Salendo quei gradini del Liceo Berchet
Correva l'anno 1954Proponiamo un
brano del libro-intervista con don Giussani, realizzato
da Robi
Ronza e pubblicato da Jaca Book nel 1976 e in un’edizione ampliata nel
1986 (da cui sono tratte queste pagine). Sollecitato dall’intervistatore,
don Giussani ricorda e racconta…
Verso la metà degli anni 50, la società italiana sembrava in pieno
equilibrio ed in piena continuità con tutta la vicenda storica e culturale
precedente. Era ancora diffusa una mentalità che non sentivo assolutamente
né disgiunta né opposta a quell’ambiente e a quel contesto
familiare in cui ero stato cresciuto trent’anni prima. Ma si trattava in
effetti di un falso equilibrio, sostenuto soltanto dal rispetto formale di leggi
e consuetudini in cui non si credeva più, e che quindi ben presto sarebbero
state abbandonate. Si trattava dunque di un equilibrio soltanto formale: e ciò era
inequivocabilmente dimostrato dal suo esito a livello educativo. Una società realmente
e fecondamente in equilibrio trova infatti nella generosa disposizione all’impegno
dei suoi giovani la prima misura e la prima conferma della propria forza vitale.
Nell’Italia degli anni 50, invece, la stragrande maggioranza di essi restava
racchiusa nel modesto perimetro di piccole speranze e di piccoli progetti, individuali
in quanto all’ambito e borghesi in quanto alla formulazione.
Molte delle persone più vive, e più interessate al mondo in cui
vivevano, si occupavano di arte, di musica ed in particolare di jazz. Era questo
un tentativo - perlopiù inconsapevole - di uscire dalla società nella
quale si viveva, per sfuggirla o piuttosto per cercarne dal di fuori le chiavi
interpretative. Nella stessa linea e con le medesime speranze ci si sarebbe in
seguito interessati a fenomeni come “mondo beat”e poi gli “hippies”.
Quello che allora sembrava più serio era (in alcune poche persone) un
impegno ideologico-politico del tutto però soggiacente al conformismo
partitico, e quindi quantomai formale nella sua tematica e nelle sue idee-forza:
si parlava molto della Resistenza, ma senza neanche più il barlume della
capacità di sacrificio che la Resistenza aveva implicato. Il richiamo
ad essa diveniva semplicemente la bandiera da agitare per coprire o per giustificare
a parole la propria affermazione partitica e politica nel senso più ristretto
del termine.
Oltre all’interesse per gli aspetti meno conformisti della cultura americana,
e al richiamo alla lotta antifascista, un terzo elemento - anch’esso molto
formale - di coagulo e di relativa mobilitazione era il principio della libertà di
coscienza, da cui veniva fatto derivare un corollario, molto incidente a livello
della scuola, secondo il quale i giovani non potevano più essere innanzitutto
invitati a verificare i contenuti culturali della tradizione (della tradizione
in genere, e non soltanto della sua componente cristiana), ma dovevano venire
messi a contatto con qualsiasi tipo di espressione e di pensiero per poter così giungere
alla verità in modo documentato e imparziale. Così almeno speravano,
o comunque affermavano di sperare, i sostenitori di questa pedagogia di tipica
matrice illuministico-liberale.
Ero allora professore presso il Seminario di Venegono: insegnavo teologia dogmatica
nei corsi seminaristici, e teologia orientale in quelli di Facoltà, né prevedevo
di voltar pagina di lì a poco, come invece sarebbe accaduto. Tutto cominciò con
un piccolo episodio, destinato tuttavia a mutare la mia vita: recandomi sul litorale
adriatico per un periodo di vacanza, durante il viaggio in treno parlai per caso
con alcuni studenti trovandoli paurosamente ignoranti della Chiesa. Ed essendo
costretto - per lealtà, per sanità d’animo - ad attribuire
a tale ignoranza il loro disgusto e la loro indifferenza per la Chiesa stessa,
pensai allora di dedicarmi alla ricostruzione di una presenza cristiana nell’ambiente
studentesco.
Perciò chiesi ed ottenni dai miei superiori di lasciare Venegono e di
venire a Milano; e qui venni mandato ad insegnare religione presso il liceo classico “G.
