Omelia del cardinale Angelo Scola alla Messa in suffragio di Papa Giovanni Paolo I nel 30° della sua morte

Angelo Scola

Messa in suffragio di Papa Giovanni Paolo I nel 30° della sua morte
Letture: Pr 2,1-9; dal Sal 88; Fil 2, 1- 11; Mc 9,34-37

1. «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?» (Mc 9,33). Una domanda familiare, amicale, come quella che ognuno di noi oggi potrebbe rivolgere all’amico. Il Signore ha appena preannunziato ai Suoi la Sua passione, morte e Risurrezione. Egli si sta ormai decisamente incamminando verso questi eventi drammatici e misteriosi. E i discepoli? Rispondono con il loro silenzio imbarazzato. Forse lo stesso che sta al cuore della nostra distrazione in questo momento. Infatti si erano perduti in discorsi di radicale superficialità, discutevano «su chi fosse il più grande» (Mc 9,34). È ridicolo...! in faccia al Figlio di Dio che va alla morte per noi. Sono lontani dalla logica dell’offerta (forse, amici, siamo anche noi oggi lontani da quel gusto pieno della vita che è il dono totale di sé, il non tener per sé se stessi) implicata dalla loro vocazione e missione di apostoli. Vocazione e missione che domanda solo un “essere presi a servizio” del Regno di Dio, neppure un semplice servire. Dire “voglio servire” potrebbe ancora implicare un certo dominio del nostro esasperato ed esasperante egoismo. Noi siamo “presi a servizio”.
Allora Gesù, constatando che la predizione della Sua passione, morte e risurrezione era stata espressa invano, da grandissimo educatore e maestro compie un gesto significativo. Probabilmente circolava lì, nella casa di Cafarnao, una schiera di bimbi: preso tra le sue braccia un bambino (in aramaico una stessa parola significa “bambino” e “servo”) «lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro [Gesù esce in un’affermazione sbalorditiva, rivoluzionaria per la mentalità di allora, per l’intellighentia degli scribi e dei farisei]: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me [colui che si pretendeva il Messia si identifica con un bambino]; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» (Mc 9,36-37).

2. Un bimbo, l’essere umano più indifeso, che per natura chiede di essere ricevuto e curato, diventa così l’efficace simbolo del Figlio di Dio che, come ci ha ricordato Paolo nell’insuperabile Inno ai Filippesi, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7). E l’abbassamento del Verbum-caro rivela lo sconfinato amore del Padre, il cuore stesso incandescente dell’amore. L’onnipotenza di Dio si dimostra nell’impotenza del Crocifisso. Per libero amore, in Cristo Gesù, Dio si fa servo a favore di noi peccatori, per guarirci della nostra indominata volontà di potenza. Questo io che vuole afferrare tutto, che fin da quando apriamo gli occhi al mattino si ripropone come il protagonista al fondo indiscusso di tutto, questo io che non accetta di raggiungere la regalità, cioè il pieno possesso di sé, nell’essere preso a servizio. Servo, quindi, è Gesù, cioè oggettivamente umile come un bambino: «Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me e, attraverso di me, il Padre» (Mc 9,37).

3. Nell’Udienza generale del 6 settembre 1978 Giovanni Paolo I disse: «Quando io dico: Signore io credo, non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato». Questa infanzia dello spirito che, come diceva San Leone Magno, non ha nulla in comune «con le goffaggini infantili» (Leone Magno, Sermo VII, 2) ci riporta direttamente alla figura dei poveri di Javhè ben incarnata nell’umile ragazza di Nazaret. Il riferimento a Maria, madre di Gesù e madre nostra, si addice in modo singolare a Papa Luciani. Egli non si limitò ad affermare che Dio è padre ma genialmente e in modo assai meditato, fin dalla prima Omelia qui in San Marco nel febbraio del ‘70 – e quindi assai prima del celebre Angelus - parlò, con linguaggio nuziale, anche di Dio come madre, recuperando la grande tradizione biblica.
Albino Luciani ebbe una coscienza acuta dell’assoluta necessità del rapporto paternità/maternità/figliolanza come condizione imprescindibile per l’educazione. Tutto il suo ministero, da semplice sacerdote a Belluno fino al soglio di Pietro, è un documento mirabile di questa straordinaria profondità ed attualità. E tutti noi, quando parliamo di emergenza educativa, percepiamo bene che nella vorticosa transizione in atto nell’odierna società l’educazione è la prima indispensabile risorsa della comunità cristiana e della società civile. Senza una rinascita del fattore educativo ogni discorso sull’innovazione, sulla cultura, sulla giustizia e su tutto il resto è vano. Ma l’educazione è un’arte, non una tecnica. Poggia sulla cura amorosa del rapporto tra generazioni. È una traditio, ha bisogno della permanente esperienza del ricevere, dell’essere figli che implica sempre paternità e maternità. Se non si genera a casa, nelle parrocchie, a scuola, nella società non si educa.

