Introdurre alla realtà nella sua totalità. Insegnando

Tempo di educare
Luigi Giussani

Proponiamo gli appunti sintetici, raccolti da uno dei presenti, durante una conversazione del 27 gennaio 1987 tra don Giussani e un gruppo di insegnanti.

Un esempio di rischio educativo in azione. Indicazioni di metodo per professori… e non solo

Scopo di questo incontro è un primo tentativo di rispondere alla domanda: come nella nostra disciplina tentiamo di fare conoscere e non ci accontentiamo che i nostri ragazzi pensino in un certo modo certe cose?

Pensare e conoscere
I termini “pensare” e “conoscere” sono spesso ritenuti sinonimi. Invece è indispensabile distinguerli. Tale distinzione è imposta dal fatto che il pensiero può non fare i conti con la realtà e costituirsi come ideologia.
La conoscenza, invece, è esperienza totale dell’oggetto. Solo il conoscere può costituirsi come cultura, visto che la cultura è prodotto dell’uomo che si rapporta con la realtà.
Proprio in questo senso per il Papa la cultura diventa educazione, cioè introduzione alla realtà.
Questa definizione della cultura risolve il dibattuto problema della autonomia della cultura. La cultura è autonoma in quanto prescinde dall’ideologia, ossia dal pensiero non rapportato alla realtà, non in quanto prescinda dalla verità, ossia dalla realtà, dalla totalità della realtà.
La cultura non è analisi del particolare, è il riflettere sul particolare alla luce della totalità. La cultura è allora, a ben vedere, espressione del senso religioso, è il senso religioso in atto e l’educazione è il riconoscimento in sé del senso religioso da parte del giovane.

La didattica
L’educazione, come un fare conoscere, si traduce sul piano didattico anzitutto in due istanze relative al contenuto che si intende far conoscere:
1. serietà nell’uso della ragione e quindi aderenza ai metodi della realtà così come già Aristotele insegnava: il metodo, infatti, è la griglia interpretativa che mi pone in rapporto autentico con la realtà, con ciascuna realtà;
2. tensione costante alla totalità, tensione a ricondurre il particolare alla totalità, a leggere il particolare alla luce della totalità.


Un rapporto autentico
Ma questo non basta. L’istruzione diventa educazione se si traduce in un rapporto autentico. Dobbiamo chiederci: come cerco io, nella mia materia, di fare conoscere, di fare diventare esperienza le cose che dico, cioè come ciò che insegno incrementa in qualcosa la coscienza che gli studenti hanno di se stessi?
Si impone un triplice impegno:
1) fare capire bene ciò che dico, assumendo come punto di partenza il mondo categoriale dell’allievo;
2) fare vedere la connessione fra ciò che affermo e la totalità;
3) fare vedere concretamente in che modo ciò che dico c’entra con loro, con la loro esperienza concreta. Quest’ultimo punto è essenziale poiché la cultura è un modo di vivere, non un modo di pensare.


L’unità tra i docenti
Un insegnamento così intenso non può certo essere attuato da un insieme di docenti fra loro scoordinati. La questione decisiva è l’unità tra i docenti. Questa unità fa fatica a scattare, rimane sempre un’intenzione buona per quella deformazione professionale che ci caratterizza, e che è l’individualismo. Ora a me sembra che l’unità nasca dalla possibilità di verificare un’ipotesi comune. Questa ipotesi, senza ledere il principio della libertà di insegnamento, deve essere anche didattica. Il dialogo tra noi deve arrivare fino al coraggio di giudicare la didattica dei colleghi. Non nel senso di venire meno al rispetto, ma proprio per il credito che deve stare alla base del rapporto fra docenti.


In una scuola cattolica
Per quanto riguarda, in particolare, una scuola cattolica, essa si fonda sulla fede in Cristo e di qui nasce la fiducia tra i colleghi che consente il reciproco confronto anche sul piano didattico con l’ipotesi condivisa, ossia con la fede. Del resto, la fede può ben essere il fondamento ultimo dell’unità didattica se, come ha sottolineato il Papa nel discorso agli scienziati, «tutte le scienze si fondano sulla fede, innanzitutto perché il metodo della fede sta alla base di qualsiasi metodo».
Il credito discende dunque da ciò che ci lega e ci ha messo insieme a fare una scuola. Il vero credito sta nell’appartenenza comune a qualcosa di più grande, che abbiamo chiamato nello scorso incontro la “struttura” della scuola, in quanto unità tra i docenti e con la Chiesa universale. Non si dà, infatti, credito, se non si riconosce l’autorità.


Svelare al ragazzo qualcosa di sé
Questo credito esistenzialmente si esprime in una gioia, in una passione per l’insegnamento, in un riconoscimento che il nostro lavoro è il mestiere più bello del mondo, perché ci costringe a cambiare e quindi può cambiare il ragazzo che ho di fronte.

Mi pare che il problema decisivo sia di urgere a questo livello, cioè di interrogarsi su come in concreto nelle nostre materie cerchiamo di far “conoscere”, cioè di svelare al ragazzo qualcosa di sé.