Elezioni. Dallo slogan all'esperienza
Qualche mese fa, il giovane prete coadiutore in una parrocchia, ha invitato me ed alcuni amici a considerare la prossima scadenza elettorale come l'occasione che la realtà ci offriva per verificare che cosa realmente avessimo a cuore; oltre alla possibilità di scoprire in azione se l'esperienza che facciamo fosse capace di rispondere alle sfide e ai drammi di oggi.
Prendere sul serio questa provocazione, ha significato fare un lavoro per "impastarsi" con la piazza: all'inizio con i cattolici impegnati in politica e nelle associazioni, poi con i politici e gli amministratori locali, e via via con coloro che incontriamo.
Abbiamo iniziato a incontrare le persone cercando di scoprire con loro se vi fosse «qualcosa di più caro tra le cose care», capace di evitare che la questione politica fosse ridotta alla logica dello schieramento.
Sta accadendo l'impensabile: persone che da tempo non si rivolgevano il saluto hanno ricominciato a guardarsi, ad ascoltarsi, a dialogare come colpiti da una novità.
La prima novità è stato il nostro modo di vivere questa avventura, nella quale non siamo partiti con l'idea di affermare un'idea, piuttosto con la speranza che Cristo si potesse fare largo tra le pieghe del nostro limite. Il "martirio" (del politico) di cui il Papa parla nel volantino del discorso a Cesena, non è tanto il richiamo ad un sacrificio estremo, quanto piuttosto il richiamo a cogliere che la questione è affermare un Altro, che si fa trovare spesso dove non te lo saresti mai aspettato.
Concretamente può anche significare lasciare che nel rapporto con chi incontro si faccia spazio il Mistero di Cristo. E come? Ad esempio in questo lavoro pur approssimativo e imperfetto: il tentativo della ricerca di un punto comune, la pazienza verso chi è più ostile, lo sguardo tra di noi, teso a cogliere qualsiasi spicciolo di positività (se ti conosci da tempo non è poi così immediato).
«L'altro è un bene» è passato dallo slogan all'esperienza. La domanda e il desiderio che armano la nostra presenza in questa circostanza non restano delusi; ogni volta che sono fedele a questa posizione originale, mi accorgo che accade sempre qualcosa e c'è sempre qualcuno da guardare o un fatto evidente da cui ripartire.
I primi incontri (prima in 12 o 15, poi in 30, poi quasi in 100) si concludevano con la sensazione da parte di qualche amico che in fondo non avessimo concluso nulla (qualcuno dall'inizio si aspettava un nuovo partito), eppure le persone tornavano, ammettendo implicitamente che quel modo di incontrarsi incideva "concretamente" nelle vicende di cui trattavamo, infatti non avevamo in fondo apparentemente cambiato nulla della città, ma stavamo cambiando noi.
Non so cosa accadrà il 4 marzo o nella scadenza elettorale locale, ma ora so per certo che la questione del "bene comune" passa attraverso la fragile e potentissima apertura della mia libertà.
Stefano, Milano#Elezioni18