Natoli: Caro Esposito, il nostro destino è la ricerca senza fine

Salvatore Natoli

Caro direttore,

il testo di Esposito è importante e molte sono le cose condivido anche se da altre divergo. Per questo ritengo che meritino d’essere discusse. Tra queste, la più importante - e che a mio parere sottende tutto il testo e ne rappresenta l’intenzione latente - è quella di dare alla certezza il suo definitivo fondamento nella fede. Solo la fede, infatti, può soddisfare per intero il nostro bisogno di certezza. Certo la fede non ci esonera dalle condizioni incertezza in cui ci veniamo a trovare di volta in volta nella vita, quando non sappiamo che fare e restiamo paralizzati nelle scelte. Non ci garantisce neppure dall’errore, ma paolinamente, ci fa vivere tutto questo nella speranza. Qualunque cosa accada andrà a finir bene.
Ma, se la certezza per non essere debole – come sono le certezze mondane – deve trovare fondamento in altro da sé, non è affatto originaria, ma, al contrario consegue all’atto di fede o più teologicamente nell’adesione a Dio. Nel dire questo non credo di tradire le intenzioni di Esposito, ma, caso mai, esplicito quel che si legge nel § 4 del suo testo La certezza come rischio ove, impiegando il sempre lucido testo di Tommaso, dice che alla certezza (certitudo visionis) si accede a seguito dell’actus intellectus deliberantis. Come dire, la certezza consegue dall’aver detto sì al Signore. Stando all’argomentazione di Esposito, noi siamo in radice costituiti per quel e se non lo pronunciamo di fatto tradiamo quel che siamo.
Ciò non comporta la caduta di ogni certezza – siamo certi di tante cose – ma la privazione di quella ultima che dà senso a tutto. Ma è ultima perché è anche prima, perché dà realizzazione e compimento a ciò per cui siamo fatti. Nel dir questo Esposito offre una versione aggiornata e fine dell’apologetica classica che mette in circolo ontologia e teologia. Noi siamo precostituiti per quel “sì” e solo in esso possiamo trovare la nostra pace (la plena pax di Agostino). Di certo quella di Esposito non è una filosofia sentimentale come tante di quelle correnti, anche se per evitare l’equivoco mortuario cui può indurre la pax aeterna adotta l’accattivante lessico lacaniano del desiderio – che è infinito – e a pax preferisce appagamento, soddisfazione. Evidentemente infinita e perciò impossibile per sé privi di Dio.
Se l’argomentazione di Esposito è questa – e credo sia questa – è serissima e indica una netta discriminante tra chi crede e chi non crede. Non solo: suggerisce anche l’idea che senza la fede – prima/ultima certezza – la nostra esistenza precipita nel nulla. Per questo prende avvio da una fenomenologia del presente, dalla caduta delle certezze, o comunque dalla loro labilità. Allo scopo impiega le analisi sociologiche – Bauman e le sue vulgate – ma come un via pedagogica per mostrare a che punto siamo arrivati, a che esito quella presunzione di autosufficienza ha condotto la modernità. Solo l’adesione a Dio, o più esattamente a Cristo può portarci fuori dalla deriva nichilista. Termine e metafora forte di questo è l’incontro con l’altro che non è il “chiunque”, ma il solo. Stando alla tradizione di Esposito vien da dire: tu solus sanctus, tu solus dominus, tu solus atlissimus Jesu Christe. Credo che il punto forte di Esposito risieda in propriamente in questo, detto peraltro in modo del tutto esplicito: “c’era bisogno di Cristo – scrive – perché la certezza dell’uomo... non fosse tenuta sotto scacco dalla finitezza e dalla morte. Dato questo scarto – e dirò perché – la diagnosi che Esposito fa del moderno per molti versi coincide con quanto in altre sedi ho ampiamente sostenuto e scritto seppure con diverse motivazioni.
Non le riprendo, ma qui mi sembra opportuno fare alcune osservazioni circa la differenza tra certezza e fede. In breve, la prima e più evidente differenza è questa: alla certezza si appartiene, la fede si concede. Detto altrimenti, la certezza è una condizione, la fede un’adesione. Di più: la certezza è un abito, la fede una scelta. Credo che queste coppie facciano capire a sufficienza dove cade la differenza. Per molti versi mi sento di dare una versione profana di una nota espressione di Paolo - “il giusto vive per la fede” - a patto che per fede s’intenda qui quel corredo di credenze ereditate, che ogni individuo inevitabilmente possiede in quanto appartenente a una comunità. Se la questione la si pone in questi termini, la condizione originaria di certezza non è da confondere con una soggettiva volontà di verità, ma piuttosto come quel terreno preliminare sottratto al dubbio e che solo lo rende possibile. Per dirla con Wittgenstein: “ 94. la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua certezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra il vero e il falso” (Della certezza). E più esplicitamente: “115. Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone la certezza”. E a partire, dunque, da una solida credenza che si può cominciare a dubitare.
