Iraq Il ruolo dell'Italia. La difficile ricostruzione
PaceIl
ministro degli
Esteri Frattini, Piatti dell’Avsi e l’inviato dell’Ansa
Bardazzi hanno parlato del dopoguerra iracheno. Sottolineata la necessità di
scongiurare approcci unilaterali
Il nuovo Iraq che nascerà faticosamente in mezzo a stragi e agguati, non
ha bisogno solo di nuovi impianti petroliferi, di strade senza buche o di centrali
elettriche. Non può bastare la pur sacrosanta sicurezza, che oggi appare
così lontana. E non basta neppure mettere a punto una Costituzione innovativa
o un governo che rappresenti tutte le realtà. Nel nuovo Iraq che verrà,
ci sarà bisogno prima di tutto di educare gli uomini a essere liberi,
nel senso più completo della parola.
Le modalità dello sforzo educativo, e il ruolo certo non secondario che
l’Italia può svolgere in questo senso, sono state al centro dell’incontro
che il Meeting ha dedicato al tema di più scottante attualità dell’estate
2003. Costruire una nuova nazione, dar vita al processo che i burocrati delle
organizzazioni internazionali chiamano nation building, significa soprattutto «promuovere
e far valere dei valori che per noi sono assoluti, come la dignità di
una singola persona, il valore della vita di ogni uomo e donna, di ogni essere
umano»: parola del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, a cui è toccato
l’intervento-chiave nel dibattito “Iraq, la difficile ricostruzione”,
che ha affollato l’auditorium della Fiera. «Il nostro nation building
- ha detto il ministro - deve essere di valori prima ancora che di regole costituzionali
e di modelli di governo». L’Italia ha la storia e gli strumenti per
giocare un ruolo chiave, ha ricordato Frattini, non solo perché fino alla
fine dell’anno guida come presidente di turno l’Unione Europea, ma
perché ha una marcia in più, uno sguardo diverso verso il mondo
che le proviene anche dal fatto di essere il luogo «dove ha sede il Vaticano,
dove c’è il Santo Padre».
Pericolo estremismo
È una posizione, quella italiana, che secondo Giorgio Vittadini va apprezzata perché «continuando
una lunga tradizione, che come al solito viene banalizzata quando ci sono gli
estremismi, è quella che più si avvicina a livello internazionale
all’azione della Santa Sede, è fatta di capacità di mediare
continuamente, di costruire, di evitare le situazioni apodittiche, di cercare
di costruire ponti e dialogare con chiunque». L’Italia ha capito,
ha proseguito Vittadini, che il primo problema non è l’America,
che il pericolo mondiale rappresentato dal terrorismo e dall’estremismo
islamico - indicato con forza da Washington - è reale e incombente. Ma
anche nel caso della guerra in Iraq, è stata la posizione della Santa
Sede quella che dall’incontro del Meeting è emersa come la più convincente
e che per questo - ha insistito Vittadini, moderatore del dibattito - bisognerebbe «evitare
di banalizzare, considerandola solo una posizione da cattolici integralisti o
di un Papa fanatico, per vederla invece come qualcosa che forse ha anche da insegnare
a certi diplomatici che, da una parte e dall’altra, hanno dimostrato la
propria incapacità». Perché la Santa Sede «in questo
caso non è una parte, è una sapienza che vale per tutti».
Emergenza educativa
È un problema di educazione. C’è da educare un Iraq che esce da 30
anni di dittatura e ha la necessità di ricostruire le persone, insieme
alle infrastrutture. Alberto Piatti, direttore dell’Avsi, ha raccontato
quello che monsignor Warduni, vicario dello scomparso patriarca caldeo a Baghdad,
gli ha detto durante una missione in Iraq svolta per conto di Cor Unum, la struttura
di carità della Santa Sede. «C’è un’emergenza
educazione - ha spiegato Piatti - perché è impressionante constatare
come in questa terra, che è stata la culla della civiltà, le persone
siano come atrofizzate nella loro capacità di relazionarsi con il reale,
nel loro anelito di libertà, nel loro desiderio di intraprendere».
Per questo Avsi ha avviato progetti per intervenire nelle scuole elementari. «Ma
soprattutto - ha aggiunto Piatti - vogliamo far compagnia agli educatori, così come
ci è stato chiesto: la formazione dei formatori, che per noi è condivisione
di un’avventura educativa».
Ma è un problema di educare anche la comunità internazionale, perché la
prossima crisi possa venir affrontata senza il ricorso alle armi. In futuro,
ha detto Frattini, «occore scongiurare approcci unilaterali» e ricorrere
invece a un «multilateralismo efficace», una terza via su cui l’Italia «sta
promovendo una riflessione che spero porti a risultati concreti nel semestre». È una
strada che passa anche attraverso un ripensamento e una rivalutazione degli strumenti
dell’Onu, come ha spiegato monsignor Diarmuid Martin, Arcivescovo coadiutore
di Dublino ed ex nunzio della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra. «Bisogna
affrontare la situazione della incapacità del Consiglio di sicurezza di
funzionare - ha detto monsignor Martin - e della irresponsabilità di alcuni
stati che si rendono protagonisti di questo blocco». Occorre che vengano
ascoltate di più le voci del mondo, anche quelle di piccoli stati, come
San Marino, la cui posizione è stata illustrata al Meeting dal Segretario
di Stato per gli Affari Esteri, Fiorenzo Stolfi.
Posizione di pace
C’era un problema educativo, a ben vedere, anche dietro le scelte della
Casa Bianca e le modalità con cui ha imposto al mondo e agli stessi americani
la guerra. Marco Bardazzi, corrispondente dell’Ansa da New York e inviato
nel Golfo durante il conflitto, ha dettagliato con cifre ed episodi come il governo
americano abbia costruito una campagna di disinformazione per giustificare il
conflitto, tradendo in molti casi la fiducia di un popolo, quello degli Usa,
che ha affidato ai propri governanti maggiore libertà di manovra in cambio
della garanzia di sicurezza interna.
Vista mesi dopo, con le manovre militari finite, ma le armi e le bombe che continuano
a esplodere, la vicenda irachena è riemersa a Rimini offrendo contenuti
e spunti critici per ribadire la bontà di chi ha preso posizione - come
ha ricordato Vittadini - dicendo all’epoca “No alla guerra, Sì all’America”, «che
era una posizione di desiderio di pace, senza però quei toni antioccidentali
che rischiavano di rendere questa pace una strumentalizzazione per altre violenze».
E oggi diventa difficile non tornare con la mente a quei richiami alla necessità di
un’educazione che don Giussani nelle settimane del conflitto aveva lanciato,
in due occasioni, dalle pagine del Corriere della Sera. «Il vero dramma
dell’umanità attuale - aveva scritto il 25 febbraio scorso - non è che
gli Stati Uniti vogliano distruggere l’Iraq per trarre vantaggi dalla loro
azione, o che Saddam rappresenti una minaccia per l’Occidente, ma il fatto
che sia gli uni che l’altro non hanno un’educazione pari alla grandezza
e alla profondità della lotta fra gli uomini. È, appunto, un problema
educativo, e l’unico che ne parli è il Papa, perché il tribunale
che si richiede per giudicare l’altro (...) esige un’educazione in
nome di un’unità e di una giustizia vere».