Berchet”. Fin dai primi giorni del mio incarico al Berchet, l’iniziale
intuizione, di cui quell’incontro in treno era stato spunto, trovò purtroppo
piena verifica. Fermavo i pochissimi studenti con il distintivo dell’Azione
Cattolica o degli Scouts, che incontravo durante gli intervalli nei corridoi
o sulle scale, e chiedevo loro esplicitamente: «Ma voi credete davvero
in Cristo?». Mi guardavano interdetti, e non ricordo che uno solo mi abbia
risposto “sì” con la spontaneità caratteristica di
chi ha dentro di sé una vera radice di fede. E un’altra domanda
che facevo a tutti, i primi tempi, era: «Secondo te, il cristianesimo e
la Chiesa sono presenti nella scuola, hanno un’incidenza nella scuola?».
La risposta era quasi sempre stupore o sorriso.
Questo avveniva a metà degli anni 50, quando secondo l’opinione
comune la Chiesa era ancora una presenza salda nella società italiana;
e infatti lo era, ma solo come esito di un passato non ancora sconvolto da un
attacco che con ogni evidenza si stava attivamente preparando in quelle fucine
di uomini nuovi, di società nuova, che sono la scuola e l’università.
Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza
umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo,
se non nella misura in cui giungono ad esprimersi e a comunicarsi secondo modi
che abbiano una dignità culturale.
La Chiesa, in quegli anni, era sì una presenza evidentemente ancora salda
e radicata grazie al suo passato, ma il suo peso e la sua saldezza si fondavano
più che altro su questi due ordini di motivi: da un lato la partecipazione
di massa al culto cattolico, dovuta spesso a forza d’inerzia, e dall’altro
- paradossalmente - un potere strettamente politico, oltre a tutto assai male
utilizzato da un punto di vista ecclesiale. Tanto è vero che sia la Chiesa
che quegli organismi partitici, che ne erano il risvolto politico, mostravano
di non rendersi affatto conto dell’importanza che rivestono la creatività culturale
e quindi il problema educativo. Tutto si risolveva nell’impegno ad incrementare
il numero degli iscritti alle associazioni cattoliche ufficiali. Il contenuto
di vita di queste associazioni si riduceva poi (esclusi alcuni momenti di entusiasmo)
al più puro moralismo: tutta la viva complessità dell’esperienza
cristiana veniva in quelle sedi ridotta all’osservanza precettistica di
alcuni pochi comandamenti (in pratica, nemmeno tutto il Decalogo era richiamato
con uguale determinazione).
L’unica emergenza culturale era un entusiasmo coltivato, sollecitato, provocato
per gli aspetti cerimoniali e per i momenti di massa della vita ecclesiastica.
Queste manifestazioni rischiavano di diventare dei gesti superficiali, senza
valore educativo. Non erano il risultato di un’educazione, e perciò di
uno sviluppo critico; quindi la personalità di chi ad essi partecipava,
con le sue radici, restava fuori, sempre più smarrita. Si dava per scontato
tutto. È pur vero - insisto - che si trattava di gesti culturali, perché appartiene
all’essenza della Chiesa la “sacramentalità” della sua
natura; la sacramentalità ha nel “segno” uno dei suoi fattori
fondamentali; e tali gesti di massa erano certamente segno; tuttavia - come già ho
detto - essi non venivano resi consapevoli nelle loro motivazioni. Le coscienze
di coloro, cui essi venivano proposti come strumento educativo fondamentale,
fluttuavano così nella nebulosità, restando al fondo sempre più smarrite.
Nel campo della cultura laica, era in atto in quegli stessi anni un processo
di radicalizzazione, che trovava nell’Università di Pisa - tanto
per citare un esempio - uno dei suoi principali punti di forza. Ciò si
risolveva in un’intolleranza, in un’aggressività sempre più indiscriminate
nei confronti d’ogni presenza e d’ogni idea cristiana; soprattutto
però d’ogni presenza cristiana. Fin da allora era a mio avviso chiaro
che l’intellighenzjia laica mirava sistematicamente alle cattedre più significative
(di storia, di italiano, di filosofia) per farne un pulpito contro i pulpiti.
In ogni scuola si potevano contare numerosi professori che facevano della loro
cattedra un pulpito anti-cristiano e miravano attivamente a distruggere la fede
dei loro allievi credenti. Erano quasi sempre persone che si ponevano di fronte
all’esperienza religiosa con un atteggiamento preconcetto ed intollerante,
in piena contraddizione con quell’apertura di idee che spesso proclamavano,
per poi applicarla però soltanto a chi la pensava praticamente come loro.