4. Da qui ha origine la sapienza (cfr Prima Lettura) di Albino Luciani, dottrinalmente rocciosa e non priva di severità, ma sempre proposta con l’umile consapevolezza di chi sa di doverla continuamente invocare dall’alto e custodire come il bene più prezioso [«se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori» (Prima Lettura, Pr 2,4); ecco quale dev’essere il nostro quotidiano rapporto con Dio: cercarLo come l’argento e per Lui scavare come per un tesoro]. Indefessa fu la sua ascesi tesa al cambiamento di sé, attraverso un continuo lavoro di approfondimento nell’esperienza delle ragioni del credere, che egli seppe comunicare al popolo come impareggiabile catechista, sulla scia dei suoi grandi patriarchi predecessori Giovanni XXIII e Pio X. Non a caso furono tutti e tre grandi catechisti. Ascesi, cioè pratica di obbedienza in prima persona. Esigente con gli altri perché anzitutto esigente con sé stesso, non a partire da un formalismo ma da questo desiderio timorato di Dio di sprofondarsi ogni giorno nel sapore e quindi nel sapere di Dio. Profondamente segnato dalla sua origine, tutto operò per il popolo santo di Dio con appassionata dedizione per i più semplici.

5. Nell’Udienza generale del 27 settembre 1978 (poche ore prima di morire), dedicata alla carità, Giovanni Paolo I disse: «Amare vuol dire andare verso l’oggetto amato con la mente, col cuore. Lo dice anche l’Imitazione di Cristo: chi ama “currit, volat, laetatur”, chi ama corre, vola, è lieto, gode [realmente si può godere solo dell’amore effettivo]. Allora, amare Dio vuol dire andare verso Dio col cuore. Viaggio bellissimo».
Leggiamo in quest’ottica il beato transito di Albino Luciani che ormai è nella luce della santità canonica. Vediamo ora la sua morte, giunta in maniera repentina e inaspettata, come la conclusione di questo viaggio bellissimo, come la corsa di un uomo dal cuore di fanciullo che trova la sua pacificazione tra le braccia del padre. Del resto la Chiesa con sapienza ci farà, fra poco, pregare così: «La fiamma di carità …alimentò incessantemente la vita di Giovanni Paolo I e lo spinse a consumarsi per la tua Chiesa» (Orazione dopo la comunione): è questa la cifra sintetica del suo brevissimo, ma straordinariamente intenso pontificato.
E cosa tocca a noi ora qui convenuti per la trentennale memoria del Servo di Dio? Nella sua Lettera a Gesù, l’ultima del celebre Illustrissimi, Albino Luciani afferma: «Ho scritto, ma mai sono stato così malcontento di scrivere come questa volta. Mi pare di avere omesso il più che si poteva dire di Te [l’io che si paragona con il tu di Cristo, che va alla ricerca dell’amore del Signore come un bambino va alla ricerca dell’amore della mamma e del papà], di aver detto male ciò che si doveva dire molto meglio. C’è un conforto, questo: l’importante non è che uno scriva di Cristo, ma che molti amino e imitino Cristo. E, per fortuna – nonostante tutto – questo avviene ancora».
Con l’ausilio della Vergine Nicopeia chiediamo di saper seguire solerti Gesù contemplando il volto di Albino Luciani per trarre conforto dai suoi insegnamenti. Amen
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Trascrizione da registrazione