò, davanti al destino della sua città (Lc 19,41-44). Una pietà come quella di una madre che si abbarbica al figlio per non lasciarlo andare nel pericolo mortale cui va.
E poi, scelgo prima da san Luca, perché in san Luca questo è più rilevabile che neanche negli altri vangeli (san Luca con san Giovanni e san Marco con san Matteo; san Matteo era un ebreo, san Luca invece era un pagano): sta andando in mezzo ai campi con i suoi discepoli e strappano le spighe, perché avevano fame; vedono un funerale nel paesino lì vicino. Lui domanda: «Cos’è?». «È un giovane - adulescens, un adolescente - che è morto e sua madre è vedova. Ha perso l’unico figlio ed è vedova.» Infatti dietro il feretro c’è la madre che stride. Gesù fa un passo e le dice: «Donna, non piangere», che era una cosa inconcepibile; a parte il fatto che è tra il ridicolo e l’assurdo: come si fa a dire a una donna che segue in quelle condizioni il feretro del figlio «Non piangere»? Era il traboccare di una pietà, di una compassione (Lc 7,11-17). (…)
Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente. Non solo: Dio si è commosso per il nostro tradimento, per la nostra povertà rozza, dimentica e traditrice, per la nostra meschinità. Dio si è commosso per la nostra meschinità, che è più ancora che essersi commosso per il nostro niente. «Ho avuto pietà del tuo niente, ho avuto pietà del tuo odio a me. Mi sono commosso perché tu mi odi», come un padre e una madre che piangono di commozione per l’odio del figlio. Non piangono perché sono colpiti, piangono di commozione, vale a dire di un pianto totalmente determinato dal desiderio del bene del figlio, del destino del figlio: che il figlio cambi, per il suo destino; che si salvi. È una compassione, una pietà, una passione.