Bersani La cosa in comune. Dall'utopia alla presenza
StorieInsieme a don
Massimo
Camisasca e allo psicoanalista Claudio Risè ha presentato
il secondo volume della storia del movimento. La stima per un’esperienza
cristiana e umana
È la storia di un’amicizia vera, fatta di ragioni solide e radici
ben piantate. E di una stima l’uno per l’altro che un po’ si
diverte pure a sorprendere certi giornali agostani, abituati a ragionare per
schemi e spiazzati dal fatto che sul palco di Rimini, a parlare de La ripresa
(il secondo volume della storia del movimento, firmato da don Massimo Camisasca),
assieme all’autore, allo psicoanalista Claudio Risè e al moderatore
Roberto Fontolan ci fosse anche uno dei “capi” dei Ds. Eppure Pierluigi
Bersani, 52 anni, ex pluriministro, oggi responsabile economico della Quercia
(oltre che uno dei deputati più coinvolti nella trasversalissima “bicamerale
della sussidiarietà”), al Meeting c’era già venuto,
spesso e volentieri. Motivo? «Con i ciellini ho una cosa in comune: neanche
per me la politica è tutto», ha spiegato a la Repubblica. Non è poco.
Ma scavando viene fuori di più.
Piacentino di Bettola, Bersani viene da una terra dove molti, all’epoca,
seguirono la sua stessa trafila (casa-parrocchia-Sessantotto), ma pochi si misero
di fronte all’altra “parte” del mondo studentesco, e soprattutto
a Cl, senza astio e magari con curiosità. Lui lo fece da subito, spinto
anche da passioni sui generis: la filosofia medioevale, la storia della Chiesa... «All’origine
della curiosità per Cl non c’era niente di politico», racconta
a Tracce: «Era un interesse teologico. Mi ha sempre colpito il fatto che
nel Medioevo ci fosse una chiara continuità tra teologia, filosofia e
politica. È un filo che fa da matrice al pensiero occidentale. E in questo
campo ci sono dei clou che mi hanno coinvolto parecchio». Esempi? «Il
rapporto tra grazia e autonomia. O quello tra fede e mondo, il problema di come
si possa agire da credenti nella realtà senza spiritualismi né separazioni.
In fondo, è il tema del legame tra essere e fare. Argomento che riguarda
anche la cultura laica, perché tutti sentiamo di essere qualcosa di più di
quello che si fa».
La politica è subentrata dopo: le assemblee, le occupazioni... Le battaglie,
anche. «Ho incontrato parecchia gente di Cl. E ho osservato, molto. Certo,
ero sull’altro fronte. Ma avevo una chiave di lettura diversa da quella
classica della sinistra. Per intendersi, l’accusa di integralismo mi è sempre
sembrata banale. E poi dei ciellini mi colpiva una cosa: vedevo che lì il
rapporto tra essere e fare funzionava. A cominciare dai temi classici dell’epoca,
come il diritto allo studio. La mia parte spesso lo affrontava in modo ideologico.
Loro no: accoglievano le matricole, facevano i gruppi di studio... E stavano
in università».
Mai scattata una curiosità ulteriore? Mai fatto raggi, vacanze, Scuole
di comunità? «No. Ma ho sempre cercato occasioni per discutere con
esponenti di quel mondo. E sono stato molto attento alla sua produzione culturale.
Don Giussani me lo sono letto. Non tutto, ma parecchio». E che cosa l’ha
colpita di più? «L’idea di bellezza come strada alla verità,
dibattuta anche negli ultimi Meeting. E i richiami continui ai suoi a essere
più che a fare, bloccando sempre sul nascere i rischi di possibili derive».
Come la famosa equipe del ’76, “Dall’utopia alla Presenza”... «Guardi,
in fondo è anche la chiave del mio rapporto con Cl. Quello che chiedo
ai ciellini non è di annacquare il loro vino, ma di fare in modo che quel
vino sia un bene per tutti. Che ci sia sempre l’attenzione alle posizioni
dell’altro». E secondo lei c’è o no? «Di solito
sì». Ma lei ha amici di Cl? «Sì. Assolutamente. E devo
dire che sanno cos’è l’amicizia».