Mostafà, Terrorista per disperazione, alcool e sconfitte, il martirio come sfida

Francesco Alberti

DAL NOSTRO INVIATO BRESCIA - La sconfitta di Mostafà, che voleva inventarsi terrorista, mujahed fai-da-te, inizia 16 anni fa, sotto il sole a picco della Sicilia, tra campi di pomodori e polvere. Quel ragazzone di 20 anni, fisico prestante e fronte alta, che la diaspora magrebina rovescia nell' 88 sulle coste italiane, non è però lo stesso che sedici anni dopo si fa saltare in aria sotto un lampione di un McDonald' s, nella folle convinzione che solo portando con sé più vite possibili potrà conquistare l' unico traguardo che ormai gli resta: l' alone del martirio. Un' interminabile scia di sconfitte divide e rende completamente diversi i due Mostafà. Una serie di fallimenti a ripetizione che sfociano nella depressione, nell' alcol, in una solitudine cercata quasi scientificamente. Ed è in quel vuoto esistenziale - lo stesso che spinge Mostafà a scrivere ai fratelli «me ne torno in Marocco, qui per me non c' è più niente da fare» - che prende corpo, giorno dopo giorno, attraverso chissà quali canali, fantasmi e suggestioni, quel grumo di rabbia, impotenza e autocompassione che lo porta ad inventarsi terrorista: sterminatore di uomini nel nome di un Allah vissuto confusamente, patologicamente, ultimo alibi di un' esistenza senza più appigli. Mostafà, nella lettera inviata alla questura, afferma di non essere affiliato ad alcuna cellula del terrorismo islamico. Nella sua vita italiana, che gli inquirenti stanno passando al setaccio, non risultano viaggi all' estero o frequentazioni sospette. E nella sua ultima dimora, un misero camper, non è stato trovato materiale inneggiante ad Al Qaeda, niente che possa far pensare ad una mente incendiata dai proclami dell' integralismo islamico. Mostafà, almeno fino a qualche mese fa, ha sempre vissuto alla luce del sole. Un regolare permesso di soggiorno, nessun precedente penale, una marea di fratelli. Eppure è morto da terrorista, senza che probabilmente nessuno glielo avesse chiesto, nell' assurdo tentativo di immolarsi in nome e per conto di una causa di cui soltanto per sentito dire, per proclami urlati chissà dove e da chissà chi, conosceva i contorni e la reale portata. Il rischio che il mondo sia pieno di Mostafà è purtroppo alto. E non è per niente azzardato pensare che il terrorismo islamico faccia affidamento anche su questo, su questa seconda generazione di kamikaze fai-da-te, emuli maldestri ma sempre pericolosi, per stendere un manto di sangue e paura. Nei suoi primi anni in Italia, Mostafà era riuscito a costruirsi una vita. Dopo aver fatto il bracciante in Sicilia e il muratore a Cuneo, si era stabilito nel Bresciano, prima trovando un contratto da operaio e poi come camionista per un' azienda lattiero-casearia. Si era sposato. Frequentava i fratelli. Andava in moschea e partecipava alle riunioni del Centro islamico. Un tipo tranquillo, mai una parola di troppo, mai un eccesso. Poi qualcosa si è rotto. Nell' arco di due anni, il ragazzone benvoluto da tutti ha cominciato a creare il vuoto attorno a sé. Prima si è separato dalla moglie. Poi ha iniziato a cambiare residenza a ritmi forsennati, senza mai uscire dal Bresciano: da Rovato si è trasferito ad Adro, in Franciacorta, quindi in Valcamonica a Piancamuno, infine nella Bassa, un po' a Milzano e un po' a Calveggese. «Ha cominciato a bere» raccontano i fratelli. Che all' improvviso hanno smesso di vederlo. Anche in moschea la sua faccia compariva sempre più di rado. E in molti si erano accorti che il suo stile di vita ben poco aveva a che fare con i precetti del Corano. Restava il lavoro da camionista, a Mostafà. Ma anche lì le cose sono precipitate. «Negli ultimi mesi - afferma la titolare dell' azienda, Natascia Brandani - si assentava sempre più spesso, adducendo imprecisati motivi di famiglia...». A fine gennaio Mostafà si è dimesso. È andato a vivere in un camper a Concesio. Evitava gli amici. Preferiva la compagnia di una bottiglia. Nessuno ancora può escludere che avesse un' altra vita, clandestina e da seminatore di morte. Lo diranno forse le indagini. Per ora, oltre a un corpo carbonizzato, c' è un terrorista mancato, una lettera delirante e, in tutti noi, l' incubo di scoprire nel vicino di casa un Mostafà in cerca di folle jihad. Francesco Alberti Il profilo di chi diventa kamikaze LE MOTIVAZIONI Familiari e psicologiche Possono essere molte le motivazioni di un kamikaze «fai da te». Difficoltà familiari come un divorzio, la perdita di un parente o la separazione dal resto della famiglia, unite a uno stato di prostrazione, solitudine e rabbia I FATTORI Personali e «geopolitici» Entrano nella scelta aspetti che vanno dalla situazione personale del singolo, magari di discriminazione o difficoltà di lavoro, a fattori più generali come un conflitto in un Paese arabo o la morte di civili in Iraq o in Palestina IL MESSAGGIO Come «nobilitare» il gesto Questo tipo di kamikaze si uccide per motivi personali, ma poi cerca di «nobilitare» il suo gesto associandolo ad eventi politici. Anche la religione può diventare il tramite tra il gesto disperato e la motivazione politica LE ARMI Materiale in commercio Il kamikaze «fai da te» usa materiale reperibile sul mercato civile: bombole a gas o benzina. La sua azione può essere «ispirata» da immagini di un conflitto trasmesse dai mass media, o dalla propaganda estremista