Aldo Trento: la sua amicizia, una “domanda” che fa risorgere

Pietro Vernizzi - Intervista ad Aldo Trento

L’ultimo libro di don Giussani riletto attraverso la storia personale di padre Aldo Trento, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo in Paraguay e responsabile di una clinica per malati terminali ad Asunción. Il volume “Ciò che abbiamo di più caro”, che raccoglie gli interventi di don Giussani del 1988 e del 1989, sarà presentato questo pomeriggio nel corso dell’incontro conclusivo del Meeting di Rimini. Intervistato da Ilsussidiario.net, padre Aldo Trento racconta come attraverso tutti gli episodi della sua vita e l’amicizia con don Luigi Giussani è arrivato a dire che Cristo è ciò che di più caro ha nella sua vita.

Padre Trento, qual è secondo lei il punto che intende sottolineare il nuovo libro con gli interventi di don Giussani?
Ciò che desidero fare è testimoniare che quello che Giussani dice si è fatto carne nella mia vita, cioè rispondere alla domanda: come si può arrivare a dire che Cristo è la cosa più cara della vita? A 64 anni posso umilmente dire che davvero oggi Cristo è la cosa più cara della mia vita, e ripetere con le parole di San Paolo: “Per me vivere è Cristo e morire è un guadagno”, o “tutto posso in Colui che mi dà la forza”. Io vivo 24 ore al giorno immerso in un mare di dolore, e in questo la forza più cara che ho è Cristo. Tutto ciò ha avuto un inizio: l’abbraccio di Giussani in quel 25 marzo 1989 in via Martinengo, proprio nel momento della mia massima disperazione in cui pensavo che per me fosse tutto finito. Quel giorno ho fatto ben due scoperte...

Quali?
L’incontro con Cristo attraverso don Giussani mi ha fatto scoprire in primo luogo la schizofrenia in cui tutti viviamo, cioè la grande divisione tra sentimento e ragione di cui io ero terribilmente vittima. Don Giussani dice che siamo tutti dei folli, chi più chi meno, proprio come diceva il poeta Ovidio: “Video meliora proboque, deteriora sequor”, cioè "vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori”. Come l’uomo può salvarsi da questa follia? Grazie a un abbraccio. E infatti io sono stato salvato dall’abbraccio di Giussani, che è stato anche l’inizio di una resurrezione. Tanto è vero che don Giussani lo chiama anche amicizia, che è l’evidenza di Cristo oggi. Ontologicamente parlando Cristo vive nella Chiesa, in quella comunità di persone che ti rimandano continuamente a Lui, e io lo ho sperimentato nella vita. Ma l’amicizia è anche lo strumento attraverso cui uscire da questa follia, tanto che la forma suprema di amicizia diventa domanda. Infatti io ho vissuto tutta la mia vita gridando e supplicando.

Ma come è possibile fare in modo che, dopo il primo momento, questo incontro non diventi una nostra interpretazione?
Guardando chi oggi ci indica la meta e continua la presenza di Cristo attraverso don Giussani, cioè don Julian Carron. Perché se non accade oggi, quell’abbraccio di 22 anni fa non serve a niente. Ma è necessario un passo successivo. In “Ciò che abbiamo di più caro” si afferma: “E’ necessario soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”. L’abbraccio infatti non può stare in piedi a lungo senza un lavoro quotidiano, che passa mediante il dolore. Questi lunghi anni di esaurimento, questa disperazione che ho portato nel cuore, questa malattia che ancora tengo come una grazia, è ciò che permette che quell’abbraccio e quelle persone non si cristallizzino in dottrina, non siano date per scontate. Per questo faccio 4mila chilometri due volte al mese per andare a trovare Marcos e Cleuza Zerbini. Ed è lo stesso motivo per cui ho fatto il sacrificio del viaggio per venire fino al Meeting di Rimini. Perché avevo bisogno di vedere quegli amici che mi dicono che il dolore, la sofferenza o la morte dei malati che curo nel mio centro ad Asunción non sono l’ultima parola.

