Ricerca L'affascinante scoperta di un universo bioamichevole
ScienzaRubbia,
Shea,
Sorondo, Lehn, Davies. La scienza e il desiderio di felicità dell’uomo.
Nella conoscenza della realtà il ricercatore coglie un disegno ultimo
buono. Fatto per l’uomo
Due mostre visitate da migliaia di persone, quattro incontri affollatissimi,
due premi Nobel. Come mai tanto spazio alla scienza in questo Meeting della felicità?
La risposta non è così difficile. La scienza è uno dei percorsi
nei quali l’uomo esprime il desiderio di incontro pieno con la realtà,
un incontro che faccia emergere tutta la bellezza e la straordinaria configurazione
dell’universo, per permetterci di coglierne la radice, di intuirne un orientamento
e uno scopo, di individuarne il nesso con la nostra esistenza personale. È un
percorso dove predomina (o dovrebbe predominare) la realtà dei fatti,
degli eventi, dei fenomeni che la natura con abbondanza offre al nostro sguardo
attento; e che si traducono nel rigoroso linguaggio dei dati matematici, prima
di affrontare l’avventura dell’interpretazione all’interno
di leggi e teorie. Ma non è un percorso arido né tanto meno “disumano”.
Vi hanno piena cittadinanza termini come gioia, amicizia, passione. Del resto
bastava osservare la serietà piena di entusiasmo dei giovani che conducevano
le visite guidate alle due mostre; o sorprendere la meraviglia sui volti dei
bambini davanti alle immagini degli estremi confini dell’esplorabile e
agli esperimenti proposti nella mostra “Alle colonne d’Ercole”.
È una tensione alla conoscenza che coinvolge tutta la persona, fino alle implicazioni
pratiche a volte drammatiche (si pensi ai timori per il futuro del pianeta),
dando spessore e urgenza alla parola responsabilità, come ha richiamato
Carlo Rubbia.
Si potrebbe pensare che l’accostamento della scienza alle dimensioni più profonde
dell’esperienza umana sia dovuto alla pressione dei tempi, alle emergenze
che gravano sulla società. In parte è naturale che sia così;
ma non è solo questo. Tutto il cammino della scienza, a dispetto dell’immagine
riduttiva proposta dalla maggior parte dei testi scolastici, è contrassegnato
da una grande passione per l’uomo e dalla consapevolezza che la scienza
non è estranea alla più genuina ricerca di un senso per l’esistenza,
alla scoperta del proprio posto nel mondo, quindi al desiderio di felicità.
Le origini della scienza
È stato perciò abbastanza semplice per un grande storico della scienza come
William Shea, neotitolare della Cattedra galileiana a Padova, mostrare come alle
origini della scienza moderna la tensione conoscitiva fosse una componente di
una più ampia e unitaria esperienza, radicata nel solco del cristianesimo
e che ha sostenuto il cammino scientifico di uomini come Copernico, Galileo,
Keplero e Newton. Ma anche di gente meno famosa, come quei giovani che attorno
al principe Cesi all’inizio del Seicento hanno dato vita alla prima Accademia
scientifica, detta dei Lincei, dalla cui evoluzione si sarebbe poi arrivati alla
Pontificia Accademia delle Scienze. E monsignor Sanchez Sorondo, attuale cancelliere
della stessa Accademia, ha potuto confermare la ricchezza di esperienza culturale
e umana sperimentata tuttora dai partecipanti, per lo più premi Nobel,
come i due ospiti del Meeting 2003 Rubbia e Jean-Marie Lehn.
È significativo che i due scienziati abbiano usato quasi le stesse parole per indicare
il movente della ricerca nella curiosità, nel «bisogno irrinunciabile
di comprendere». Ma come si mette in azione, come cresce, come si educa?
Non sono questioni ovvie e neppure troppo semplificabili. C’è di
mezzo la delicata capacità di cogliere i caratteri a volte sfuggenti della
natura. Come nella chimica supramolecolare, dove le molecole rivelano insospettate
proprietà quando interagiscono formando sistemi più complessi;
fino a diventare capaci di “riconoscersi” e quindi, in qualche misura,
di scambiarsi informazioni. Dalle immagini delle strutture tridimensionali mostrate
da Lehn, è emersa una visione della chimica come affascinante esplorazione
di possibilità, dove l’uomo può diventare “artista
della materia”, vivendo un’esperienza di creatività che sembrava
riservata agli artisti e ai poeti.
