Il centro storico Viejo San Juan, a Portorico.

Come Giovanni e Andrea, ma ai Caraibi

La comunità dell'isola ha incontrato don Carrón. Quattro giorni, tra passeggiate, incontri e dialoghi in riva al mare... I racconti di chi c'era. E si è sorpreso cambiato
Giuseppe Zaffaroni

In fondo, che differenza c’è tra Gesù che dice a Zaccheo: «Scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua?», e don Julián Carrón che dice: «Va bene, dal 18 al 21 gennaio sarò a Portorico»? Quattro giorni con noi, piccola comunità di Cl in una piccola isola dei Caraibi.
E quando Carrón arriva, sorprende tutti: un uomo semplice e libero, nel fare due tiri a tennis sulla spiaggia come nel passeggiare per il Viejo San Juan, il centro storico della città. O nel dialogare fra amici sulla riva del mare. E ancora, nel tenere una conferenza davanti a 500 persone, il momento clou della sua visita. Ecco, siamo stati per quattro giorni davanti a un uomo totalmente presente.
Così, alla Pontificia Università Cattolica di Portorico a Ponce, la mattina dell’incontro “Realtà, ragione, libertà: le radici del senso religioso”, tanti, forse impreparati, si sono messi a cercare freneticamente qualche foglietto, un pezzo di carta qualsiasi, pur di appuntarsi qualcuna di quelle parole così nuove, così diverse dal solito: erano umane, corrispondenti al cuore.
Per un’ora regna il silenzio in platea, tutti sono tesi a qualcosa che sta accadendo. E risveglia i cuori. Le facce di vescovi, politici, sacerdoti, professori, studenti, professionisti e casalinghe... Sono luminose. E come se un vento improvviso avesse spazzato via di colpo le nubi grigie del già saputo, di un cristianesimo abitudinario, un po’ triste e soffocante.
Lo stesso succede la sera, a San Juan, all’assemblea di Scuola di comunità: l’impressione è che tutto sia meno complicato di quanto sperimentiamo nell’affanno con cui affrontiamo la vita di ogni giorno. È semplice, come scendere da un albero o aprire la porta della propria casa.
Lo si vede anche dopo, a cena, nei dialoghi a tavola: una gioia, una gratitudine che fatica esprimersi, ma che si palpa nell’aria: sono le parole di alcuni canti portoricani a spiegare ciò che non si riesce a dire con le proprie.
«Parla come uno di noi, non come un prete», commenta Tati: «Nella sua umanità mi si è fatta più familiare l’umanità di Cristo». E Carlos, suo marito, ex direttore per l’America Latina di una multinazionale, da poco in pensione: «Ho passato tutta la vita a programmare e a organizzare, sempre proiettato verso il futuro. Non riesco a pensare alla mia vita in un altro modo. Eppure adesso mi rendo conto che vivendo così mi perdo il meglio. Mi perdo quello che accade nel presente». «Quell’uomo guarda le cose e gode in un modo che io non conosco», dice Genesis, studentessa di Psicologia: «È come se vedesse qualcosa che io non vedo: vorrei avere la stessa libertà». E Natalia, un’altra universitaria: «Mi affascina la possibilità di poter fare la stessa esperienza di Giovanni e Andrea, che guardando Cristo parlare erano finalmente se stessi. Anzi, più se stessi di quello che sarebbero potuti diventare partendo da un’idea o un progetto». E poi c’è Hugo che dice di non aver vissuto nessuna emozione particolare in questi giorni. Per poi dover riconoscere che «il giorno dopo, in classe, mi sono sorpreso a dire e a fare cose che non avevo mai detto e fatto. Non c’è altra spiegazione per questa novità che l’incontro con Carrón». Aura, entusiasta, al telefono non può trattenere un grido: «Che bello, che felicità seguire Gesù».
«È stato un gesto del Mistero che interpella la mia libertà»: è la conclusione di José Francisco, che richiama tutti noi alla vera responsabilità scoperta in questi giorni, che non è fatta né di bei ricordi né di buoni propositi, ma della continua «conversione dell’io all’avvenimento presente».