Secondo questi insegnanti, tutto quanto veniva dalla Chiesa era a priori disumano,
e con i cristiani non valeva nemmeno la pena di discutere: perciò dico
che il pregiudizio e l’intolleranza costituivano gli elementi caratteristici
della loro attività nella scuola. Già fin dal 1954 diventava evidente
che il concentrarsi di questi professori nelle scuole-chiave delle città più importanti
(in Lombardia infatti la maggior parte di loro si raccoglieva nei licei e negli
istituti magistrali di Milano) non era sporadico ma deliberato. Il carattere
anti-democratico dell’operazione era favorito dall’equivoco su cui
si fonda il monopolio statale della scuola pubblica che, se in teoria non rispetta
l’identità culturale di nessuno ma nemmeno la coarta, nella pratica
invece - proprio perché si propone agli studenti come un limbo imparziale “al
di sopra della mischia” - finisce paradossalmente per porre la coscienza
critica dei giovani in uno stato di narcosi che li rende docili alla manipolazione
culturale di qualunque gruppo organizzato o singolo insegnante.
Nella loro crociata anti-cattolica, i professori laicisti degli anni 50 non esitavano
a coinvolgere anche la stessa tradizione letteraria italiana, rea di essere troppo
ricca di personalità cristiane.
E noto che soprattutto contro questo laicismo si sarebbe poi trovata a dover
polemizzare Gioventù Studentesca. Ci si può chiedere il perché di
tale scelta, quando già allora appariva (e poi gli eventi confermarono)
che esso era ormai in declino, e che il marxismo avrebbe preso il suo posto nel
ruolo di cultura dominante dell’intellighenzjia, diventando ben presto
la scolastica dei moderni “chierici”. La cosa può sembrare
ancor più strana se si tiene conto che quelli erano anche gli anni della “guerra
fredda” e della crociata anticomunista. Mi sembrava invece chiaro che combattere
la cultura marxista come l’unico nemico significava innanzitutto non capirne
la radice. La cultura marxista, nei suoi aspetti antireligiosi e antiecclesiali
in particolare, non è nient’altro infatti che una derivazione teoretica
e operativa dell’illuminismo.
I governi centristi, fondati sulla chiamata a raccolta sotto la bandiera di un
generico anticomunismo, si muovevano secondo una logica conservatrice. In particolare
giocava oggettivamente in favore del conservatorismo la prassi banale (fatta
magari passare per concretezza) tipica di molta parte dell’attività di
governo. Ciò che caratterizzava la classe dirigente di quegli anni era
un’assoluta insensibilità alla dimensione culturale. Più che
di criptofascismo, il nucleo della leadership di allora può essere accusato
di insensibilità culturale. Ed è proprio l’assenza della
dignità culturale che determina lo scadere del comportamento pubblico
a tutti i livelli, facendolo precipitare verso i fascismi dei più diversi
colori.
Salvo nobili eccezioni, gli insegnanti cristiani - come del resto tutta l’intellighenzjia
cattolica di allora - applicavano accanitamente il principio della sostanziale
separazione fra il religioso e il temporale, e seguendo - con fedeltà degna
di miglior causa - un’idea astratta di stato neutrale, si facevano punto
d’onore di insegnare senza proporre alcuna visione del mondo, senza comunicare
nulla di quel che erano (e che in fondo quindi non erano). Perciò non
creavano né sollecitavano alcuna posizione culturale né cristiana
né rispettosa del cristianesimo: questo come tono generale teorizzato.
E non deve sorprendere che ciò avvenisse proprio a Milano, dove ha la
sua sede principale l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ossia
la maggiore istituzione culturale dei cattolici italiani.
In quegli anni la Cattolica (in pieno contrasto con la sua ispirazione originaria)
risultava essere proprio il luogo in cui con più ampia articolazione culturale
si sosteneva e si diffondeva quel principio della separazione fra temporale e
religioso che in seguito avrebbe causato l’eclissi della presenza cattolica
nella società italiana.
Il contemporaneo rigoglio delle associazioni cattoliche mi lasciava quindi perplesso.
