Monica e l’orsacchiotto nel recinto dei ricordi
ROMA - Bara contrassegnata col numero 13 a partire dall’ingresso monumentale
del Vittoriano. Monica Filippa bacia e stringe tra le braccia un orsetto di peluche
color miele vestito da carabiniere, con tanto di stivaletti neri e basco d’ordinanza.
Poi lo passa alle altre donne della famiglia, anche loro lo coccolano come un
bimbo. Monica aspetta un figlio da suo marito Andrea, carabiniere massacrato
a Nassiriya. Adesso Andrea è chiuso in quella bara di mogano, allineata
con le altre 18 nel Sacrario delle bandiere al Vittoriano, proprio accanto al
sepolcro del Milite Ignoto. L’orsacchiotto è un regalo dei commilitoni
di Andrea a Monica. Ma anche a quel figlio che nascerà senza padre in
un mondo sempre più disperato. La famiglia Filippa ha creato un suo spazio
di ricordi e simboli privati, per quanto può restarlo ciò che si
svolge sotto migliaia di sguardi, lacrime, saluti militari, preghiere, politici
in visita. Eppure il recinto fatto appena di due file di sedie, una destra e
l’altra a sinistra della bara poggiata a terra e ricoperta dalla bandiera,
somiglia in qualche modo a una stanza della loro casa di Sagrado, provincia di
Gorizia: i fiori, gli amici venuti a rendere meno insopportabile il dolore, le
vecchie foto che passano di mano in mano. I Filippa sono gente semplice, spontanea,
molto comunicativa. Se qualcuno passa e saluta timidamente, loro rispondono.
La mamma segue chi piange guardando la bara del loro Andrea e si commuove vedendo
quelle lacrime di sconosciuti, commossi quasi quanto lei.
E così fanno le altre famiglie: creano pezzi di case, ambienti dove riconoscersi
e ricordare insieme chi se n’è andato a Nassiriya. Qualcuno ricorre
all’italianissimo linguaggio del calcio. Sulla destra dei Filippa, bara
numero 11 dell’appuntato Domenico Intravaia, è poggiata una maglia
interista che porta la scritta «Vieri, 32», sulla sedia c’è sua
figlia Alessia, 12 anni appena, che singhiozza piano piano bagnando dolcemente
il braccio della mamma che la carezza. Sulla bandiera che avvolge i resti di
Daniele Ghione, ancora a destra di Filippa, bara numero 8, c’è un
bigliettino in busta chiusa, «per Daniele», e qui sua moglie Miriam
lo piange pallidissima, accasciata per terra, abbracciata ad altre due ragazze.
Al maresciallo Silvio Olla della Brigata Sassari, proprio sulla sinistra della
bara 13, qualcuno ha dedicato un vessillo sardo con i quattro mori bendati e
il motto «eternamente». Tutti sorridono pieni di vita dalle foto
portate dalle famiglie: il soldato di leva Alessandro Carrisi da Lecce, bara
numero 15, è felice in un’immagine scattata in caserma.
Tre studenti universitari di 21 anni (Mirko Abate da Benevento, Marcello Spirandelli
da Rovigo, Giovanni Giuga da Ragusa) sono arrivati alle 5 e salutano il carabiniere
Filippa solo verso le 10. Dice il veneto Spirandelli: «Siamo qui per istinto,
per la Patria. E ne sono felice. Si scherza spesso sulla mia terra e sul Nord,
qualcuno rischia pure di credere a certe assurdità. Credo invece di rappresentare
bene i sentimenti della mia regione, abbiamo sempre mostrato attaccamento alla
nostra nazione».
Nessun grido, nessun gesto plateale. A un certo punto la giovane ed esile vedova
Monica Filippa lascia la sua sedia e va verso la sala di fronte. Quello è il
rifugio dei familiari (quasi sempre giovani, i meno abituati al dolore, i vecchi
sono più forti) che si sentono mancare e si appartano senza clamore affidandosi
ai medici e alle crocerossine che distribuiscono acqua, fazzoletti di carta per
piangere in pace, caffè e tè caldi, blandi calmanti. Anche Monica
cerca un modo per allentare la tensione. E’ giovane, e giovane resta nonostante
quel dolore che le è precipitato addosso. Sorride un po’ con le
ragazze carabiniere che assistono le famiglie senza concedere una parola agli
estranei, meno che mai ai giornalisti («non ho niente da dire, proprio
niente»).