Qui torna pur buono il materno di cui parla Esposito ma che però non attiene strettamente al rapporto madre-figlio, bensì a quello più largo individui-credenze. Il bambino, infatti, “impara a credere in un sacco di cose... e ad agire secondo queste credenze”. E ogni madre fa la madre secondo i costumi e l’uso di una comunità e della società in ci vive. Dare l’inizio a una vita non vuol dire essere in assoluto un inizio. La certezza è quindi una condizione originaria perché ereditata e non perché scelta. È così che si stabilizza la regolarità delle condotte e che si generano le morali. Di qui inevitabile una conseguenza: l’abitudine di fidarsi e affidarsi. Se le cose si considerano così, il credere è già di per sé un sapere.
Ora, di solito la certezza vien meno a fronte dell’insorgere di problemi che le certezze consolidate non ci permettono più di risolvere. È questa la ragione per cui, pur radicati su un terreno di certezze, viviamo nell’incertezza. L’indeterminazione del mondo ci pone innanzi a sempre nuovi dilemmi per cui è necessario reperire nuove soluzioni. Ma dal momento che abbiamo appreso regole ce le sappiamo anche dare, è questo che ci permette di disegnare trame di senso e di dare direzione al nostro movimento nel mondo. Di questo ne è prova il fatto che a fronte di verità messe in revoca siamo nelle condizioni di individuare altri piani di verità che ci permettono di decidere del vero e del falso. L’incertezza matura, dunque, sul terreno della certezza, la lacera ma non per questo abolisce: caso mai ne ridefinisce il piano. È l’ulterius quaerere. Per questo pur senza una certezza assoluta ci capita di muoverci in un modo di certezze. Se così non fosse, non potremmo vivere.
E tuttavia, seppur radicati nella certezza, siamo incerti. Ma i problemi che di volta in volta si presentano sono locali e parziali e altrettanto lo sono le soluzioni. Aperto resta, però, il cammino e noi siamo quest’apertura. Perciò non è tanto nella pretesa vana di raggiungere contenuti assolutamente certi – o certezze ultime – che si dissolve ogni incertezza, ma al contrario possiamo delimitare l’incerto, perché come uomini abbiamo la possibilità di misurarci con la sua dismisura. Infatti possiamo rinsaldare le nostre certezze se apprenderemo a fronteggiare l’improbabile. Dove sono, infatti, i confini del mondo? Ammesso che si diano, non bastano certo le nostre vite raggiungerli. A noi tocca di volta in volta tracciarli. Allo scopo è necessaria quella che chiamo “etica delle virtù” e d’altra parte la virtù altro non è che “buona abitudine”.
Ringrazio Esposito per aver fatto cenno alla mia posizione, anche se la ritiene difficile ed elitaria. Non entro qui nel merito, ma mi limito a dire: difficile forse, ma certo non è più semplice della chiamata: prendi la tua croce e seguimi. Mi si risponderà. Ma seguire vuol dire che nel cammino non sei solo: vi è qualcuno che ti è guida, ti è compagno, ti dà certezza della meta. Ebbene, la fede consiste proprio in questo: è sequela. Certo, se considerate da un punto di vista storico-antropologico, le fedi raramente sono frutto di scelta, ma per lo più si ereditano: infatti, si nasce cristiani, buddisti, islamici o altro ancora e ogni religione ha, in genere, un suo particolare bacino geografico, anche se globalizzazione e secolarizzazione ne stanno modificando le mappature.
Do tutto questo per scontato, per prendere invece in considerazione la fede come atto, o – per stare a Esposito – come quell’assenso in forza del quale “l’esistenza – secondo le parole di Luigi Giussani – diventa un’immensa certezza”. La fede è certamente assenso, è un adherere Deo. Nel caso del cristiano un’adesione all’evento Cristo e perciò anche al Dio di Gesù Cristo o più esattamente a quell’esperienza che Cristo ha fatto di Dio. Ma, l’incontro con Cristo non è – quelle volte in cui lo è – un incontro semplicemente personale, ma è un’apertura di senso totale. Da Cristo trae senso il prima del tempo – prima che il mondo fosse –, tutto il tempo, la storia e con essa la vita degli uomini – dei vivi e dei morti – e la loro sorte finale. È, infatti, promessa di vita eterna. Tutto ciò si ricapitola in Cristo cifra del tutto e chiave di ogni esistenza.