Il rapporto con il reale
È allora una questione di educazione: educare a un rapporto col reale che aspiri
alla totalità, che non si chiuda in un soffocante specialismo, che affronti
il particolare con una domanda più grande, proprio per poter meglio coglierne
la specificità e la varietà.
D’altra parte, le domande sul senso spuntano inesorabili e inevitabili
a ogni angolo della scienza, contro i rinnovati tentativi dello scientismo che
in ogni epoca riemerge assumendo di volta in volta il volto dell’ultimo
paradigma vincente (che si chiami caso o indeterminazione o caos o autorganizzazione
o multiverso…). Anzi, quanto più si cerca di comprimere quelle stesse
domande di senso dentro la ferrea corazza matematica delle nuove leggi, tanto
più prepotentemente esse riemergono. Come ha mostrato con grande efficacia
Paul Davies, stella di prima grandezza nel firmamento della comunicazione scientifica
mondiale. Davies non si è mai sottratto alle domande più scomode
provocate dalle teorie scientifiche ed è riuscito a far diventare best-seller
testi nei quali si confrontano esplicitamente temi scientifici e visione religiosa
della realtà; tanto da meritarsi nel 1995 il prestigioso premio Templeton.
Di fronte all’affollata platea del Meeting Davies ha preso di petto il
tema più gettonato del momento: il multiverso. Lo strano termine è frutto
della insaziabile fantasia dei cosmologi che, non contenti delle sconfinate dimensioni
spazio-temporali dell’universo che possiamo esplorare con i nostri strumenti
di osservazione, hanno immaginato una gamma innumerevole di possibilità corrispondenti
a tanti universi paralleli esplorabili virtualmente con i modelli fisico-matematici:
questo insieme complesso e interconnesso l’hanno chiamato multiverso. Davies
però ha messo in guardia dalla tentazione di moltiplicare all’infinito
le possibilità: «Una volta che ci si imbarca nella strada scivolosa
del multiverso non c’è motivo per fermarsi» e ha lanciato
l’invito a trattare le nuove ipotesi «con grande cautela».
La teoria del multiverso
Il fatto curioso è che a tale sofisticata e astratta elaborazione si è arrivati
a partire da una constatazione ampiamente confermata dalle osservazioni concrete:
biologi, geologi e astrofisici in tutte le direzioni esplorabili s’imbattono
in caratteri del “nostro” universo che ne attestano la spiccata predisposizione
a ospitare la vita. Per dirla con lo scienziato australiano, ci troviamo in un
universo “bioamichevole” e questa singolarità impone l’interrogativo “Come
mai?”. Viene spontaneo pensare a qualche progetto intelligente e ben concepito,
anche se affidato nel suo realizzarsi all’opera lenta e precisa delle leggi
naturali. La teoria del multiverso vorrebbe convincerci dell’inutilità di
un disegno, quasi per risparmiarci il rischio di risalire a un progettista, di
vedere una finalità in tutto il cammino evolutivo della natura. Con un
raffinato ragionamento Davies ha però smontato “dall’interno” tale
pretesa, mostrando come anche la nuova cosmologia non possa evitare l’antica
alternativa tra il nichilismo di un cosmo che gira assurdamente senza ragione
e la coerenza di una programmazione di qualche tipo, di uno scopo, di una direzione
a cui tutte le cose tendono.
Ecco allora che il titolo del Meeting, che spunta a fianco del maxischermo dell’Auditorium,
non appare per nulla contrastante con i diagrammi e le simulazioni computerizzate
di Lehn e di Davies. Anzi, forse senza quel titolo sarebbero i diagrammi stessi
a perdere la loro efficacia e il loro interesse.
Lo stesso Davies deve essersene accorto se ha potuto dichiarare, salutando gli
amici di Euresis, di non aver mai vissuto un’esperienza simile «per
dimensioni e per varietà di temi e sollecitazioni»; ma soprattutto
perché «tutti i partecipanti mostrano di sapere quello che vogliono».