Iraq Il ruolo dell'Italia. La difficile ricostruzione

Pace
Pietro Sordi

Il ministro degli Esteri Frattini, Piatti dell’Avsi e l’inviato dell’Ansa Bardazzi hanno parlato del dopoguerra iracheno. Sottolineata la necessità di scongiurare approcci unilaterali

Il nuovo Iraq che nascerà faticosamente in mezzo a stragi e agguati, non ha bisogno solo di nuovi impianti petroliferi, di strade senza buche o di centrali elettriche. Non può bastare la pur sacrosanta sicurezza, che oggi appare così lontana. E non basta neppure mettere a punto una Costituzione innovativa o un governo che rappresenti tutte le realtà. Nel nuovo Iraq che verrà, ci sarà bisogno prima di tutto di educare gli uomini a essere liberi, nel senso più completo della parola.
Le modalità dello sforzo educativo, e il ruolo certo non secondario che l’Italia può svolgere in questo senso, sono state al centro dell’incontro che il Meeting ha dedicato al tema di più scottante attualità dell’estate 2003. Costruire una nuova nazione, dar vita al processo che i burocrati delle organizzazioni internazionali chiamano nation building, significa soprattutto «promuovere e far valere dei valori che per noi sono assoluti, come la dignità di una singola persona, il valore della vita di ogni uomo e donna, di ogni essere umano»: parola del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, a cui è toccato l’intervento-chiave nel dibattito “Iraq, la difficile ricostruzione”, che ha affollato l’auditorium della Fiera. «Il nostro nation building - ha detto il ministro - deve essere di valori prima ancora che di regole costituzionali e di modelli di governo». L’Italia ha la storia e gli strumenti per giocare un ruolo chiave, ha ricordato Frattini, non solo perché fino alla fine dell’anno guida come presidente di turno l’Unione Europea, ma perché ha una marcia in più, uno sguardo diverso verso il mondo che le proviene anche dal fatto di essere il luogo «dove ha sede il Vaticano, dove c’è il Santo Padre».

Pericolo estremismo
È una posizione, quella italiana, che secondo Giorgio Vittadini va apprezzata perché «continuando una lunga tradizione, che come al solito viene banalizzata quando ci sono gli estremismi, è quella che più si avvicina a livello internazionale all’azione della Santa Sede, è fatta di capacità di mediare continuamente, di costruire, di evitare le situazioni apodittiche, di cercare di costruire ponti e dialogare con chiunque». L’Italia ha capito, ha proseguito Vittadini, che il primo problema non è l’America, che il pericolo mondiale rappresentato dal terrorismo e dall’estremismo islamico - indicato con forza da Washington - è reale e incombente. Ma anche nel caso della guerra in Iraq, è stata la posizione della Santa Sede quella che dall’incontro del Meeting è emersa come la più convincente e che per questo - ha insistito Vittadini, moderatore del dibattito - bisognerebbe «evitare di banalizzare, considerandola solo una posizione da cattolici integralisti o di un Papa fanatico, per vederla invece come qualcosa che forse ha anche da insegnare a certi diplomatici che, da una parte e dall’altra, hanno dimostrato la propria incapacità». Perché la Santa Sede «in questo caso non è una parte, è una sapienza che vale per tutti».

Emergenza educativa
È un problema di educazione. C’è da educare un Iraq che esce da 30 anni di dittatura e ha la necessità di ricostruire le persone, insieme alle infrastrutture. Alberto Piatti, direttore dell’Avsi, ha raccontato quello che monsignor Warduni, vicario dello scomparso patriarca caldeo a Baghdad, gli ha detto durante una missione in Iraq svolta per conto di Cor Unum, la struttura di carità della Santa Sede. «C’è un’emergenza educazione - ha spiegato Piatti - perché è impressionante constatare come in questa terra, che è stata la culla della civiltà, le persone siano come atrofizzate nella loro capacità di relazionarsi con il reale, nel loro anelito di libertà, nel loro desiderio di intraprendere». Per questo Avsi ha avviato progetti per intervenire nelle scuole elementari. «Ma soprattutto - ha aggiunto Piatti - vogliamo far compagnia agli educatori, così come ci è stato chiesto: la formazione dei formatori, che per noi è condivisione di un’avventura educativa».
Ma è un problema di educare anche la comunità internazionale, perché la prossima crisi possa venir affrontata senza il ricorso alle armi. In futuro, ha detto Frattini, «occore scongiurare approcci unilaterali» e ricorrere invece a un «multilateralismo efficace», una terza via su cui l’Italia «sta promovendo una riflessione che spero porti a risultati concreti nel semestre». È una strada che passa anche attraverso un ripensamento e una rivalutazione degli strumenti dell’Onu, come ha spiegato monsignor Diarmuid Martin, Arcivescovo coadiutore di Dublino ed ex nunzio della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra. «Bisogna affrontare la situazione della incapacità del Consiglio di sicurezza di funzionare - ha detto monsignor Martin - e della irresponsabilità di alcuni stati che si rendono protagonisti di questo blocco». Occorre che vengano ascoltate di più le voci del mondo, anche quelle di piccoli stati, come San Marino, la cui posizione è stata illustrata al Meeting dal Segretario di Stato per gli Affari Esteri, Fiorenzo Stolfi.

Posizione di pace
C’era un problema educativo, a ben vedere, anche dietro le scelte della Casa Bianca e le modalità con cui ha imposto al mondo e agli stessi americani la guerra. Marco Bardazzi, corrispondente dell’Ansa da New York e inviato nel Golfo durante il conflitto, ha dettagliato con cifre ed episodi come il governo americano abbia costruito una campagna di disinformazione per giustificare il conflitto, tradendo in molti casi la fiducia di un popolo, quello degli Usa, che ha affidato ai propri governanti maggiore libertà di manovra in cambio della garanzia di sicurezza interna.
Vista mesi dopo, con le manovre militari finite, ma le armi e le bombe che continuano a esplodere, la vicenda irachena è riemersa a Rimini offrendo contenuti e spunti critici per ribadire la bontà di chi ha preso posizione - come ha ricordato Vittadini - dicendo all’epoca “No alla guerra, Sì all’America”, «che era una posizione di desiderio di pace, senza però quei toni antioccidentali che rischiavano di rendere questa pace una strumentalizzazione per altre violenze». E oggi diventa difficile non tornare con la mente a quei richiami alla necessità di un’educazione che don Giussani nelle settimane del conflitto aveva lanciato, in due occasioni, dalle pagine del Corriere della Sera. «Il vero dramma dell’umanità attuale - aveva scritto il 25 febbraio scorso - non è che gli Stati Uniti vogliano distruggere l’Iraq per trarre vantaggi dalla loro azione, o che Saddam rappresenti una minaccia per l’Occidente, ma il fatto che sia gli uni che l’altro non hanno un’educazione pari alla grandezza e alla profondità della lotta fra gli uomini. È, appunto, un problema educativo, e l’unico che ne parli è il Papa, perché il tribunale che si richiede per giudicare l’altro (...) esige un’educazione in nome di un’unità e di una giustizia vere».