Quanto tutto questo sia degno di fede resta del tutto sospeso, tanto che molti sono coloro che non vi aderiscono. La risposta che si tende a dare a questa obiezione-interrogativo è quella di mostrare che Cristo – e proprio Lui – corrisponde a ciò per cui l’uomo è fatto e perciò è l’Unico che può soddisfare il nostro bisogno di certezza, che ci dona il senso dell’esistere. Come dire: il nostro vagare tra vane certezze è segno e conseguenza della rottura del nostro rapporto con l’altro che ci chiama. Che è poi la chiamata originaria e originante, quella che per un filosofo come Esposito è la chiamata all’essere. Ora, la deriva del moderno consegue proprio nella tentata rottura con quell’Alterità che ci pone in essere; una rottura che evidentemente non può che restare una pretesa, dal momento che senza quell’Alterità che ci istituisce non esisteremmo. Per questo l’idea che sia in potere degli uomini ridurre progressivamente la loro esposizione, che essi, per virtù propria, possano esonerarsi del peso dalla loro finitezza, ha condotto il moderno al fallimento.
Di conseguenza: o cristiani o infelici. Ma l’offerta di senso cristiana per taluni può essere accattivante, ma non è detto sia convincente. Ciò detto, il salto nella fede è del tutto plausibile, ma è appunto un salto. La natura delle cose non è, infatti, in continuità con gli impossibila Dei ed è perciò perfettamente possibile che chi non dà credito a quell’impossibile possieda un grado sufficiente di certezze per vivere bene in questo mondo.
Certo Esposito è il primo a riconoscere che il processo di civilizzazione ha migliorato le nostre condizioni vita rendendole del tutto imparagonabili con chi ci ha preceduto: chiunque lo negasse negherebbe un’evidenza. Far dire questo a Esposito sarebbe fraintenderlo. Ritengo, perciò, che il suo rilevo sia più profondo: infatti, se i progressi della scienza e della tecnica ci hanno liberato dalle primarie e lucreziane paure, oggi siamo messi a rischio dalle nostre crescenti aspettative che ci espongono costantemente a delusioni e che generano frustrazioni. Di qui la centralità del desiderio, che una pratica delle virtù ritengo possa adeguatamente amministrare. Ora sono d’accordo con molte delle cose di cui parla Esposito nella sua fenomenologia della contemporaneità, ma sono persuaso che la pienezza del senso non risieda nel reperimento di un senso ultimo, ma nelle capacità, che nell’uomo non vengono mai meno, di saperlo cercare e trovare. In breve nella capacità che egli ha di sapere dimorare su questa terra. Cosa, infatti, per gli uomini può significare ultimo? E rispetto a cosa? Al tempo? Le generazioni trascorse sono sparite per sempre e nessuno ci dà la certezza che la specie umana duri indefettibilmente o che invece non perisca mentre l’universo continua nel suo corso.
Noi definiamo fini per quel tanto che sappiamo tracciare confini. Il nostro è solo un transitare e per questo il nostro compito nel mondo è – come specie e come singoli – saperci stare, saperlo abitare. E quindi, biblicamente, custodire e trasmettere. Possediamo, infatti, la misura del bene, ed è data dalla realizzazione dell’ente, di ogni ente. Dobbiamo perciò sentirci corresponsabili delle sorti comuni, dal momento che è impossibile realizzarsi da soli. L’altro, con la a minuscola e al plurale - esattamente gli altri - inevitabilmente ci obbliga. È un legame originario da cui non ci possiamo esonerare, perché da soli non ci bastiamo, non siamo sufficienti a noi stessi. Ma quest’obbligo può essere soddisfatto davvero se c’è fede negli altri: esige concedere e ricevere fiducia in un reciproco affidarsi. Nonostante tutto. In questo c’è forse qualcosa di cristiano. Mi si permetta un’esegesi profana: Cristo non chiede di credere in lui, ma invita ad agire come lui, portare il regno per possedere la terra nella pace. Bisogna avere fede che questo avverrà e agire in conseguenza. Credo sia un rischio per cui vale la pena. Ma, di questo se ne può discutere in altra occasione.

Da www.ilsussidiario.net (9 novembre 2011)