Il cuore, la legge e quel desiderio di avere un figlio sano
Si parla di «pietà», parola che per natura attira l’attenzione. Poi se ne aggiungono altre: «cuore» e «desiderio». E già questo sarebbe abbastanza per spostare il tiro, per portare su un terreno diverso il caso della coppia di Salerno a cui (dopo tre aborti spontanei e una figlia morta a sette mesi per atrofia spinale di tipo 1) un giudice ha concesso il ricorso alla fecondazione assistita con selezione degli embrioni. Non è solo questione di legge 40 e relative polemiche. C’entra ciò di cui le leggi dovrebbero essere serve: l’uomo e il suo destino.
Non è forse vero, come scrive Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, che «il desiderio di un figlio il più possibile sano sta scritto da sempre nel cuore dell’uomo e della donna»? Certo che lo è. Basta guardarsi dentro. E allora, se oggi «scienza e medicina offrono la possibilità di realizzare questa aspirazione», perché opporsi? Perché imporre a tutti «regole spietate» con la «durezza e l’intransigenza» dei «guardiani della fede»? E perché queste regole dovrebbero prevalere contro «quell’altra, scritta più profondamente e infinito tempo prima e dunque più forte e vitale», che è il desiderio di maternità? «Le teorie possono essere belle e chiare e condivisibili finché restano tali, ma la vita e il suo quotidiano e difficoltoso combattimento sono quasi sempre tutt’altra cosa». Realtà. Non principi astratti. Chi può obiettare?
Certo, a rigor di logica si possono schierare gli argomenti - giustissimi - usati dai difensori di quella legge. Basterebbero quelli a smascherare il paradosso con cui la stessa Bossi Fedrigotti liquida tra due trattini il motivo profondo di quella «regola»: «Fecondazione assistita - con selezione di embrione - nonostante sia fertile…», eccetera. Basta la ragione per dire che quell’embrione - sano o malato che sia - è già uomo, ha già dentro tutto il mistero della vita. Non puoi buttarlo via dopo una «selezione».
Solo che la sfida di quelle parole scava a fondo. «Desiderio» e «cuore» domandano davvero un figlio sano. E il dolore di quella coppia per la figlia morta ed i tre aborti è vero. È reale, quanto quegli embrioni che andrebbero sacrificati. E morde di più, fa male più dell’idea - pur assurda - di «selezionarli». Come fa qualcosa di vero ad essere censurato? E chi può rispondere qualcosa a quel dolore? Regole? Principi? Idee? Siamo leali: nulla di tutto ciò.
Eppure è qui che si spalanca tutto. Perché se siamo leali, in quel dramma risuona l’eco di un’altra domanda. Diversa. E più acuta. Una domanda che obbliga a fare i conti fino in fondo con quel desiderio, a prenderlo in tutta la sua ampiezza. Che cosa può riempire davvero il cuore di un uomo e di una donna? L’arrivo di un figlio? Dono enorme (dono, non diritto), il più bello che possa capitare a una famiglia. Ma non basta a renderci felici fino in fondo. La sua salute? Altra esigenza fortissima e reale, altra cosa di cui essere grati quando c’è (perché è evidente che nessuno sforzo può garantirla, tantomeno la «selezione di embrione»...). Ma neppure quella basta. È proprio la vita nel suo «quotidiano e difficoltoso combattimento» a mostrarcelo, non le teorie. Sono i figli immancabilmente diversi da quello che abbiamo in mente, le cose che tante volte filano lisce eppure non ci accontentano, i drammi che spuntano improvvisi e ci trovano impotenti... È la realtà di tutti i giorni, bella o faticosa, eroica e quotidiana, che non chiude la ferita. Mai.
E allora, che cosa può riempire davvero il cuore? E che cosa può rendere ragione del dolore misterioso di quella coppia di Salerno? Chi può abbracciarlo senza generare altro dolore, senza spezzare altre vite?
È quello il passo da compiere, la sfida che cuore e ragione ci rilanciano, instancabili. Arrivare al fondo di quel desiderio. Che è vero, ma è più profondo. È desiderio di infinito. Ed è incolmabile. A meno che nella realtà, nel «quotidiano e difficoltoso combattimento della vita», non entri, inattesa, la sola cosa che può colmarla: l’Infinito. Cristo.
Senza di Lui, qui e ora, davvero «non possiamo fare nulla», perché nulla è adeguato a ciò che siamo. Senza arrivare a Lui, non possiamo capire né tantomeno amare la realtà. Prima o poi, la tradiremmo. Chiamando «pietà» un impeto monco, reclamando come dovuto ciò che non lo è e scambiando la morte con la vita.
Il cristianesimo è questo, altro che giudici e regole: è l’abbraccio dell’Infinito al nostro cuore infinito. Al mistero che siamo, vita e dolore. Un abbraccio fatto di carne, di volti e persone che si possono incontrare qui e ora e comunicano un fascino per cui vale la pena di vivere vita e dolore. Un abbraccio più forte del dolore. L’unico abbraccio che riempie la vita.