E "don Gius" rivoluzionò il '68

Joseph Ratzinger

"La vita umana va presa a piene mani!... Dovunque la rigiri è interessante", così dice Goethe nel Prologo del Faust, parlando al poeta che faticosamente si lambicca per trovare al suo dramma un contenuto e una forma. Una vita presa a piene mani è ciò che ci mostra monsignor Camisasca in questa prima parte della sua storia di "Comunione e Liberazione", dedicata in larga misura alla biografia di don Giussani; ne risulta perciò un libro interessante fin dal primo istante. Anzi, noi assistiamo qui a ben più di una vita umana: nell'itinerario del fondatore di "Comunione e Liberazione" troviamo l'intero dramma del secolo appena trascorso: la lotta tra fede e irreligiosità, in cui lo stesso Goethe ha indicato il tema reale di tutta la storia del mondo, dà forma a questa vita. Un uomo, che ci lascia coinvolgere radicalmente in questa lotta, entra in contatto con tutte le forze del suo tempo e ci pone di fronte alle domande più profonde del nostro stesso essere. Già al liceo, e ancor più alla scuola di teologia del seminario di Venegono, Giussani incontra grandi maestri e sviluppa le sue doti di amicizia. A quattordici anni nasce in lui una passione per le poesie di Giacomo Leopardi. Nella poesia Alla sua donna lo commuove il desiderio di una felicità infinita. La lama del bello, per così dire, lo colpisce fino ad aprire in lui una ferita metafisica. In una cultura dichiaratamente antimetafisica, la nostalgia dell'infinito si fa sensibile: lì si affaccia, celato, Cristo: con più emozione, con più realismo che nei trattati teologici o nei libri di pietà. La bellezza come splendore della verità si fa strada nel pensiero e nella sensibilità del giovane uomo fino a diventare uno dei fattori centrali del suo itinerario di fede. Chi può evitare qui di pensare a suo padre per il quale "più del pane era importante la musica"? Nella sua poesia Alla sua donna, inaspettatamente, gli era diventata visibile la figura di Cristo, il quale, d'altro canto, aveva subito gettato di nascosto il suo amo - l'amo della nostalgia per la felicità infinita - nel cuore del giovane lettore. Con ciò abbiamo raggiunto il vero e proprio centro intimo della vita di Giussani: l'incontro con la persona di Cristo. Una serie di circostanze fortuite volle che Giussani non divenisse - come era stato previsto - uno degli insegnanti di teologia di Venegono, ma entrasse invece come professore di religione a trentadue anni in una scuola laica, il liceo classico G. Berchet di Milano, dove egli insegnò dal 1954 al 1965. Don Gius - come lo chiamano i suoi amici - si trovò trasportato in un ambiente massonico, repubblicano e perciò antireligioso per impostazione. Da quel momento divenne per lui un principio irrinunciabile quello di non operare nel chiuso degli ambienti cattolici, ma di muovere apertamente verso l'ambito della cultura moderna, per rendere in esso presente il Vangelo. A questo scopo occorrevano senza dubbio una nuova lingua e nuove modalità di comunicazione. E' avvincente seguire il modo con cui Giussani, posto di fronte a questa sfida, dipanò il proprio metodo di annuncio, attraverso il quale si sviluppò la sua "Gioventù studentesca" (Gs) e da cui sarebbe a sua volta nata "Comunione e Liberazione". Particolarmente interessante e illuminante trovò infine la possibilità di seguire la traccia degli avvenimenti che portarono al sovvertimento dell'anno 1968, con le decisioni e le scissioni che lo segnarono. Le provocazioni di quel momento di svolta resero evidente quali siano le fondamenta su cui si può costruire e quali invece siano destinate a crollare; risultò chiaro che cosa è in grado di sostenere la fede e di farla resistere anche nei momenti bui e che invece è insufficiente, quando si tratta dell'ultima scelta tra il sì e il no. Qui sta il significato permanente di quel momento; come un lampo abbagliante esso illumina le radici dell'esistenza cristiana, dividendo l'essenziale da ciò che non lo è. Guardando oggi indietro, si possono individuare già molto presto diversi punti di divaricazione. Già nei primi anni Cinquanta emerge il contrasto con il programma che Gedda persegue in seno all'Azione Cattolica e che Camisasca illumina in pieno con questa frase: "La fede si difende con l'organizzazione". A questa fede nell'organizzazione Giussani elabora in questo primo periodo. Per Bobbio e Calogero la verità è il frutto di una dialettica di posizioni; l'identità nasce dal dialogo: una concezione che rimanda all'idea della società aperta di Popper, in cui il consenso si sviluppa senza un fondamento che venga prima, attraverso un gioco di congetture e confutazioni. Per Giussani al contrario l'identità non è prodotto del dialogo, ma ne è il presupposto e così la verità non è prodotto della discussione, ma la precede e in essa non deve essere creata, bensì trovata. Nella stessa direzione va anche la presa di distanza di Giussani dal metodo dell'Azione cattolica ispirato all'idea maritainiana dell'umanesimo integrale. Certo, la decisione di fondo che era stata in questo modo preparata dovette essere ripresa su basi nuove nel momento della crisi. Nel 1960 Giussani aveva arrischiato il salto al di là dell'oceano, inviando dei ragazzi in Brasile, perchè vissero il Vangelo nel cuore della povertà e del dramma sociale di quelle terre. Sotto la pressione di quelle provocazioni , tuttavia, i punti di riferimanto si sfocarono; il passaggio ad un'azione puramente politica e sociale, simile a quello predicato dalla teologia della liberazione, sembrò a molti l'unica risposta possibile. Ciò che si verifica nel laboratorio Brasile si propaga poi inevitabilmente in Italia. La teologia viene sostituita dalla politica, solo nell'azione politica sembra essere una risposta efficace ai bisogni dell'uomo. Lo spartiacque corre tra una concezione del cristianesimo come impegno morale e sociale, tra un cristianesimo compreso essenzialmente come un morale, e un cristianesimo in cui Cristo - e in lui Dio - è il centro. Giussani ci mette in mano due criteri fondamentali. Il primo: la speranza si rivolge o solo all'azione e all'organizzazione (pensiamo alla posizione di Gedda), o a qualcosa di "gratuito", al dono libero che viene da Dio; o si crede solo a ciò che è in proprio potere, o si crede in Dio, si potrebbe dire. Il secondo: se si riduce il cristianesimo a morale o d azione, va perduta l'"ontologia stessa del fatto cristiano"; abbracciando una simile concezione, dimentichiamo le basi su cui poggiamo e confidiamo solo su ciò che noi siamo in grado di fare. Io trovo sorprendente e grande che la parola "ontologia" emerga qui come segno di separazione e che ciò accada proprio in Giussani, un uomo che aveva rinunciato alla metafisica astratta per mettere al suo posto l'avvenimento. Qui appare che questo avvenimento non significa affatto qualcosa di estrinseco, di puramente fattuale, me che in esso - come ingresso di Dio nella nostra storia - si incontra il fondamento stesso di ogni essere e di ogni vita: la storia ci apre una via all'essere, che noi senza di essa - come Kant ha mostrato - non possiamo trovare. Qui sono restituiti all'ontologia i suoi diritti, ma ciò accade in modo assolutamente nuovo grazie al nesso stabilito con l'avvenimento; si arriva a far breccia cioè in modo genuinamente cristiano verso l'Essere, verso il fondamento che ci sostiene.