Come mai - mi domandavo - con tutta la loro apparente forza e capacità di
mobilitazione, questi organismi non incidono su tutti quegli ambienti in cui
la stragrande maggioranza delle persone passa le ore decisive della propria giornata:
dalle fabbriche, agli uffici, alle scuole? D’altra parte anche la fede
del giovane studente nato in una famiglia cattolica, e cresciuto a contatto con
la parrocchia e con le sue iniziative, finisce per diminuire, e per diventare
formale se egli a scuola non ha modo anche di apprendere come la fede e la vita
cristiana siano capaci di rispondere alle problematiche teoriche ed esistenziali
che proprio nell’età scolastica attraversano la fase del loro rigoglio.
Ciò che importa è innanzitutto che la fede diventi mentalità: è la
mentalità che crea, dando nuova forma alle cose. Nelle persone, che si
formavano nelle associazioni cattoliche, la fede spesso non diventava mentalità cristiana.
Citerò un caso che mi sembra significativo. Mi ricordo che, nei primi
anni in cui insegnavo al liceo Berchet, in una classe c’era un ragazzo
molto bravo ed intelligente, cattolico e Delegato Aspiranti (gli “Aspiranti”,
secondo la struttura tradizionale dell’Azione Cattolica, sono gli iscritti
all’associazione in età compresa fra i 10 e i 13 anni. Il delegato è colui
che nella parrocchia si occupa di loro; ndr) della sua parrocchia. Fra i suoi
compagni ce n’erano diversi che poi sarebbero diventati leaders dei gruppi
extra-parlamentari. E tutti dicevano di lui un gran bene, sia i compagni che
i professori; gli dicevano che era una brava persona, certo con idee cattoliche
diverse dalle loro, ma che come persona lo stimavano molto. Accortomi di come
stessero le cose, dissi a questo studente: «Vedi, la tua rettitudine, il
tuo essere galantuomo non richiama a niente se non a te stesso. Tu non rendi
presente nella tua classe il fatto cristiano. Tu semplicemente studi, prendi
10, con i tuoi compagni sei tranquillo e amico; e tutto finisce lì».
Quel ragazzo, cioè, non aveva la dimensione dell’ecclesialità;
la sua era una moralità individualistica e liberale.
Il nostro tentativo nacque dunque come risposta a questa situazione di crisi
e di assenza dei cristiani dagli ambiti più vivi e concreti in cui la
stragrande maggioranza delle persone - cristiani inclusi - trascorreva la propria
esistenza; come ribaltamento (nei limiti delle nostre forze) di una situazione
che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla
cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale
consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena
del nostro Paese.
Dopo non molto tempo da che ero diventato insegnante di religione al Berchet,
avevo notato che durante l’intervallo, su uno dei pianerottoli delle scale
del liceo, si riuniva un gruppo di ragazzi, che parlavano fra loro molto affiatati
e infervorati, ogni giorno sempre gli stessi. La loro costante amicizia mi aveva
positivamente impressionato. Avevo allora chiesto chi fossero e mi era stato
risposto: «I comunisti». La cosa mi aveva colpito. Mi domandavo: «Ma
come mai i cristiani non sono almeno altrettanto capaci di quell’unità che
Cristo indica come la più immediata e visibile fra le caratteristiche
di chi crede in Lui?». Così un giorno, dopo le lezioni, me ne tornavo
a casa rimuginando questo fatto, tutto incollerito per questa incapacità di
essere fedeli a se stessi, e alla propria fede, che i cristiani presenti nel
liceo dimostravano così clamorosamente. Per strada, potrei citare il nome
della via, raggiunsi quattro ragazzi, che parlavano fra loro. Li interpellai
e chiesi loro: «Siete cristiani?». «Sì», mi risposero
un po’ straniti dalla domanda inaspettata. «Ah, siete cristiani»,
risposi io. «E in scuola chi si accorge che lo siete? Nelle assemblee dell’associazione
studentesca sono presenti e lottano soltanto i comunisti e i monarcofascisti;
e i cristiani?». La settimana dopo, questi quattro si presentarono in assemblea
e fecero un loro intervento cominciando con queste parole: «Noi cattolici...».
Da quell’istante in quella scuola, per dieci anni almeno, fino a quando
ci rimasi io (dall’anno scolastico 1954-55 all’anno scolastico 1964-65;
ndr), non ci fu argomento più infuocato che Chiesa e cristianesimo.