Una giovane manifestante.

EGITTO «Ecco perché siamo in piazza»

Dal Cairo al Sinai, le proteste fanno morti e feriti. «È urgente una risposta del governo». Abdel Fattah, ex parlamentare dei Fratelli musulmani, spiega la "spinta" di Tunisi e perché «la delusione porta verso l'ignoto»
Alessandra Stoppa

La piazza e la collera. Sono solo «un avviso». Se il governo non darà ascolto alla gente che in questi giorni scende nelle strade d’Egitto, o se non sarà all’altezza di quello che chiede, «è già deciso che la pressione crescerà. Ma non si voleva e non si vuole la violenza». Abdel Fattah Hasan, docente di Letteratura italiana alla Ain Shams University del Cairo e parlamentare dei Fratelli musulmani fino allo scorso novembre, smentisce che lo scopo delle proteste sia un’azione di guerriglia. Tra i manifestanti si sono introdotti elementi violenti che hanno portato agli scontri con la polizia, «ma la scelta è quella di un’iniziativa graduale». Cairo, Alessandria, Assuan, Ismaylia, Assiut… fino nel nord del Sinai. Piazze e quartieri popolari in cui Fattah vede «un Egitto che chiede a mani nude un cambiamento». Basta corruzione, basta elezioni pilotate, basta povertà. «Vogliamo respirare aria pura».

E che cosa vi aspettate dal potere?
Le riforme.

O che Mubarak se ne vada?
Non è questo il problema. Lui può restare dov'è (il suo mandato scade a settembre, ndr), o può succedergli il figlio Gamal: il punto è un altro. Il Paese vuole la riforma agricola, la riforma economica e sociale. La leadership deve dare ascolto a questa insofferenza.

Su che cosa si fonda questa rabbia?
Autorità corrotte. Anni di ricchezza e risorse ingiustamente distribuite. Una manciata di uomini che hanno preso per sé territori, miliardi, palazzi. Che hanno sequestrato con false accuse i beni a chi li ha accumulati con il sudore della fronte. Ieri, c’erano in piazza poveri operai che prendono cento dollari al mese. Questo è lo stipendio della maggior parte della popolazione. Gente che ha famiglia e non arriva a metà mese. Alla periferia del Cairo ci sono uomini e donne che vivono nei cimiteri, non hanno casa né cibo. Questa è una vergogna. Soprattutto, visto che l’Egitto non è un Paese povero, è un Paese ricchissimo di risorse. E altrettanto squilibrato nella distribuzione.

Chi "guida" la piazza?
La Forza Nazionale del Cambiamento. È un raggruppamento di partiti e movimenti d’opposizione: dal gruppo “6 aprile” ai Fratelli musulmani, a tutti gli strati della popolazione.

Le somiglianze con la Tunisia sono molte: corruzione, povertà, poca libertà di espressione, disoccupazione. E un monopolio di potere che dura da decenni. Ventitre anni di Ben Ali, trenta di Mubarak. Realmente, l’esplosione della rabbia a Tunisi ha "contagiato" l’Egitto?
Sì. Quello che è successo in Tunisia ha dato coraggio alla gente: vedere che la "parola del popolo" ha fatto cadere il presidente, l’ha portata a non voler più rinunciare ai propri diritti. Non può più essere rimandato un cambiamento, perché la continua delusione che le persone vivono ci porta verso l’ignoto.

Può fare un esempio?
Ci sono giovani laureati a pieni voti che, di fronte alla delusione di non trovare lavoro, si sono messi a fare spionaggio contro il loro Paese per conto di Israele. Ci sono impiegati statali che ricorrono alle bustarelle perché lo stipendio non basta in nessun modo, perché la gente arriva a mangiare pane e solo pane.

Cosa crede accadrà nei prossimi giorni?
Se la rabbia non viene assorbita da una risposta, succederà quello che è accaduto in Tunisia. Io sono padre di famiglia, ho cinque figli. Nel rapporto con loro, ogni sera, mi devo chiedere: sono stato giusto o no? È urgente che chi guida il Paese sia saggio, sia sincero e agisca. Non si vuole portare il caos, ma se non si ferma questo logoramento non basterà più l'"avviso" lanciato in questi giorni. Aumenterà il numero di chi protesta. L'"opposizione" può essere calcolata in quasi due milioni di persone. In Tunisia, erano centomila.