Dies Irae
Scuola di ComunitàLa presentazione
di don Giussani del film di C.T. Dreyer, pubblicata nel 1996 nel libro Le mie
letture della collana Bur “i libri dello spirito cristiano”
La drammaticità che introduce nella vita il senso religioso, così come
la vediamo documentata in Dio ha bisogno degli uomini diventa tragedia per l’uomo
pensoso, capace di riflettere su di sé veramente: questo è il messaggio
amaro, tremendo, grandioso di questo film (Dies Irae; ndr).
Potenza artistica di dizione, di comunicazione di questo film. Un film che comincia
come silenzio, le prime battute colme di silenzio segnano il tono dominante di
tutto il film. Tutte le parole del film si potrebbero riassumere in tre o quattro
pagine di quaderno. Eppure non c’è film che più di questo
parli con bordate potenti al cuore.
Le prime sequenze colme di silenzio sono rotte da una frase della strega: «Grande è la
potenza del male»: è il titolo reale del film. Grande è la
potenza del male che si insinua nella illusione cui è proclive il cuore
del singolo, che penetra dentro il tenore normale della folla immediatamente
pronta alla violenza contro ciò che non corrisponde alla propria immagine
ideale: la strega, appunto. Ma che si insinua e domina anche nel cuore della
grande figura del pastore protestante: il protagonista del film, il detentore,
il proclamatore e l’amatore della legge. Del resto, tutto questo non gli
ha impedito di scegliersi come sposa, già anziano, una giovanissima ragazza;
non ha tenuto in considerazione il capestro che le metteva, il destino soffocante
cui la costringeva e il prezzo di questa scelta, vale a dire l’eccezione
alla regola. Infatti, avrebbe dovuto condannare, secondo le sue regole, la madre
di questa ragazza che era una strega, ma non la condanna contravvenendo alla
sua coscienza. Grande è la potenza del male, che perturba dapprima e corrompe
la freschezza giovanile della giovane moglie, che investe la volontà e
i sensi del figlio del pastore. Anche la moglie dimostrerà di possedere
lo spirito malefico della strega sua madre. La giovane moglie del pastore, piena
di vitalità, angustiata e imprigionata da quel rapporto, cercherà di
liberarsi con il figlio. Però è nel sangue il male, ha ereditato
dalla madre il potere magico della stregoneria.
La donna che si vede al principio è un’amica della madre, e al contrario
di quella sarà condannata al rogo, e dice al pastore: «La mia amica
non l’avete condannata; come hai fatto eccezione per lei, così falla
per me».
Grande è la potenza del male: e infatti il desiderio della giovane moglie,
carico di questo potere strano, farà morire il pastore.
Che cosa può un uomo di fronte a questa potenza del male? Ecco, allora,
il vero significato del film: la drammaticità del senso religioso diventa
tragedia nell’uomo pensoso. Il soggetto di questo messaggio, il personaggio
che mostra questa tragedia è l’incarnazione del protestantesimo:
l’interpretazione più profonda che la coscienza umana abbia dato
del senso religioso è senza dubbio l’interpretazione protestante.
Contro il male l’uomo non può fare nulla. Può irarsi fino
a reagire con violenza (bruciare la strega), ma non può niente. E l’umiliazione
che porta nel cuore per tutta la vita il pastore protestante, in fondo consapevole
dell’errore cui ha aderito e cui aderisce, nonostante le parole e il suo
ruolo pieno di dignità, di guida del popolo, è una dimostrazione
di questa impossibilità dell’uomo a resistere al male. È una
documentazione di quello che la tradizione della Chiesa chiama «peccato
originale», questa sorgente amara e ambigua che sta alla radice di ogni
nostra azione, alla radice di ogni vita.
Però Cristo è venuto per questo male, Dio è venuto a liberarci
da questo male. Come? Secondo la visione protestante, ponendo la speranza nell’aldilà,
in una realtà senza connessione con il presente, senza rapporto con il
presente, come incombenza astratta, come nuvole sulle cose umane. Ecco, questo è l’unico
sollievo che può venire all’uomo pensoso che scopre in sé la
tragedia del male: la speranza nell’aldilà, nell’aldilà dove
c’è la misericordia. La strega, poco prima di essere condannata
al rogo, si rivolge al pastore e dice: «Liberami, come hai liberato la
madre di tua moglie!». E il pastore le ripete: «Coraggio, tra poco
sarai libera», cioè dopo il fuoco, nell’aldilà. «Ma è nell’aldiqua
che io voglio vivere!» dice la strega, giustamente, umanamente. Ma non
ottiene risposta.
Il culmine del film è l’ultima sequenza, quando, dopo la morte improvvisa
del pastore, sua madre, l’arcigna custode del giusto, accusa, durante il
funerale, davanti al popolo, come causa della morte del figlio, la nuora. L’accusa
di essere una strega come sua madre. E la parola conclusiva, l’ultima del
film, è l’espressione del viso della giovane moglie del pastore
che, con gli occhi pieni di lacrime, dice: «I miei occhi sono pieni di
lacrime e nessuno me le asciuga». Così è spiegata la contraddizione
con l’episodio del film in cui lei piange nel vedere la morte della strega
sul rogo e il figlio del pastore accorre da lei e, vedendola tra le lacrime,
le dice: «Io te le asciugo». La sostanza della vita non è così:
quella è solo una breve compagnia illusoria. Il senso della vita come
emerge in questo film è più esatto nell’ultima espressione: «I
miei occhi sono pieni di lacrime e nessuno me le asciuga».
Un cristianesimo, dunque, che incombe sulla vita moralisticamente, perché indica
solo l’aldilà. Si ha così una proclamazione della legge che
fa venire a galla più chiaro, potente, il senso del peccato, la coscienza
del male che è in noi, il senso dell’ambiguità, dell’impostura,
della menzogna che è in noi. Perché senza legge, come dice anche
san Paolo, l’uomo si accorgerebbe di meno di questa impostura che è in
lui. Un cristianesimo così incombe su questo mondo, grava soltanto come
comunicazione di leggi morali, che esaltano il senso del male, ma per cui non
c’è nessun rimedio.
Il rimedio sta in un aldilà che alla nostra vita quotidiana, alla nostra
aspirazione e al nostro dolore quotidiano non ha nulla da dire. È solo
una proposta di fuga. Tu, strega che stai per essere bruciata, pensa all’aldilà.