Destinati all'eterno. Il dramma supremo della libertà
TemaUn ebreo, un
musulmano
e un cristiano. Tre uomini che hanno risposto di sì alla
chiamata del Mistero. Al Meeting un incontro che è profezia della sempre
desiderata convivenza nella pace
Cose dell’altro mondo, in questo mondo. Un ebreo, un cristiano e un musulmano
che si guardano negli occhi. Si ascoltano, e sembrano prendersi per mano. Raccontano
la “loro” felicità. Non per teorizzarla, ma per testimoniarla
a chi, come la gente del Meeting, ha messo l’esperienza della felicità al
centro dell’attenzione in una settimana d’agosto per tenercela tutto
l’anno. Quello che si dipana nell’auditorium, stracolmo e silenzioso,
non è un incontro tra teologi, ognuno intento a snocciolare i fondamenti
della sua dottrina religiosa, ognuno a ribadire la giustezza e la superiorità delle
sue posizioni. Sul palco stanno tre uomini che si misurano con una domanda impegnativa:
perché sono felice di essere ebreo, cristiano, musulmano?
DAVID Brodman: il giorno della rinascita
«
Noi non siamo soli e Dio è vicino a noi - dice il rabbino David Brodman,
direttore del Centro Savyon, vicino a Tel Aviv -. La felicità è il
fatto che noi si sia il popolo di Dio, che noi ebrei ogni giorno stiamo vicini
al Potente ed Egli è vicino a noi». È la recita dei salmi
che accompagna ogni momento della vita a rinnovare questa certezza, a confortare
con le parole del re Davide chi per secoli ha patito la persecuzione: «Anche
se cammino per valli dalle ombre di morte non temerò alcun male, perché tu
sei con me». La compagnia del “Dio con noi” è scavata
nella memoria di Brodman, che ricorda commosso la sua deportazione, a 7 anni
con la famiglia, e la giovane madre che ogni sera prima di coricarsi, nell’inferno
del campo di concentramento, gli rivolgeva la stessa domanda: «David, hai
già recitato i salmi?». «Mia madre è l’esempio
di una donna semplice, non uno studente di teologia, non particolarmente colta,
ma una donna che viveva la fede nel Signore, qualsiasi cosa succedesse».
Le ragioni del Potente sono difficili da capire, spesso sconosciute persino ai
profeti, e la Bibbia è abitata di uomini che chiedono: «Perché?
Perché?». La consolazione di Israele risiede nel constatare che
Dio non abbandona il popolo che si è scelto: «Noi sappiamo che il
Signore è misericordioso, ha uno scopo, e alla fine comprenderemo i suoi
motivi». Ma non c’è solo l’attesa del futuro, c’è un
presente da gustare: lo shabbath, il giorno della rinascita in cui gli ebrei
si fermano, parlano, cantano e imparano gli uni dagli altri. È alla tavola
imbandita da questa gioia che il rabbino sogna di far sedere i settemila che
lo ascoltano. Li abbraccia così: «Vorrei invitarvi tutti a partecipare
a uno shabbath - devo chiedere a mia moglie per vedere se è d’accordo!
-, ma sarebbe bellissimo. Il che non significa che io stia cercando di farvi
capire che la vostra vita non è quella giusta». Il rabbino non si
nasconde che «per migliaia di anni abbiamo lottato, ci sono state guerre,
abbiamo cercato di convincere la nostra controparte che noi eravamo i migliori. È un
miracolo dei nostri giorni che adesso si possa accettare l’altro, così com’è,
senza fare compromessi con la propria fede». E conclude con una profezia
che di questi tempi fa venire i brividi: «Con l’aiuto di Dio e col
nostro aiuto arriverà un giorno in cui noi e l’islam saremo amici,
ci parleremo e insieme, tutti insieme, saremo tra coloro che accoglieranno il
regno di Dio quando verrà il Messia».
