CL & Politica. Borghesi: la Dc è finita, ora per unire bisogna "distinguere"

Massimo Borghesi

Il comunicato dell’Ufficio Stampa di Comunione e liberazione del 2 gennaio, in cui si afferma che «l’unità del Movimento non è una omologazione politica, tanto meno si identifica con uno schieramento politico (…) l’impegno politico in senso stretto riguarda la persona e non Cl in quanto tale», è un documento importante. Esso mostra come la lettera di don Julián Carrón a Repubblica del 1° maggio 2012, Abbiamo tanta strada da fare, non fosse un incidente di percorso o il mero espediente per trarsi fuori dai guai giudiziari connessi al caso Formigoni. 
In realtà, come la stampa non ha mancato di sottolineare, siamo di fronte ad una reale novità nella storia del movimento. Termina la “stagione democristiana” di Cl. Come ha rilevato ieri su queste pagine un suo esponente storico, Robi Ronza: «Cl nacque negli anni della Guerra fredda quando – con ottimi motivi contingenti, ma non perciò meno importanti – la Chiesa chiedeva in Italia ai cattolici in via eccezionale il sostegno elettorale e rispettivamente la militanza politica in un solo partito, la Democrazia cristiana. Ciò consentì di fatto anche tra di noi una sovrapposizione fra due cose di per sé non identiche, ossia da un lato una comune idea e un comune metodo “d’affronto dei problemi comuni” e dall’altro la “militanza politica vera e propria”. Oggi, a oltre vent’anni dalla fine della Guerra fredda e dalla conseguente fine della Democrazia cristiana e così via, è più che mai ora di cambiare».
La “stagione democristiana” di Cl non si è conclusa nel 1993-’94, con il declino della Dc. Ha proseguito poi, idealmente, con l’“era berlusconiana” il cui leader venne identificato, incautamente, con un novello De Gasperi in un abbraccio teologico-politico sostenuto da Giuliano Ferrara e dal vento teocon che spirava forte da oltre Atlantico. Tutto questo appartiene al mondo di ieri, un mondo che il trapasso da Giovanni Paolo II, il Papa dell’engagement, a Benedetto XVI, il pontefice agostiniano attento al dualismo tra le due città, ha contribuito a rendere lontano. Oggi per Cl inizia davvero l’89, la caduta del Muro con tutto ciò che ne consegue. Le pregiudiziali vengono meno e il risultato, inconsueto, è la presenza di candidati nei diversi schieramenti: Formigoni-Lupi-Vignali con il Pdl, Mauro con Monti, Graziano Debellini che appoggia apertamente Bersani. 
Questa rottura, vissuta comprensibilmente da molti come un trauma, è un necessario momento di passaggio. Essa non rappresenta una rottura dell’unità ideale di Cl, bensì del modello teologico-politico che ha dominato negli ultimi 15 anni, un modello travolto dalla crisi del berlusconismo. Quello che potrebbe apparire come uno scacco appare, da un altro punto di vista, come un occasione di maturazione. 
Di fronte ad un panorama politico variegato, in cui nessuna forza può corrispondere pienamente al pensiero sociale cristiano, si impone la maturazione di un giudizio politico che tenga conto della molteplicità di fattori che concorrono al bene comune: dai cosiddetti valori non negoziabili, alla tutela e promozione del lavoro e della fasce sociali più deboli, alla politica estera mirata alla pace nel quadro del Mediterraneo. 
Il giudizio cristiano è qui un giudizio “laico” che non isola alcuni valori rispetto ad altri – finendo così strumentalizzato − ma li unisce nel quadro di un bene comune complessivo, tale da superare la dialettica manichea tra destra e sinistra. Il comunicato di Cl consente di arrivare a questo giudizio “laico-cristiano” nella misura in cui distingue  tra impegno politico personale ed appartenenza ecclesiale al movimento. Se la persona è una gli ambiti sono però diversi e il confonderli è causa di non pochi equivoci. Occorre distinguere per unire. Come afferma il Vaticano II: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes, 76).
La Gaudium et spes riprende idealmente la grande lezione di Jacques Maritain il quale in Umanesimo integrale distingueva tra l’agire in quanto cristiano e l’agire da cristiano. Nel primo caso il credente impegna direttamente la Chiesa, come nel caso della difesa della libertà religiosa, nelle questioni bioetiche, in quelle concernenti la famiglia, l’educazione, ecc. Nel secondo il cristiano rischia se stesso, la sua coscienza e competenza in un giudizio storico-politico contingente che non può avere alcuna pretesa di assolutezza. Può solo sperare di fornire un valido contributo al bene comune senza per questo legittimarlo con coperture ecclesiali. Certo nella misura in cui questa distinzione viene consapevolmente assunta, la sfida si fa più alta. In fondo era semplice, per il militante di un tempo, abbracciare in una visione unitaria il pubblico ed il privato, l’appartenenza al movimento e quella di una forza politica pensata come corrispondente. Il pluralismo odierno obbliga, da un lato, a ritrovare le motivazioni dell’unità nell’esperienza della fede e non in una comunanza  ideologica e, dall’altro, a rilanciare un processo formativo capace di suggerire criteri ideali di orientamento pubblico, un pensiero sull’Italia nel quale i singoli politici “cristiani” che provengono da una stessa storia possano riconoscersi in un terreno comune che possa essere condiviso e partecipato con altri.



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