Il contraccolpo dell'Essere...
CL - La ThuileAppunti dalla sintesi al termine
dell’Assemblea internazionale responsabili. La Thuile, 23 agosto
«Quando ci si mette insieme, perché lo facciamo? Per strappare agli
amici, e se fosse possibile a tutto il mondo, il nulla in cui ogni uomo si trova.
Il nostro è un rapporto “vocazionale”.
Il rapporto vocazionale è addirittura questo: che incontrando noi - e
può essere perfino la madre, anzi, innanzitutto la madre -, una donna
o un uomo, un coetaneo o uno più piccolo, uno si senta come afferrato
nel profondo, riscosso dalla sua apparente nullità, debolezza, cattiveria
o confusione, e si senta come d’improvviso invitato alle nozze di un principe.
La Madonna è come l’invito del principe».
Siamo chiamati a vivere la nostra vita e la nostra fede in un contesto epocale,
in cui quello che è in gioco è l’io, la persona: non un aspetto
della vita, non un aspetto dell’io, ma la mia, la tua persona, l’io.
E per questo non è un’esagerazione dire che la lotta è contro
il “nulla” nel senso reale del termine, cioè contro lo sfascio
del nostro io, la perdita dell’io. Un io che è così “piccolo”,
come lo descrive Leopardi: «Quando egli [l’uomo], considerando la
pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è minima
parte di uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, in questa considerazione
stupisce per la sua piccolezza e, profondamente sentendola e intensamente riguardandola,
si confonde quasi col nulla». Questo siamo noi: qualcosa che «si
confonde quasi col nulla». E quanto più profondamente uno sente
e guarda questo, tanto più, davanti a questa piccolezza, a questo “quasi
nulla”, se uno ha anche una minima consapevolezza di ciò, quando
recita i salmi (“Cos’è l’uomo perché te ne ricordi?”),
non può non commuoversi.
Ma se noi siamo questo “quasi nulla”, se siamo peccatori, bisognosi,
allora si capisce bene qual è il dramma del nostro io. Non si tratta di
mettere a posto una piccola parte di noi, di cambiare qualcosa nella stanzetta
della nostra vita; non è una questione di decorazione: quello che è in
gioco è il nostro io stesso. Perché noi siamo “gente non
a posto”, raggiunta dall’Essere. Gente non a posto: siamo uomini
come tutti, poveretti come tutti, peccatori come tutti! Perciò, come responsabili,
non siamo qui per imparare un po’ meglio un discorso, ma perché siamo
bisognosi, “gente non a posto”: abbiamo bisogno prima di tutto per
noi.
Don Giussani diceva: «I cristiani (…) si illudono di essere buoni
perché hanno capito una volta e fanno riferimento come se si salvassero
con il discorso e la coerenza. Preferisco molti che cristiani non sono, perché sono
consapevoli del male e della loro incapacità di seguire il bene che pure
presentono. Per questo prediligo certi temperamenti che si agitano nel mondo
e aspettano una pace che non viene, piuttosto che quei cattolici che si costruiscono
un sistema per riposare nella loro supposta fede e supposta carità. In
loro Cristo viene mummificato, e in più credono di conoscerlo». Meglio peccatori! Come dice Gesù: «Dopo ciò egli uscì e
vide un pubblicano di nome Levi seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi!”.
Egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì. Poi Levi gli preparò un
grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e di altra
gente seduta con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano
ai suoi discepoli: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e
i peccatori?”. Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno
del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori
a convertirsi”».
Solo chi ha la consapevolezza di essere “non a posto”, peccatore,
bisognoso, come Matteo, capisce cosa vuol dire che uno fissi lo sguardo su di
lui e gli dica: «Seguimi!». Potete immaginare la commozione di Matteo,
che il Caravaggio ha colto e posto per sempre davanti ai nostri occhi («Io?!
Proprio io?!», sembra rispondere Matteo con il gesto della mano a Gesù che
lo chiama). Mai Matteo aveva avuto una consapevolezza così forte del proprio
io, del proprio niente, del proprio essere peccatore, come davanti a quell’uomo.
Questa è la commozione dell’io davanti all’Essere (altro che
emozione sentimentale!), è la vibrazione dell’io, così piccolo,
così “quasi nulla”, così bisognoso, nell’incontro
con l’Essere. Tutte le altre commozioni sono immagine, ombra, dell’unica
vera commozione, quella che l’uomo ha davanti all’Essere, nell’incontro
con la presenza tenera e piena di misericordia di Gesù. È l’unica
vera commozione, l’unica che corrisponde al bisogno umano, che resta per
sempre, qualsiasi cosa accada.
