Andreotti. Borghesi: i tre "dialoghi" del politico a cui non piacevano i manichei

Massimo Borghesi


Con Andreotti se ne va uno degli ultimi grandi protagonisti dell’Italia del dopoguerra. Uno statista ed un politico che ha suscitato sentimenti contrastanti, di ammirazione e di opposizione, e che ha saputo imporsi, con la sua tenacia e la sua testimonianza dignitosa, al rispetto anche dei propri avversari.
Lo ricordo, amabile ed acuto nelle sue osservazioni, con la sua ironia sottile e al contempo fermo nella sua fede cattolica, negli incontri mensili che, come direttore della rivista internazionale 30 Giorni teneva nel suo studio romano di Piazza S. Lorenzo in Lucina, in cui la schiera delle foto, di lui con i grandi della terra, ti dava l’impressione di essere al centro del mondo. Un incarico, quello di 30 Giorni, che aveva accettato, negli anni 90, nel periodo della sua disgrazia politica, su invito di don Giacomo Tantardini, sacerdote a cui era legato da amicizia e da stima profonde e che era la vera anima teologica della rivista. Come direttore assolveva il suo compito con scrupolo. Ricordo le sue note di appunti, che portava con sé, e i consigli, sempre preziosi. Metteva a disposizione la sua enorme conoscenza della Chiesa e dei rapporti internazionali, individuava i contatti giusti, le persone da sentire e da intervistare. Sul piano politico gli ultimi anni gli avevano reso giustizia.
Nel 2006, a 87 anni, era stato candidato, su proposta di Perferdinando Casini e Gianni Letta, alla poltrona per la seconda carica dello Stato. Si trattava di una proposta tesa ad unire, con una figura di prestigio apprezzata anche a sinistra, maggioranza ed opposizione. Una prospettiva che non gli era sgradita. In una intervista a La Stampa (22/04/06) aveva sottolineato di essere fuori dai due schieramenti: «Provengo dalla Democrazia cristiana: tutto qui». Un “tutto qui” rivendicato, con orgoglio, come espressione di una tradizione politica condannata alla sconfitta storica, non a quella ideale.
Per Andreotti l’essere democristiano coincideva con l’assunzione della grande lezione del suo maestro, Alcide De Gasperi. Da lui aveva tratto l’insegnamento chiave per il cattolicesimo politico-democratico: evitare in Italia, per quanto è possibile, il riemergere del conflitto storico tra guelfi e ghibellini, clericali ed anticlericali. Una lotta che, dall’Unità in poi, aveva turbato e diviso la coscienza del Paese. Per Andreotti questo spirito unitario si era tradotto, a partire dagli anni 60, in una politica estera che, al pari di Fanfani e di La Pira, privilegiava la sicurezza di Israele nel quadro di un dialogo con i Paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo, attenta ai legittimi diritti del popolo palestinese nell’ambito di una politica di pace nel Medio Oriente. Dopo l’89 lo stesso spirito lo aveva portato, dopo esser stato presidente del Consiglio durante il “compromesso storico” Dc-Pci nel 1976, a privilegiare una politica del bene comune fuori dalla logica bipolare, manichea ed ideologica.
Come scriveva in un Editoriale di 30 Giorni: «De Gasperi ci aveva insegnato che la politica interna è strettamente collegata con quella estera» (1/2, 2006). La fine dell’Unione Sovietica non poteva non implicare la metamorfosi della sinistra e, per conseguenza, una libertà maggiore nell’orientarsi tra le forze politiche. In tal modo grazie ad un triplice dialogo – tra cattolici e laici; tra centro-destra e centro-sinistra; tra Europa, Israele e mondo arabo – Andreotti si era venuto proponendo come vera figura “super partes”. Una figura che accoglieva consensi trasversali tra coloro che rimanevano sorpresi da un proverbiale realismo che non rinnegava affatto – come volevano i suoi critici – la dimensione ideale.
Questo “ideal-realismo” spiega perché lui, filoamericano da sempre, sia stato critico della guerra in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Spiega perché il “cattolico romano-papalino” sia stato, in ciò fedele a De Gasperi, avverso ad ogni forma di integralismo. Spiega altresì come il deciso “europeista” sia stato contrario alle “scontro di civiltà”, attento al dialogo mediterraneo, all’apertura verso l’Oriente, l’Africa, la Cina. Giulio Andreotti è stato l’ultimo erede di quella tradizione che vede nel cattolicesimo la “coincidentia oppositorum”, il punto di riconciliazione tra posizioni altrimenti incomponibili.
La sua traduzione politica era l’arte della mediazione, che non indicava il compromesso volgare ma il modo migliore per garantire la pace, sociale-politica-religiosa, nelle condizioni date. Il cattolicesimo politico coincideva, in Andreotti, con la ricerca delle soluzioni atte a garantire la concordia, ad evitare la sedimentazione e l’irrigidirsi di quei contrasti che, lasciati a se stessi, degenerano in conflitti senza vie d’uscita.
In questo senso è stato un uomo di dialogo e di pace, l’autentico ministro degli esteri della Santa Sede. Un uomo stimato da molti e poco amato da coloro per i quali la politica e la storia si fondano su contrasti radicali, sull’opposizione tra amici e nemici. Peccato che ad Oslo, nell’assegnare i premi Nobel della pace, siano stati distratti da altro.
Per noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo da vicino resta un grande testimone di una passione cristiana e civile di cui avvertiamo, nel momento presente, una dolorosa assenza. Ora che l’appuntamento con la morte, tante volte scherzosamente rimandato ed esorcizzato, si è attuarlo non possiamo che ricordarlo, con gratitudine, per il suo insegnamento e la sua testimonianza in tempi difficili. Arrivederci Presidente!


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