E perché non sono l’ultima parola?
La cosa più bella della mia vita, anche nella situazione psicologica in cui mi trovo, senza alcuna emozione positiva, è che questo dolore non mi schiaccia perché ho continuamente di fronte questi volti. I quali sono come Giovanni per San Pietro sul lago di Tiberiade, quando lo risveglia dalla sua distrazione dicendogli: “E’ il Signore”. E da questa certezza, che io sono la cosa più cara per Cristo e quindi Cristo è la cosa più cara per me, deriva il fatto che ogni uomo mi è caro, e quindi vivo 24 ore al giorno attorniato dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte, ma con il cuore lieto. Tanto che sono qui al Meeting di Rimini perché vorrei che almeno una delle molte persone disperate che hanno perso la voglia di vivere possano recuperarla. Perché conosco l’uomo reale, non quello che vediamo passeggiare ridendo, ma quello che ha un dramma dentro, una sofferenza e ha bisogno di essere aiutato a dire anche lui, con la freschezza del primo incontro, “tu o Cristo”.

Lei ha messo in relazione il lavoro di cui parla don Giussani con la sofferenza della sua malattia. Perché?
Ho in mente come se fosse ieri lo sguardo luminoso di don Giussani, quando gli raccontai che io, già prete, mi ero innamorato di una donna. E lui mi disse: “Padre Aldo, che bello, questo innamoramento è la cosa più grande che ti potesse capitare. Ora il tuo rapporto con Cristo sarà più radicale, non avrai più dubbi né incertezze”. E così ha deciso di mandarmi in missione in Paraguay. E questo perché io potessi non perdere quell’innamoramento. Io ero un prete, e se uno è innamorato sul serio sa che quel distacco non è come bere un bicchier d’acqua. Così don Giussani ha messo in corto circuito il dramma tra quello che Dio voleva da me e quello che l’istinto mi portava a cercare. La difficoltà era fare sì che il sentimento camminasse con la ragione, e questo ha voluto dire vivere il dramma di questa battaglia fra una ragione che capiva che Cristo era tutto, e una carne che mi riportava indietro.

Ma lei perché accettò di andare in Paraguay?
Non lo ho fatto certo per Cristo, e neppure per costruire l’opera che poi di fatto è nata, ma per non perdere l’oggetto che il mio cuore desiderava e amava. Era una persona in carne e ossa, una donna. Ed era necessario soffrire perché la verità era amare quella donna per il suo destino. Se vi capiterà la stessa cosa, saprete che cosa vuol dire. Qualunque sia la vostra vocazione, se volete salvare il vostro amore dovete perderlo.

Perché spesso si cerca di evitare la certezza di cui parla il titolo del Meeting?
Perché senti che corrisponde al tuo cuore e richiede un cambiamento di prospettiva. La tua libertà è come ferita e devi o rifiutare la certezza e cadere nel nulla, o accoglierla e ritrovare la vita. C’è un’immagine che mi colpisce sempre: Zaccheo si era messo su un albero in mezzo alle foglie perché da una parte era incuriosito da Gesù, ma dall’altra voleva anche difendere il suo progetto. E così voleva vedere il Messia senza essere visto da lui. Gesù invece lo vede e gli dice: “Zaccheo, stasera vengo a cenare da te”. E lì la resistenza che lui aveva crolla. Quando uno ama una donna, è sempre una lotta tra la verità del cuore e l’istinto dii censurarla. Tu sai che mettendoti in quella situazione commetti un errore, ma fai finta di niente. Per questo gli amanti scelgono di rifugiarsi nelle tenebre: non vogliono essere visti perché sanno che quello che cercano non è quello che il loro cuore desidera. Tutti noi siamo in questa lotta: la verità ti affascina, ma esige uno strappo che la tua libertà deve accettare.

Da www.ilsussidiario.net (27 agosto 2011)