«È una semplicità del cuore quella che mi faceva sentire e riconoscere -
ha testimoniato don Giussani davanti a tutta la Chiesa - come eccezionale Cristo».5
Occorre questa semplicità di fronte all’eccezionalità di
Cristo, all’incontro con questa presenza tenera e misericordiosa. Anche
Matteo poteva dire, per usare l’espressione di don Giussani, di essere
stato invitato dal principe: perché non era stato lui a invitarlo. Il
banchetto di Matteo era la celebrazione della commozione davanti all’Essere
- mentre gli altri mormoravano: «Perché mangiate e bevete con i
pubblicani e i peccatori?» -.
Quello che è accaduto a Matteo accade oggi. Mi diceva uno di voi che da
quando è stato invitato a La Thuile, a questo incontro, dopo un anno difficile,
aveva percepito questo gesto come l’invito del principe. Ma in quanti abbiamo
avuto la percezione di essere qui “invitati dal principe”? Forse,
oggi, dopo questo gesto insieme, tutti lo diremmo. Noi, come Matteo, siamo stati
invitati dal principe, abbiamo incominciato a intravedere cosa vuol dire la vibrazione
dell’Essere.
Che cosa infatti abbiamo visto, sperimentato, in questi giorni? Che l’Essere,
attraverso una forma, la forma di questa realtà in cui siamo stati coinvolti,
ci ha raggiunti uno a uno. Nella partecipazione a questo gesto, a questo “vortice
di carità”, che ha una forma precisa, concreta, storica, fatta di
volti, di canti, di testimonianze, tutti noi abbiamo visto accadere, davanti
ai nostri occhi, l’esaltazione del nostro io. Perché attraverso
questa forma, attraverso questo gesto, chi ci ha raggiunto è l’Essere.
Anche noi dobbiamo fare - come il cieco nato - il percorso della fede. Se non
facciamo tutto il percorso della ragione, della libertà e dell’affezione
fino al riconoscimento di Colui che è all’origine di ciò che
ci è accaduto - l’Essere -, rimaniamo all’apparenza, in una
emozione sentimentale, non viviamo cioè fino in fondo quello che è accaduto. «Come
appare chiaro nel Vangelo di Giovanni - dice don Giussani -, Gesù non
concepiva l’attrattiva sua sugli altri come un riferimento ultimo a sé,
ma al Padre: a sé, perché Lui potesse condurre al Padre, come conoscenza
e come obbedienza».
Perciò, prima della vocazione di Matteo, dopo la guarigione del paralitico,
il Vangelo dice: «Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio
su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio. Tutti rimasero
stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo
visto cose prodigiose”». Ma l’origine di queste cose prodigiose è Dio, è il
Padre. Perché pensano a Dio, se hanno solamente visto uno guarito, e guarito
da un uomo? Perché non potevano stare fino in fondo davanti all’accaduto
senza pensare a Dio!
Se noi ci arrestiamo all’apparenza, perdiamo il meglio: il meglio è che
attraverso questa forma, questo nostro essere insieme, qui, è l’Essere
che ci raggiunge. Perché domani non saremo qui, dopodomani dovremo andare
a lavorare, domani l’altro magari non avremo lavoro o saremo ammalati:
ma c’è, ciò che è all’origine di quello che
abbiamo vissuto, c’è; domani c’è, dopodomani c’è,
senza lavoro c’è, con la malattia c’è, quando arriva
la morte c’è!
Partecipando a questo gesto, abbiamo incominciato a capire, a intravedere il
contenuto della lettera che don Giussani ci ha scritto, perché abbiamo
fatto ancora una volta esperienza dell’Essere-Carità, l’esperienza
originale dell’Essere che, attraverso una forma, ci “attacca”,
desta una attrattiva in modo che tutti noi rimaniamo attaccati.
Non generiamo noi l’unità con l’Essere, è Lui che la
genera: è la Sua presenza, attraverso una forma, che genera in noi questa
unità. «Uno non si salva - diceva ancora don Giussani nell’intervista
a Libero - da solo, per i propositi che fa, perché è un Altro che
salva lui e il mondo, attraverso una cosa nuova fatta nascere nella storia. L’Essere!
Tutto fiorisce dal flusso dell’Essere! (…) Senza Cristo uno si sente
disperso in se stesso, inedito, incapace di focalizzare la realtà, incapace
anche solo di scorgere con nitore qualsiasi bellezza durevole».