Ali Qleibo: la felicità abita nei cuori
Dove abita la felicità di Ali Qleibo, musulmano, docente alla Al Quds
University di Gerusalemme? Non si trova nei libri o nella tradizione, è qualcosa
che dimora nei cuori, è vivere nella grazia con Dio, è pensare
che tutto ciò che si riceve viene da Dio: un buon raccolto, una buona
moglie, i bambini. È sentirsi soddisfatti dentro, perché - come
recita un detto che viene esposto all’ingresso delle case nei Paesi islamici
- «avere un senso di soddisfazione è un tesoro inesauribile».
Bisogna conoscerlo, Dio, per rispondere all’invito che il Mistero rivolge
all’uomo, come sta scritto anche nel Corano: «Ricordami in modo che
io possa vederti. Io sono molto vicino a te e presto ascolto a tutti coloro che
mi chiamano». È attraverso i segni che possiamo riconoscere la presenza
di Dio, è nel segno che la ragione intuisce che c’è Qualcosa
che va oltre la ragione, «e con questa ragione che ci è stata data
noi compiamo delle scelte, e la felicità risiede proprio nel riuscire
a mantenere fede alle decisioni, alle scelte che abbiamo compiuto, rimanendo
nel contempo nella grazia di Dio».
GIANCARLO Cesana: abbracciati dal Mistero
La grande questione è dunque poterlo guardare in faccia, il Mistero, averlo
come compagno di viaggio, poterne percepire almeno il bisbiglio, e da quel bisbiglio
arrivare fino a farsi abbracciare dalla sua presenza, che passa nella carne degli
abbracci di coloro che vogliono bene al nostro destino. Cesana non ha dubbi: «Il
senso della vita lo percepisco in un abbraccio concreto, nell’abbraccio
di don Giussani, di mia moglie, dei miei figli, di chi sorprendentemente ho trovato
come compagnia al lavoro, perché compagnia alla vita». Quando ci
si stringe l’uno all’altro con verità si percepisce che c’è un
terzo, c’è un Altro che rende vero quel rapporto, che immette in
quel gesto un’energia più forte della fisicità di cui si è capaci
e che, lasciata sola, rischia di esaurirsi o di farci del male. Perché l’esperienza
dimostra che «non si può amare l’uomo se non si ama Dio, altrimenti
quell’abbraccio soffoca: così è l’esperienza di tanti
che si abbracciano e, insieme, non respirano più. L’abbraccio vero,
l’abbraccio dell’innamorato, è quello di chi percepisce nella
presenza dell’altro, nella comunione dell’altro con la propria vita
l’infinito a cui tende, e allora il mondo si spalanca». Senza per
questo cancellare il dolore, senza che il male venga eliminato dalla terra. Resta
dura la realtà e spesso si rivolta ferocemente contro di noi, ci costringe
a scontrarci con le ostilità che non vorremmo incontrare, con un dolore
che non riusciamo a spiegarci. Ma proprio il dolore diventa grido, come nelle
parole di Cesana: «Il dolore ci fa capire che non siamo fatti da noi, il
mondo non l’abbiamo fatto noi ma un Altro. E Cristo ci testimonia che Dio è diventato
come l’uomo, ha sofferto come l’uomo, per dirgli: anche se soffri
io ti rifarò, ti ricostituirò».
Questa consolazione sul senso e sull’esito dell’esistenza umana è ciò che
permette di guardare con uno sguardo nuovo sia alla nostra persona, sia a chi
ci sta di fianco, anche quando sembra lontano, anche quando non la pensa come
noi, anche quando tutto intorno sembra congiurare in favore della violenza, proprio
come sta accadendo nella terra dove da secoli convivono ebrei, cristiani e musulmani.
Perciò le parole con cui Cesana conclude la sua testimonianza guardando
il rabbino Brodman e il professor Ali Qleibo sembrano trapassare anche la corazza
ispessita delle analisi politiche sul Medio Oriente, per indicare l’unica
direzione nella quale è possibile camminare con realismo, quella che arriva
nella casa di un Quarto che può realizzare le attese dei tre che hanno
parlato nell’auditorium: «La speranza di compimento che ho fa crescere
in me anche il desiderio di essere in unità con loro, in unità con
tutti, perché non è Dio che vuole la guerra. E se l’uomo
cerca Dio non fa più guerra, ma ne fa di meno. Perché noi non siamo
al mondo per avere ragione, siamo al mondo per amare».