Che cosa rende la vita meglio del niente?

Uberto Motta

A Fëdor Dostoevskij dobbiamo, in primo luogo, nient’altro che una testimonianza di gratitudine e sconfinata ammirazione, poiché con i suoi romanzi e i suoi racconti, le sue lettere drammatiche e commosse e le sue febbrili note di diario, quest’uomo ci consegna ogni giorno tutti gli stimoli e gli strumenti per essere altezza del nostro destino. Per non essere meschini, tiepidi, paurosi di fronte all’incalzare della realtà e della vita.
Come quelle scientifiche, anche le rivoluzioni letterarie modellano l’immagine che l’umanità si forma di sé medesima e del mondo. E solo per pavidità o timidezza, a fronte di quella copernicana o newtoniana, non collochiamo la rivoluzione dostoevskijana: ma la sostanza non muta. Coi suoi libri, con le sue migliaia di pagine, Dostoevskij ha mutato per sempre il corso dei nostri pensieri sulla nostra stessa natura. Basterebbe far caso a quanto ci dice intorno a tre semplici parole: il cuore, la libertà, il mistero. Questioni o concetti tutt’altro che astratti, con cui ciascuno, quotidianamente, è chiamato a confrontarsi, in bilico tra l’invadenza del male e la propria passione irriducibile per la felicità. Eppure, questioni o concetti che perfettamente definiscono quel che larga parte dell’educazione oggi alla moda vorrebbe censurare o rimuovere: il dramma della nostra vocazione, della nostra destinazione, della nostra costituzione.
I suoi testi, da questo punto di osservazione, posseggono una coerenza e una tensione formidabili. Da un lato, con amarezza e ironia, registrano l’inconsistenza, la banalità, la superficialità volgare e arrogante di quanti pensano di poter ridurre l’uomo, e la vita, alle misure quantitative di essa. Ma la carne e le viscere, ci avverte questo nostro fratello maggiore, non sono solo massa, non sono solo chili e centimetri. Sono anche un fremito, un palpito, una scossa: qualcosa di non riducibile alla logica deterministica del positivismo, alla dialettica algebrica, all’astratto moralismo.
Si richiamino un paio di date: la parabola di Dostoesvkij si svolge dal 1846 di Povera gente al 1880, quando termina I fratelli Karamazov, con un picco intorno alla metà degli anni sessanta (gli anni di Delitto e castigo e dell’Idiota). Del 1842 è l’ultimo volume del Corso di filosofia positiva di August Comte, dove si sostiene la natura esclusivamente biologica e sociale, cioè pratica, dell’uomo, espungendo come astratta chimera ogni ipotesi di altro genere. Che le due esperienze siano fortemente, e contrastivamente, connesse, è indubitabile.
Questa è la prima verità, o la prima esortazione, di Dostoevskij: amare la vita tutta intera – con le parole di Aliosa Karamazov – più della logica risoluzione di essa a un semplice pensiero, a un teorema, a un sistema di postulati. Amare la vita più una devitalizzante sua metamorfosi, che ne rimuova i drammi, le inconcludenze, gli errori. Meglio sbagliare da vivi, che ridursi a manichini perfetti.
E che cosa c’è allora, dentro questa vita “intera”, che la renda davvero desiderabile, preferibile al niente, o al mondo dorato dei sogni e delle utopie del progresso? Dostoevskij con lucidità impressionante definisce il cuore dell’uomo (e dunque la vita stessa) un campo di battaglia, un luogo di tensione inesorabile. Definisce ogni istante dell’esistenza il momento di un’opzione decisiva. Si tratta della nostra libertà: questo è il privilegio che rende la vita “bella” anche se difficile (o forse proprio perché tale). Vita che, ammette Dostoevskij, compie autenticamente se stessa, risponde davvero al proprio bisogno, quando di fronte alla gioia, alla bellezza, all’amore, si inginocchia e dice sì.
Questo è ciò che rende la vita meglio del niente, non le idee nobili o le cose utili: ma ciò per cui al cuore viene spontaneo ringraziare. Il sorriso affascinante e puro, né maligno né sciocco, di un uomo che sia rimasto nel cuore bambino; la bellezza infinita che ci circonda, quella del sole che nasce e dell’erba che cresce; l’amore vigile, umile, attivo, che si trasforma in pietà per ogni indifeso.
Rimane la questione di Dio e dell’ateismo assoluto, “più rispettabile”, si legge in un celebre passo dei Demoni, dell’indifferenza mondana. Perché, scrive Dostoevskij, “l’ateo assoluto sta sul penultimo gradino della più perfetta fede, mentre l’indifferente non ha più nessuna fede” ma solo paura. Questo è il male della nostra come di ogni epoca: l’indifferenza, l’accidia di chi rimane sempre scettico, di chi non si lascia mai andare e sta sempre con i remi in barca. Ai piedi della scala, senza accettare la sfida che la nostra stessa natura, zeppa di desideri e domande, ci pone.
Ma le pagine di Dostoevskij sono lì apposta: perché noi si viva sempre accesi di passione e interesse per la realtà che ci viene incontro. Risuonano come una sveglia, come un rinnovato invito a quella vigilia che solo è vita vera.

Da www.ilsussidiario.net (1 febbraio 2012)