Possiamo intravedere cos’è accaduto alla Madonna, perché anche
noi, come lei, siamo commossi. Questo è il metodo con cui Dio ci salva,
come è successo per prima alla Madonna: “commossa dall’Infinito”.
Abbiamo bisogno di persone, di amici “commossi”, che ci strappino
dal nulla. Per questo il nostro rapporto è vocazionale: noi siamo amici
per questo.
«
Come si fa - dice don Giussani - a comunicare agli altri? Con discorsi? È impossibile!
Si può soltanto contagiare per la “malattia grave” dell’esperienza
che si fa in noi [è il “contagio” di questa malattia, di questa
commozione]! (…) E tu sei in funzione del tutto [possiamo collaborare al
bene di tutti, al bene del mondo] attraverso il contagio di quello che vivi tu,
dell’emozione che vivi tu, dell’esperienza che vivi tu, del sentimento
di te che vivi tu [altro che discorso corretto e pulito!]. Uno serve agli altri
nella misura del sentimento che ha di se stesso», altrimenti non si comunica.
Più recentemente, agli Esercizi del Gruppo Adulto, don Giussani è intervenuto
per rispondere a una domanda: «Tu ci hai detto che non c’è vibrazione
di fronte all’Essere, come possiamo aiutarci?». E lui: «Comunicandoci,
solo comunicandoci. E il comunicarsi non è soltanto la lingua, come strumento
di parola, ma è innanzitutto lo strumento di una presenza che si comunica
a te», di questa emozione che vivi tu, di questo sentimento che vivi tu.
Non c’è un altro modo di comunicarsi, di comunicare la verità,
se non la testimonianza, perché l’avvenimento cristiano è un
avvenimento fatto di parole e di fatti insieme.
Allora il vero amico, l’unico che mi strappa dal nulla, è il testimone:
testimone è colui che mi fa diventare familiare l’Essere, che mi
fa partecipare a questa Presenza, alla commozione di questa Presenza, all’avvenimento
di questa Presenza nella storia.
La testimonianza più grande dell’Essere, di Cristo, è l’unità tra
di noi. Il riverbero più grande della presenza di Cristo è questa
unità: niente è più impossibile all’uomo di questa
unità. È di essa che dobbiamo essere figli, è a essa che
dobbiamo obbedire. Occorre seguire questa unità, come ci insegna don Giussani
fin dall’inizio: «Io appartenevo, non a loro, ma all’unità con
loro», con quei tre dell’inizio. «Io sono figlio tuo» ha
detto ieri a uno di noi. «Io sono figlio di questa unità, che il
Padre genera davanti a noi». La sequela a don Giussani è qualcosa
che fa un Altro: lui è generatore, è padre, perché generato
permanentemente da un Altro, perché segue quello che genera un Altro,
il Padre.
Possiamo essere tutti bravissimi, ma da soli ci perdiamo. Fuori da una comunione
siamo “fatti fuori” in un minuto. Perciò la questione è l’attaccamento
alla carne di una unità, l’obbedienza alla carne di una unità,
altrimenti è il trionfo della propria interpretazione.
La consistenza della nostra vita non è nella nostra forza. Smettiamola
di dire che non abbiamo la forza, perché la forza è la semplicità!
Come il cieco nato: aveva più forza, più intelligenza dei farisei
che tentavano di metterlo in difficoltà, perché ha avuto la semplicità di
aderire a ciò che gli era successo, alla presenza di chi gli aveva ridato
la vista. Questa è la nostra forza: accettare la mano di un altro, aderire
alla mano che un altro ci dà per salvare la nostra vita.
È ancora in primo piano l’importanza di una forma, del riconoscimento di
una forma: un’unità che ci spalanca all’Essere costantemente.
La carità dell’Essere ci raggiunge attraverso una forma, attraverso
la forma di questa unità. Chi in questi giorni ha obbedito a questa forma,
chi ha avuto la semplicità di seguire, ha sperimentato - così com’è!
- l’esaltazione del suo io. E va a casa diverso, partecipa di più dell’Essere, è più se
stesso. Come scrive Montale, «giusto era il segno, chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti».
è l’inizio di una memoria. Abbiamo bisogno di Lui, di riconoscerlo ogni giorno.
