Università, luogo di educazione all'umano

Cesana-Lobkowicz
Luca Pesenti

Contro un modello formativo al ribasso, teso per lo più alla mera trasmissione di un sapere funzionale alla formazione di risorse umane, l’opportunità che nello studio universitario vi sia la possibilità di una educazione dell’io, nella sua interezza, nelle sue domande fondamentali. Ne hanno discusso Giancarlo Cesana e il professor Nikolaus Lobkowicz, direttore del Centro Studi sull’Europa dell’Est e sulla Mitteleuropa

L’università è ancora luogo in cui si valorizza la capacità della ragione umana di rispondere alle domande fondamentali di ciascuno e della società? Oppure ha ormai trionfato l’idea di university, ovvero di una mera trasmissione di sapere, funzionale esclusivamente alla formazione delle future risorse umane? Daniele Bassi, presidente di Universitas-University e docente dell’Università di Milano, aprendo il confronto sul tema “Universitas: verso l’uno”, pone la questione centrale dell’educazione, che sembra così drammaticamente inattuale dentro un dibattito pubblico che ruota attorno alla politica accademica, alla riorganizzazione dei corsi di studio, al pur importante nesso tra università e lavoro, e così via. L’università come luogo di educazione dell’umano, della facoltà di giudizio, dell’uso della ragione: si parte da qui, cioè dall’essenziale.

Crescere umanamente e culturalmente
Una provocazione cui non si sottrae il professor Lobkowicz, direttore del Centro Studi sull’Europa dell’Est e sulla Mitteleuropa, una vita spesa dentro le università americane e tedesche, prima da insegnante, poi da rettore. Uno, insomma, che avrebbe potuto benissimo abbandonarsi al fascino del potere accademico, nei meandri non sempre limpidi della politica. Ma basta sentirlo parlare per capire che lo spirito dell’educatore non è perduto. Domanda e si domanda: «L’università stimola gli studenti a crescere, a maturare umanamente e culturalmente»? Sono tanti i modi in cui si può rispondere.

Capacità di giudizio
C’è chi direbbe che no, il problema non è educare, ma professionalizzare. O chi direbbe che sì, l’università impartisce cultura generale. E altro ancora. Ma quel che conta davvero, quel che dovrebbe fare veramente l’università è soprattutto educare alla capacità di giudizio, di discernimento, che non esclude la conoscenza e la competenza professionale, ma chiede qualcosa di più. «La conduzione all’utilizzo della capacità di giudizio significa innanzitutto incoraggiare gli studenti a interrogarsi sulle domande fondamentali della vita, a porsi il problema del destino dell’uomo, del modo di vita per cui optano». Questi sono i problemi veri, e se un professore universitario ha davvero a cuore la comunicazione di un giudizio che sia più della semplice erudizione, deve incitare i suoi studenti a partire da queste domande. «La via che porta dalla conoscenza al giudizio - conclude Lobkowicz - è allora un invito a guardare e a seguire la coscienza».

Unità di sapere
Ecco, le domande fondamentali dell’io, le urgenze di significato, dovrebbero guidare l’accademia. Peccato che la realtà sia spesso contraddittoria. Ad esempio nelle università italiane: «Per la maggioranza dei miei colleghi - spiega Giancarlo Cesana, docente alla Bicocca di Milano - le domande di cui parlava il professor Lobkowicz sono domande inesistenti e comunque non comunicabili, né a sé né ai propri studenti». Così si perde l’unità di un sapere che chiede totalità, che è conoscenza e giudizio, cultura e ragione. Il motivo per cui questa esperienza dell’unità del sapere è diventata così introvabile è chiaro: «Non si sa più che il senso, il significato della vita, non è una definizione, ma è una compagnia. Questo è il cristianesimo. Cioè è impossibile un’unità del sapere, se non in una compagnia. Perché quello di cui noi abbiamo bisogno non è il giudizio sulle cose, è il giudizio su di noi. Il sapere di oggi è sapere sempre di più del meno, fino a sapere tutto del nulla».

Rapporto maestro-allievo
Complice, magari, un modello formativo al ribasso, che «più o meno corrisponde alla formazione che una volta era quella della media superiore». Così la formazione vera si sposta, per così dire, ai livelli superiori, dove si realizza effettivamente la formazione di élite. «Proprio lì - attacca Cesana - il problema dell’unità del sapere si ripropone, però in modo alterato, perché l’unica unità del sapere è quella scientifica, perché l’unico sapere che vale per tutti è quello della scienza. A noi è richiesto correggere questa assurdità». Insomma, gli spazi, le possibilità del cambiamento ci sono. Grazie soprattutto a quella grande opportunità che si chiama libertà: di fare ricerca, di insegnare, di educare. Ed è proprio su questo punto che Cesana indica la strada da seguire: «Questa libertà, opportunamente utilizzata, può permettere la reintroduzione dell’unità del sapere che, oggi, è emarginata e dimenticata. Non, innanzitutto, come teoria, ma come rapporto tra maestro e allievo. Lo ripeto: come compagnia. Quello che noi dobbiamo volere di più in università è che sia possibile questa compagnia di ricerca, a riguardo della conoscenza e del giudizio su di noi. Perché ci sia libertà e cultura, perché ci sia una cultura forte, perché ci sia una conoscenza forte è necessaria una esperienza umana forte e una esperienza umana di significato. Cioè è necessaria una compagnia di uomini, capaci di giudicare se stessi e la realtà. Altrimenti la cultura e la scienza non nascono».