A parte le insopportabili sigle musicali di alcuni telefonini lasciati accesi
al massimo volume, l’unica colonna sonora della giornata sono i rosari
recitati uno dopo l’altro dagli ordinari militari inginocchiati davanti
alla gran croce di legno e bronzo sistemata al centro dell’aula-corridoio:
marinai e soldati distribuiscono migliaia di corone in plastica con altrettanti
cartoncini con l’elenco dei Misteri. E così sono in tanti a sgranare
e a rispondere alle Ave Marie («prega per noi peccatori adesso e nell’ora
della nostra morte»).
Pregano le donne più anziane della famiglia Filippa che si avvicendano
nella veglia dal mattino alla notte. Ma non tutti gli altri nella sala. Perché il
pubblico che passa davanti a quella famiglia avvinghiata a un orsacchiotto vestito
da carabiniere è un mosaico delle mille possibili Italie del 2003. Ovviamente
tantissimi militari. Ma anche fiumi di casalinghe di mezza età, spesso
appoggiate al braccio di miti badanti venute da mezzo mondo. Ragazzi appena usciti
dalle scuole col piercing all’orecchio. Impiegati in cravatta. Operai con
le borse degli attrezzi sporche di calce. Guardie d’onore delle reali tombe
del Pantheon. Splendide ragazze alte e bionde col Tricolore al collo al posto
del foulard. Gruppi di pompieri. Un principe romano, Lillio Ruspoli. Flotte di
frati e suore. Schiere di ministri. Un cittadino somalo commosso alle lacrime
che non vuol rivelare il proprio nome («sono qui per dovere morale e dovere
personale, tutto qui», come non pensare al recente funerale organizzato
in Campidoglio per i morti di Lampedusa). Un gruppo di militari dell’ambasciata
cinese in divisa candida.
Poi c’è il nostalgico ottantenne che saluta col braccio teso seguito
dal pacifista che entra issando la bandiera multicolore della pace abbrunata
sull’asta di plastica. Altri contrasti. Il rabbino capo di Roma, Riccardo
Di Segni, accompagnato dal presidente della comunità romana Leone Paserman
rende omaggio ai Filippa con un rapido cenno della testa: ha appena pregato davanti
alla bara di Enzo Fregosi, sua moglie è di origine ebraica. E quasi sfiora
il rappresentante dell’Autorità palestinese in Italia, Nemer Hamad,
accompagnato dall’ex vescovo greco-cattolico di Gerusalemme Hilaryon Capucci,
nato in Siria e da sempre sostenitore della causa palestinese.
Una donna sui settant’anni, Maria D’Amato, si genuflette davanti
alla bara e piange disperata a pochi metri dalla famiglia di Andrea Filippa: «Questi
nostri fratelli sono morti per noi, quelli lì sono bestie, non animali,
perché gli animali non fanno certe cose, sono venuta qui perché da
bambina mia madre mi portava nelle zone militari del cimitero romano e mi diceva:
prega, perché sono tuoi fratelli». Elisa Procopio è un’altra
romana verace di 63 anni, arrivata prestissimo. Passa, guarda il pelouche e le
mani che lo accarezzano: «Io ho tre figlie di 39, 38 e 33 anni. Sono qui
perché ho pensato subito che una tragedia come questa poteva capitare
a me, alla mia famiglia».
C’è chi ha portato anche bimbi in carrozzina che miracolosamente
dormono e non si ribellano alle ore di attesa. Il carabiniere Salvatore Longano,
appuntato scelto del reparto scorte di Roma, 38 anni, ha superato le quattro
ore in piazza con la moglie, un figlio di due anni e mezzo e un altro di nove: «Questo
dolore lo sento anche mio, della mia famiglia, i nostri figli appartengono in
qualche modo all’Arma». Il bimbo più piccolo guarda dalla
carrozzina quel pelouche in divisa. Che dovrebbe, vorrebbe essere un gioco. Ma
invece ora è il compagno del lutto di una giovane vedova incinta dagli
occhi stanchi che non stacca gli occhi dalla bara del suo uomo.