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«Chiamato per nome, come Zaccheo con Gesù»

La pena alternativa in una casa di accoglienza. E poi l'incontro con alcuni amici ha fatto crollare i muri che «fin da bambino mi ero costruito intorno». La lettera di Antonio

Antonio è un detenuto che sta scontando la pena alternativa a Casa Betania, nel riminese, una casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII inserita nel percorso Cec (Comunità Educante con Carcerati), nato in Italia qualche anno fa sul modello delle Apac brasiliane. Durante la detenzione ha incontrato alcuni amici che fanno caritativa presso la struttura. Poco tempo fa, dopo una cena insieme, ha inviato un messaggio a una di loro, come racconta lui stesso.

Mi chiamo Antonio. Ho 44 anni. Ho mandato questo messaggio, perché dire certe cose faccia a faccia non è facile. Incontrando lei e i suoi amici ho capito che ero detenuto fin da piccolo. Detenuto significa che qualcuno ti priva della libertà: io mi sono privato della libertà da solo. Fin da piccolo la mia vita non è stata facile e mi ha portato a costruirmi come un carcere intorno, per proteggermi. Il bisogno che quel bambino aveva - e che ha ancora oggi - di amare ed essere amato, io cercavo di annullarlo mettendo su un muro, mattone dopo mattone, senza porte né finestre. E lì, poi, sono arrivati i reati… Quel bambino di allora, però, a un certo punto è diventato “Antonio”, è arrivato qualcuno che lo ha chiamato per nome, dando una picconata a quei muri in cui si era rinchiuso. È accaduto così: ho cominciato a vivere in libertà, a essere me stesso, a non vergognarmi più. Perché quando una persona comincia a sentirsi amata comincia a capire che è preziosa. E comincia ad amare anche gli altri. Ho mandato queste parole per ringraziare questi amici di quello che è accaduto e accade nella mia vita.

«Cara amica, ti mando questo messaggio per dirti cosa abbiamo vissuto, anzi, cosa ho vissuto io l’altra sera. Innanzitutto è stato un momento di relazione bellissima, dove tutti ci siamo trovati bene; e anche la celebrazione, che abbiamo fatto con il don, non è stata un semplice rito, ma l’essere tutti insieme per ringraziare Dio di quel momento e per tutto quello che ci dà. Ma voglio dirti anche cosa ho vissuto nel mio intimo durante la serata. Mi sono stupito di come vi ho raccontato di me, perché credo che mai mi sia successo di esprimermi in modo così profondo, facendo uscire il bambino che è in me. Quel bambino ha avuto sempre paura degli altri, di essere deriso, di essere non capito, ed è sempre rimasto nascosto. Questa volta è stato diverso. Voi mi avete donato qualcosa che non si può comprare, né chiedere o elemosinare, ma che si può soltanto ricevere in modo gratuito nel cuore: l'amore. Per questo quel bambino ha voluto, e vuole, ricambiare facendosi conoscere da voi. Come se dicesse: “Ti dono la mia povertà, il mio nulla, perché è l'unica cosa preziosa che ho”. L’altra sera è accaduto questo. Per me è una cosa bella, mi sento veramente amato da qualcuno. Questo mi fa bene, fa bene a quel bambino che è sempre alla ricerca di qualcuno che lo guardi in modo diverso, e che lo faccia crescere, maturare, così che possa dare anche lui i suoi frutti. Tu, tuo marito, i tuoi amici… forse non lo percepite, ma per me e in me state facendo dei miracoli, siete strumento di Gesù in questo momento per me, siete Gesù che chiama Zaccheo per nome. Voi mi avete chiamato per nome e questo mi ha risvegliato. Grazie».
Antonio, Rimini