La più grande e più semplice delle domande

«Siamo irrequieti, ci muoviamo, cambiamo, ma inesorabilmente ci scontriamo con la realtà...». Ma come si fa a vivere, allora, quest'ansia di infinito? La lettera di una ragazza di Gioventù Studentesca

Vivo a Napoli dove frequento il quinto anno del liceo classico e, in questo momento del mio cammino di crescita, desidero condividere alcune mie riflessioni sorte dopo la vacanzina di Gioventù Studentesca.
Siamo irrequieti, ci muoviamo, cambiamo, ma inesorabilmente ci scontriamo con la realtà. La frenesia non ci lascia soli per un momento, ci segue come un ombra. Necessitiamo di qualcosa da inseguire, qualcosa in cui credere, altrimenti il nulla progressivamente ci risucchia. Quest'ansia di infinito, di altro, è la ragione per cui ogni mattina - anche inconsciamente - ci alziamo.
Quello che mi preoccupa è l’assenza di questo motore, il piattume dei sentimenti che ci proietterebbe in uno scenario di dilagante egoismo. Mi pare che sia la tendenza più diffusa nel mondo moderno. La corsa e la frenesia delle nostre giornate non sono finalizzate a qualcosa, a soddisfare quanto noi cerchiamo. Ciò intorno a cui orbitano le nostre vite oramai è finalizzato a dimenticarci di questo bisogno che tormenta il nostro animo.

È troppo difficile fare i conti direttamente con la più grande e più semplice delle domande di senso che attanaglia l’uomo dalla notte dei tempi. La consapevolezza che quanto cerchiamo esiste è il discriminante che rende tale ricerca tormentata o meno. Tuttavia, tende a sfumare in tutte le cose che ci distraggono, e finiamo per dimenticarcene.
Io personalmente ritengo di aver avuto la fortuna di conoscere persone che testimoniano questa consapevolezza, parlandone come una vivida certezza. Non sempre, anzi quasi mai, sono stata in grado di cogliere quanto cercavano di dirmi, e se lo facevo ben presto me ne dimenticavo, soffocando tali insegnamenti con altri pensieri.
Questo è il motivo per cui continuo a cercare di dire di sì alle proposte che mi vengono dal movimento... O almeno ci provo. Recentemente, dopo aver declinato l’invito non poche volte, ho iniziato ad andare con più frequenza in caritativa alla mensa dei poveri. Apprezzo tanto questo gesto, ma ogni venerdì sera io torno a casa con la consapevolezza che è solo una piccolissima parte di tutto il marasma di cose che potrei fare per aiutare il prossimo.

Da questi pensieri scaturisce la mia impotenza rispetto ai mali che affliggono il mondo e vengo presa dallo sconforto. Come poter essere sereni in un mondo caratterizzato dalla sofferenza? Da questa sensazione possono derivare però due atteggiamenti. Il primo, per cui ci si abbandona allo sconforto, è scegliere - anche in modo abbastanza comprensibile - di non fare nulla. Il secondo, che ho deciso di adottare, è partire da qualcosa e cercare un modo per migliorarla, anche di pochissimo, questo è sempre meglio che essere una spettatrice passiva.
Sono convinta che tale conclusione non sarebbe mai stata accettata dalla sottoscritta se non grazie a tutte le persone intorno a me che mi spingono a fare questo gesto. È qui insita la forza della comunità, solida laddove il singolo vacilla.
Lettera firmata