Betlemme. Una strada che continua

Rafiq Nahra, vicario patriarcale per Israele a Nazareth, ha guidato la Giornata di inizio anno del movimento in Terra Santa. Per la prima volta tutta in lingua araba

Ai primi di settembre, sono andato a trovare monsignor Rafiq Nahra, vicario patriarcale per Israele a Nazareth, per invitarlo a tenere la Giornata di inizio anno in Terra Santa. Dopo avergli raccontato quello che abbiamo vissuto quest’anno e quanto emerso all’Assemblea internazionale dei Responsabili, abbiamo iniziato a lavorare insieme sulla traccia data dal movimento. Ogni volta che ci sentivamo era molto contento del testo.

Venerdì 27 settembre eravamo una ventina a Betlemme, ed è stata proprio una festa: bello ritrovarsi pronti a ricominciare con la consapevolezza – nonostante la situazione che si è complicata anche al nord – che la nostra felicità passa dal cammino proposto.

Il vescovo ha fatto diventare suoi i quattro punti indicati. Ha iniziato dicendo che non ci conosceva bene quindi era andato a cercare video di don Giussani su YouTube, e in particolare era stato colpito dalla risposta che diede al Meeting di Rimini del 1983 alla domanda: «Perché l’aspettano tanto?». «Perché credo in quello che dico». Monsignor Nahra ha sottolineato che quella frase per lui significava anche che «dico quello che credo e per farlo ci vuole coraggio».

Ha spiegato che Dio ha mandato Cristo per chiamare ognuno di noi in un rapporto personale, ma dentro una comunione: in questa chiamata non ci rovina i piani, ma li modifica per un bene, li fa più fecondi, chiamati cioè mandati, ma per capirlo ci vuole la comunione per avere cento volte di più le cose che ci dà (parlava della promessa di Dio ad Abramo). Ha proseguito dicendo che Gesù ha chiamato i discepoli – e così noi – per essere con Lui e lì ha inviati a predicare. Essere chiamati, cioè mandati in comunione, è il segno di una vita cristiana sana. Per capire queste cose dobbiamo però abbandonarci a Lui, tutta la vita è una scuola di “abbandono”, fino a quello totale nella morte, incontro definitivo con il Signore.

Poi è arrivato all’ultimo punto: costruire la Chiesa in Terra Santa oggi. E ha sottolineato quattro punti, dopo il cammino descritto prima:

1. Uno sguardo profetico: guardare le cose come le guarda Dio.
2. Allontanarci dall’odio e dalle vendette cercando il dialogo: bisogna dialogare e non negoziare, il dialogo è un segno di stima dell’altro.
3. Non essere individualisti, ma in comunione.
4. Essere religiosi, ma non estremisti, con il rischio di chiuderci.
É stata una grande lezione, e la novità è stata che per la prima volta abbiamo fatto tutto in lingua araba. Era il mio sogno da quando sono tornato qui.

Dialogando a tavola la sera, il vescovo, a un certo punto, mi ha guardato e con occhi pieni di stupore mi ha detto: «Che bella cena!». Sono molto contento e grato, abbiamo un nuovo amico e l’amicizia tra di noi cresce: con noi, infatti, c’erano quattro nuove amiche. Ecco quello che ha scritto Lina sul gruppo WhatsApp la mattina dopo: «L’incontro di ieri sera mi ha ricordato la felicità che abbiamo vissuto insieme l’anno scorso ad Abu Ghosh per la stessa occasione. Ieri abbiamo condiviso insieme il “tesoro” che ci è stato donato, la nostra amicizia è un segno chiaro della presenza di Cristo qui e ora. Ho inviato alcune foto ad un’amica, lei mi ha detto: «O sei pazza o Gesù può essere la vera speranza e amicizia di una vita. Sicuramente sei d’accordo con me che Gesù è la vera speranza e amicizia della nostra vita».
Hussam, Haifa