Per Laura o per Beatrice? Il mistero dell'amore

Dante-Petrarca
Walter Mariotti

Non è una dicotomia, ma un distico. Moduli complementari più che antitetici. Alle radici della cultura europea sta l’attenzione che Dante e Petrarca hanno avuto nel parlare anche di queste due donne, e nel parlare quindi di che cos’è il loro destino. Ne parlano Giuseppe Mazzotta, Yale University, presidente della Dante Society of America, ed Ezio Raimondi, professore emerito dell’Università degli Studi di Bologna, presidente Ibs Emilia-Romagna

Laura o Beatrice? Il dilemma continua, ormai, da troppi secoli. Anche perché, con tutto il rispetto, Laura o Beatrice è qualcosa di diverso da Naomi Campbell o Claudia Schiffer, Coppi o Bartali, Maradona o Pelé. Laura o Beatrice infatti è prima di tutto Petrarca o Dante. «Quando si ha a che fare con due grandi classici - dice Davide Rondoni, poeta, scrittore, ma soprattutto testimone rabdomantico e carsico assieme dell’irrequietezza clandestina (non a caso è direttore della rivista ClanDestino) che ha agitato corpi e spiriti dell’intellighenzia novecentesca -, ci si accorge che il problema non è tanto che, da molti anni, da molti secoli si parla di loro, ma è che da molti anni e da molti secoli loro parlano di noi». C’è un altro motivo, però, per cui si continua a interrogarsi su Laura o Beatrice in maniera del tutto diversa da come si parlerebbe di Roma o Milan e Milano o Roma. Perché Laura o Beatrice non è una dicotomia, ma un distico, che doppia gli autori e non si ferma alle sole tipologie femminili. Laura e Beatrice non è rapporto di immagini, preferenza estetica, fenotipo sessuale, quanto piuttosto eterno femminino, nel senso però di rapporto non con la femmina, ma con la donna. Quindi con il divino alla portata di tutti, con quel mistero dell’essere che da Eraclito al Cantico dei Cantici, dal Vangelo a Courbet attraverso la donna si esprime.

Davanti all’esperienza d’amore
Laura o Beatrice non come paragone di figure quindi, tipi o caratteri, ma stato di coscienza, di realtà, di consapevolezza dell’umano che si affaccia davanti all’esperienza d’amore. Laura e Beatrice come vita, esperienza di vita che di volta in volta si fa eros e thànatos, inizio e fine, sazietà e fame, giorno e notte, nascita e morte, peccato e purificazione. Moduli speculari più che contrapposti, complementari più che antitetici. Stereotipi della nostra coscienza che, come direbbe Sallustio, il braccio destro dell’imperatore Giuliano, «non furono mai eppure sono sempre»: metafore che cantano l’impossibilità di disfarcene, di farla finita, di superare quel dilemma che resta non alla base della nostra cultura di occidentali, ma della nostra consapevolezza di uomini (e donne) d’Occidente. Ora giocata sull’immediatezza del nostro desiderio, ora sulla sua iscrizione in un orizzonte più vasto, infinito, atemporale. Laura e Beatrice come rappresentazione della propria umanissima irripetibilità, che ora s’iscrive nell’hic et nunc della propria essenzialità (come direbbe l’Heidegger di Essere e Tempo), ora sfida l’ordine del memorabile, del non-soggetto-a-morte (come invece direbbe Jean Hyppolite commentando l’Hegel della Fenomenologia).

Dalle Confessioni di Agostino
Sorte entrambe dalla riflessione sull’Agostino delle Confessioni, per cui l’amore nobilita le facoltà del pensiero e fa scendere negli strati profondi della soggettività, Laura resta «la modalità della costituzione dell’io soggetto, che a sua volta diventa fondamento della grande cultura umanistica e della cultura moderna», dice Giuseppe Mazzotta, italianista sommo, da vent’anni a Yale, mentre «Beatrice la visione poetico-teologica di Dante, che pone lei, e con lei tutto, nell’orizzonte del divino e nell’apertura dell’io a Dio». Attualizzando, Laura resta l’altra voce dell’Europa, che da Vittoria Colonna a Louise Labé fino a Shakespeare si riprodurrà. E benché Petrarca sappia, perché Narciso di Ovidio glielo aveva mostrato, che il piano esistenziale dell’io rimane legato alla trascendenza, i suoi epigoni hanno sottolineato e seguito l’autoriflessione, il gusto dell’introspezione, l’attrazione reale per le ombre e la luce agonizzante della coscienza. Elevato il ripiegamento su se stessi a cifra di ripiegamento dell’Europa moderna e della contemporaneità. Rendendo apparentemente inattuale la voce di Dante, ma non per questo superandola, anzi. Perché in questa sua doppia inattualità, in questa sua distanza apparente dal nostro desiderio, Beatrice e Dante ritrovano la loro inesauribile capacità di sorprenderci, proponendo un rapporto con il mistero e la bellezza, la carne e la mente come un fascio di luce, energia che emana dal corpo di Beatrice a illuminare l’Occidente tutto.

Il fascino di due classici

Anche secondo Ezio Raimondi, decano degli italianisti all’Università di Bologna, oggi in cui l’ostentazione del sesso sembra il prerequisito per la socialità e il gossip la decisiva categoria individuale, prima ancora che giornalistica, «il mistero di Laura e Beatrice si svela con il fascino di due classici, due inattuali, due essenze che superano le categorie temporali, non perché siano morte, ma al contrario proprio perché vive, immortali. Non donne ma rapporti, con il femminile, che continuano a dire, dunque a dare, vita». E non è nominalismo, perché la vita, per come l’intende l’Occidente anche non cristiano, comincia proprio con quel primo verbo, quel primo lògos, quel nome proprio che resta la maglia simbolica delle attese dei genitori: «Come la chiameremo, Laura o Beatrice?»