Ricerca e cura. Per il bene dell'ammalato

Sanità
Andrea Costanzi

Una passione e un amore verso l’altro. Riverbero di un amore più grande. Ne hanno parlato Fausto Rovelli, pioniere della cardiochirurgia in Italia, e Daniel Sulmasy, francescano e docente di bioetica a New York

Per illustrare la rilevanza che ha avuto nella sua vita il tema del Meeting, il professor Fausto Rovelli, 86 anni, primario emerito della divisione cardiologica dell’ospedale Niguarda di Milano, utilizza una fotografia del monte Bianco. Salire la cima con entusiasmo, coraggio, ma anche prudenza e, una volta in vetta, spaziare con lo sguardo rivolto alla ricerca di nuove mete. All’inizio della sua carriera Rovelli pensava di fare il medico condotto. Invece è stato il padre della cardiologia in Italia, rendendola disciplina autonoma, istituendo nel 1967 la prima unità coronarica nel nostro Paese, contribuendo all’introduzione dell’impiego dei pace-maker per via endocardica come tecnica cardiologica di routine.

Studio e sperimentazione
Rovelli ha raccontato con trepidazione gli albori della cardiologia al Niguarda, al centro intitolato al suo maestro Angelo De Gasperis, scomparso nel 1962, pioniere della cardiochirurgia in Italia. Rovelli, insieme ai cardiochirurghi Donatelli e Pellegrini, raccolse l’eredità di De Gasperis e nel 1962 fondò la prima divisione cardiologica del Niguarda, una delle prime in Italia. Rovelli al Meeting ha raccontato di sé e del lavoro di ricerca e sperimentazione della sua equipe con particolare riferimento allo studio Gissi (Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell’Infarto miocardico), che nel 1983 ha coinvolto 11mila pazienti in tutta Italia con la collaborazione di quasi tutti i reparti di cardiologia della penisola: una sinergia impensabile. La coincidenza tra la realtà che si pone di fronte e la passione per la cura dell’ammalato ha generato un vero progresso a favore dell’uomo, riconosciuto a livello mondiale.
L’intervento del dottor Daniel Sulmasy, del Saint Vincent’s Hospital Manhattan di New York, internista, docente di bioetica e frate francescano, ha indirizzato lo stupore per il progresso delle cure sul concetto di “guarigione”. “Guarire”, etimologicamente vuol dire “rendere integro”, cioè ristabilire un corretto rapporto tra le cose.

L’incontro con Meg
La malattia non è una semplice modificazione di molecole, ma è sovvertimento della trama relazionale. Guarire è ripristinare questa trama di rapporti: Gesù guarisce, perché strappa l’uomo dalla morte. Per Sulmasy curare gli ammalati è entrare nella trama relazionale dell’altro e mettere in gioco se stessi. Nel suo incontro con Meg, una giovane paziente terminale, il problema non poteva essere la guarigione, ma la relazione e l’amore per quella persona, l’accompagnarla nel suo cammino verso la morte; e nel curarla si è scoperto curato lui da Chi solo può curare. Ci sono due modi di intendere la medicina: la visione utilitaristica, per cui essa è giustificata dal risultato: ma se è così, la medicina è un fallimento, perché tutti muoiono. Oppure la visione cristiana: la medicina è giustificata perché è di per sé un rapporto, e il fine è l’amore.
Ma se uno ha a cuore la realtà - ha concluso Felice Achilli, presidente di Medicina e Persona - è possibile vivere così con qualunque paziente. Occorre però avere la certezza che la realtà è positiva. E occorre un ambito dove questa esperienza possa svolgersi e sia richiamata: Medicina e Persona è la possibilità di un siffatto ambito.