«Io, "profugo" dalla Libia»
«Non avrei mai pensato di vivere una giornata simile». Fa un certo effetto sentire queste parole da chi in Africa ne ha passate tante: incarcerato a Djbouti con accuse tanto infamanti quanto false, ha seguito in tutto il Nord Africa l’esodo degli eritrei fuggiti alla dittatura, fino ad arrivare a Tripoli un anno fa, restando anche sotto ai bombardamenti. Eppure quello che don Sandro De Pretis ha visto in questi giorni è «inimmaginabile».
In Libia i profughi del Corno d’Africa sono sempre stati gli ultimi: hanno perso il lavoro a causa della guerra, l’unica possibilità di rifugio e salvezza l’hanno trovata al vescovado, fino a che la maggior parte di loro non ha cercato fortuna nella Tunisia post-rivoluzione. Il missionario trentino li ha seguiti anche lì, ed è arrivato al campo di Choucha, a pochi chilometri dal confine.
Più di cinquemila persone stipate in una tendopoli in mezzo al deserto. L’escursione termica è micidiale: «L’esercito ha obbligato i profughi a costruire il campo qua, ma è una situazione invivibile». Mentre don Sandro parla il vento tira forte e la sabbia gli va in bocca e gli secca gli occhi. «La disposizione non tiene conto delle diverse nazionalità: vengono mischiati ivoriani, nigeriani ed eritrei». Infatti, il 23 maggio è scoppiata una rivolta contro la politica dell’Unhcr (l’organismo delle nazioni unite che si occupa dei rifugiati; ndr), che secondo i migranti favorisce gli eritrei. «I profughi hanno occupato la strada», racconta don Sandro: «Il commercio di contrabbando tra Libia e Tunisia di cui vive questa regione è stato bloccato. I militari avrebbero potuto contenere la protesta dentro al campo, ma non si sono mossi. Eppure sapevano che la popolazione avrebbe reagito».
E così è stato. In meno di ventiquattro ore, centinaia di persone invadono Choucha. In pieno giorno, davanti ai “garanti dell’ordine”, fanno a pezzi le tende, rubano quel poco che c’è e appiccano il fuoco. Anche don Sandro cerca di entrare nel campo, in auto con due poliziotti e una dottoressa eritrea. La folla li ferma, intimandoli di tornare indietro. Ma poi afferrano la donna, cercando di tirarla fuori: ha la pelle scura, come i profughi. Le braccia che si infilano nei finestrini, la polvere e il sole a picco aumentano il caos. Le lussano una spalla, e strappano dalle mani i cellulari per evitare che venga filmato quello che accade.
Don Sandro capisce che deve tornare indietro. Fa ancora in tempo a vedere un gruppo di eritrei che viene fatto scappare verso il campo. Cercavano rifugio nel deserto: li hanno trovati e ora li cacciano a Choucha a bastonate. Sotto gli occhi delle sentinelle dell’esercito. «Hanno protetto gli aggressori ed ora, tra i gruppi delle varie nazionalità, si contano gli scomparsi. Ogni giorno c’è qualcuno di cui all’improvviso non si sa più nulla. La comunità internazionale tace, la transizione è ancora troppo delicata e i giornalisti non li vogliono».
Ora i militari stanno ripulendo la parte del campo data alle fiamme. «E in questo modo rimettono i profughi nel punto più esposto, mischiando le diverse nazionalità». Il rimorchio di un trattore gli passa davanti, sopra ci sono ammucchiate le cose che i migranti avevano portato con sé: la metà di loro se n’è andata. Questo non è un posto sicuro e molti sono tornati in Libia.
Don Sandro resta: «Sono figli miei, anche se sono più adulti di me. Hanno passato anni di viaggi e prigionia, sono disperati. Che speranze possono avere? Per loro non c’è scelta». Oltre a lui e alle due suore che lo accompagnano, in questa babele africana c’è l’Unhcr, i militari “di guardia” e Medici Senza Frontiere: hanno il loro ambulatorio e curano chi vi si rivolge. Ma dall’accento trentino del prete il giudizio è forte: «Nessuno va tenda per tenda a visitare le persone. Noi siamo l’unica presenza reale. E l’unica cosa che possiamo fare è anche la più utile: dare speranza e sostenere la fede».