Non si può fare a meno di questo, non si può vivere senza questo,
non ci si può alzare al mattino per meno di questo; non soltanto quando
le cose sono brutte, ma anche quando le cose sono splendide. Se non c’è Lui
nella vita, non c’è niente da fare, fossimo anche in Costa Smeralda,
alle Bahamas, o ai Caraibi, perché la differenza è Lui, è la
Sua presenza. Quando insistiamo tanto sulle situazioni brutte è perché nelle
situazioni normali viviamo come se non avessimo bisogno di Lui.
Che l’Essere sia carità, che ci sia, vuol dire che io non mi trovo
da solo con il mio niente, con il mio bisogno, con la mia debolezza, con la mia
incapacità, con il mio peccato. Questo ci fa intravedere che cosa vuole
dire don Giussani con il termine “estasi della speranza”. Noi tutti
possiamo andare a casa con speranza, perché abbiamo visto che importiamo
all’Essere: la nostra vita importa all’Essere!
La memoria non è un ricordo, ma il riconoscimento presente dell’Essere
che mi raggiunge adesso. Questa è la positività, come leggiamo
nel Volantone di Pasqua 2003: «Qualsiasi evento capiti non troverebbe mai
risposta adeguata, se non ci fosse Cristo: Lui segna l’ultima vittoria
di Dio sulla realtà umana; qualsiasi cosa accada, è la “misericordia”,
che legge tutto ciò che è umano. La misericordia: Dio compie la
vittoria sul male dentro la storia come positività, è questo che
dà la ragione a ciò che accade».
Senza il riconoscimento di Cristo in ogni istante, non abbiamo la ragione di
quello che accade. Siamo amici per questo, per riconoscere questo: siamo uniti
per aiutarci a riconoscere la ragione di tutto ciò che ci accade, che
non è una cosa astratta, ma una persona, Cristo. Per questo si desta ogni
volta un’affezione più grande a Lui, per questo ci alziamo al mattino.
Tutto questo ha il suo splendore nella Madonna. «Tu se’ di speranza
fontana vivace»: è la positività ultima che vince. Lei, una
come noi, ha potuto dire: «Il Signore ha guardato il niente della sua serva» il “quasi
nulla” della sua serva. Questa è la positività ultima che
vince. Lei è davanti a noi, e sfida tutto il nostro scetticismo. Nel dolore,
nella situazione brutta, nella malattia, abbiamo davanti a noi la Madonna.
Diceva don Giussani ai Novizi: «Vi chiedo di partire sempre dalla presenza
della Madonna, questa presenza suprema nella storia dell’universo. Immaginatevi
i giorni della Madonna, i giorni di Maria con quel Mistero, che sente, che percepisce,
che riconosce, che abbraccia con tutta se stessa, dentro di sé. Nel tempo
che passa, il moltiplicarsi senza fine dell’orizzonte implicato in esso,
che cosa doveva rappresentare per la Madonna! Non solo quando lo pensava, ma
sempre, perché per una madre avere addosso il figlio, portare il figlio, è come
amare la presenza di tutte le cose, è amare la Presenza! Così che
veramente - questo dobbiamo scoprirlo, aiutarci a scoprirlo -, veramente è un
amore altrimenti totalmente ignoto agli altri, un amore per cui tutti gli altri
sono fatti come siamo fatti noi, un amore senza confine, come l’atteggiamento
del Padre verso il Figlio suo Gesù. Abbiamo la pazienza del tempo, non
un’impazienza irritata o scandalizzata perché le parole non danno
immediatamente, non esprimono immediatamente il loro significato o, come è stato
detto e citato, non ci lasciano innamorati dell’Infinito. Il tempo che
passa ci farà innamorati dell’Infinito in ogni cosa finita in cui
noi ci imbatteremo! Dobbiamo chiedere alla Madonna la grazia di essere parte
della sua maternità, perché per questo siamo fatti. (...) Un bambino
appena concepito sta nel cuore di sua madre. Che dominazione!» (Vedi “Pagina
uno” di questo numero; ndr).
Che Gesù domini come il pensiero dominante del nostro cuore! Ogni mattina
possiamo incominciare la giornata con la preghiera dell’Angelus, lasciando
entrare nel nostro nulla questa dominazione. Ogni mattina succede questo, a me,
a te: nel nostro nulla, nel nostro niente, nella nostra distrazione, nel nostro
male, ci è data la grazia della Madonna, ci è data la grazia, l’annuncio,
ci è comunicato l’annuncio che il Verbo si è fatto carne,
come alla Madonna. E se noi siamo attenti, non possiamo non commuoverci di questo.
Ci alziamo per questo: perché Cristo domini ogni volta di più nella
nostra vita per la vita del mondo.