Il disìo umano. Motore verso Dio

Divina Commedia
Luca Doninelli

L’esperienza dantesca raccontata dalla professoressa Chiavacci, docente universitaria e membro onorario della Dante Society of America. «L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore»

Se la letteratura occidentale, greca e giudaica, aveva focalizzato la sua attenzione sulla necessità di una meta per definire il destino dell’uomo - tanto che si può dire che proprio l’esistenza di una meta definisce il senso della parola destino - la Divina Commedia, punto culminante del cristianesimo d’Occidente, compie un passo decisivo oltre questa prospettiva, mostrando, lungo la via segnata da Agostino, come il desiderio, o meglio il disìo, o disire, gran motore dell’agire umano, non si acquieti in nessuna delle esperienze a noi offerte dal mondo, ma ingiunga di passare l’orizzonte. Fino a quel punto in cui la persona, l’io incontra faccia a faccia, il punto nel quale il desiderio si scioglie. È l’esperienza dantesca così come ci è stata raccontata in una mirabile lezione dalla professoressa Annamaria Chiavacci Leonardi, tra i maggiori studiosi danteschi viventi nonché grande amica del Meeting, di cui è stata ospite più volte.

Il cammino del desiderio
«Questo disire è “moto spiritale”, moto spirituale, tuttavia è già un movimento di per sé. Il desiderio è movimento. Ed è il movimento di cui vive l’Universo per opera di quel Dio in cui Dante crede». Tutto l’universo è improntato così da Dio, che «tutto il ciel move, non moto, con amore e con disìo» (Par XXIV, 131-132). «Ma nelle creature dotate, come dice Dante, “di intelletto e d’amore” c’è una cosa diversa: diversa è la meta, diversa la coscienza che tali creature ne hanno. Diversa la libertà di perseguirla o meno. Quella libertà che fa la grandezza della natura umana. Ora, questo desiderio, o disìo, è una forza che dominò tutta la vita di Dante. È lui, infatti, il protagonista di quel cammino, del cammino del desiderio, che nel poema si compie nel modo che sarà detto negli ultimi versi, nell’introduzione dell’ultimo Canto: «E io ch’al fine di tutti i disii/ appropinquava, sì com’io dovea,/ l’ardor del desiderio in me finii» (Par XXXIII, 46-48)». Verso la fine della sua lezione la signora Chiavacci Leonardi indica con chiarezza il punto d’arrivo del poema, che non è - come scrisse un eminente studioso, l’americano Singleton - Beatrice (anche se la bellezza come esperienza personale è il segno da qui, da ora, da subito, della corrispondenza tra il desiderio e un destino certo), bensì una sorta di solitudine in cui tutto si condensa.

Il cuore parla al cuore
«L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore. Cor ad cor loquitur, è la bellissima insegna scelta dal cardinale Newman: io non so se l’abbia inventata lui o l’abbia trovata da qualche parte, perché non sono riuscita a trovare la fonte, comunque me la ricordo spesso. Cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore. L’incontro è sempre fra due persone, il rapporto con Dio passa da persona a persona. Ora Dante, dopo la grande preghiera elevata da Bernardo a Maria, si ritrova solo nell’ultimo canto come solo era nella selva all’inizio del poema. Sparisce la rosa che si contemplava prima, non si vede più niente; è il momento in cui tocca il fine di tutti i disii. E porta al culmine quell’ardor di desiderio che ha consumato la sua vita».