Vacanze e forchette al posto giusto

Finito l’anno scolastico o la sessione d’esami, cosa vuol dire impegnare le proprie ferie lavorando? Cosa ci si porta a casa? Abbiamo provato a raccogliere alcune esperienze. A partire da chi, tra luglio e agosto, lavora negli alberghi Tivigest
Paola Bergamini

Lorenzo nel 1994 aveva sedici anni, quando i suoi amici di Gs gli proposero di andare a lavorare durante l’estate negli alberghi in montagna del gruppo Tivigest, creato e condotto da alcuni amici della comunità di Cl di Padova. Ricorda: «Nei loro racconti c’era qualcosa di affascinante che anche io volevo provare». Quell’anno aveva fatto il cameriere e l’avventura era stata così bella che le estati successive era tornato per periodi sempre più lunghi.
Le mansioni via via cambiano, tanto che negli anni dell’università si profila la possibilità di un percorso lavorativo definitivo. Nel 2000 diventa direttore dell’albergo a Pontresina (Svizzera) e dal 2003 è dall’altra parte della barricata: in inverno segue la selezione del personale professionista e dei ragazzi che fanno domanda, mentre dal 2010 in estate è direttore del Planibel a La Thuile, in Val d’Aosta. Spiega: «Le domande arrivano per un passaparola. Chi è venuto ne parla con l’amico e lo invita».

Esattamente quello che è accaduto a Paolo, 22 anni al quarto anno di Storia. «Per me c’era anche il fatto che volevo dare una mano in casa, perché siamo nove figli. Sono stati proprio i miei fratelli a raccontarmi di questa esperienza». La prima volta come è andata? «Appena arrivato ti senti un po’ spaesato, ma quando incontri persone appassionate al loro lavoro tutto cambia. E un’attrattiva, tanto che a fine stagione vorresti spostare il giorno della partenza sempre un po’ più in là. Per quelle facce io ritorno tutti gli anni».
Ma quale è la molla che scatta e fa dire che il tempo libero così impegnato non è perso? Lorenzo racconta: «Io l’ho scoperto sulla mia pelle: tutto parte dal lavoro. Puoi subirlo pensando magari solo ai soldi che ti porti a casa, oppure avere uno scopo. Che è quello che io dico ai ragazzi quando iniziano: servire. Servire chi hai di fronte: la famiglia che fa i salti mortali per pagarsi quella settimana o il ragazzino che ti fa impazzire. Questo apre un orizzonte ben più grande. Solo così è utile la correzione». In che senso? «Il maître, il caposala, il responsabile ai piani, ti dicono dove sbagli perché tengono a te. Vogliono il tuo bene, desiderano che tu impari. È uno sguardo. È quello che sta all’origine dell’esperienza dei primi, Graziano, Gino e gli altri, che hanno messo in piedi quest’impresa negli anni Settanta».
Per Paolo ha anche un altro significato: «La passione per quello che fai. Quando apparecchi, ad esempio, devi mettere la posate nel posto giusto, ben ordinate. È un’attenzione al particolare. Così il cliente è più contento, si gode di più la vacanza. Ho iniziato come cameriere e adesso sono responsabile di sala. Quella passione che io ho visto, adesso, per come sono capace, cerco di trasmetterla ai ragazzi che vengono a lavorare. È un tesoro che ti rimane dentro».

Interviene Lorenzo: «Ho visto tanti ragazzi che dopo pochi giorni avevano un’attenzione che nemmeno un professionista ha dopo vent’anni di lavoro. Le tecniche si imparano, ma poi c’è quel qualcosa in più, lo scopo appunto, che ti fa essere diverso nel rapporto con il cliente sia che tu faccia il cameriere o l’addetto alle pulizie ai piani». Un esempio? «Alle ragazze che rifanno le stanze dico: “Prima di chiudere la porta fermatevi tre secondi e riguardate la camera immedesimandovi in chi al ritorno da una gita, stanco, apre la porta”. Oppure, un ragazzo in cucina quando tira fuori un piatto dalla lavastoviglie e si accorge che non è perfetto può decidere se fare finta di niente e impilarlo con gli altri o prendere in mano la spugna e ripassarlo. Sono lavori umili, fatti di tanti particolari. Ecco, impari che la realtà è fatta di questi particolari a cui stare attento, da valorizzare. E questo te lo porti poi a casa nella vita normale». È vero Paolo? «Banalmente, quando torno mi piace che la tavola sia ben apparecchiata. Ma mi è servito anche nell’organizzazione dello studio e soprattutto ho imparato a mettere un po’ da parte l’orgoglio. Bisogna essere umili per imparare... anche solo come si passa lo spazzolone».

Il lavoro, qualsiasi sia la mansione, certamente è duro. C’è la stanchezza, vivere 24 ore in albergo lontano da casa, c’è il sacrificio del proprio tempo. «È vero», interviene Lorenzo «Ma molti, come è capitato a me, a fine stagione scoprono uno dei segreti della vita: attraverso il sacrificio fai qualcosa che ti da soddisfazione, che ti fa felice».

Trascorrendo tante ore insieme, nasce la possibilità di nuovi incontri che generano legami inaspettati. Come è capitato a Paolo che in questi anni ha conosciuto tanti ragazzi e con alcuni è nata un’amicizia stringente che è continuata anche a fine turno. «Ultimamente ci siamo visti al pellegrinaggio Macerata-Loreto. Se uno arriva con l’idea di finire il servizio per poi chiudersi in camera a risposare... ci muore dentro. Se invece, come è stato per me, è l’occasione per conoscere, stare insieme e aiutarsi nel lavoro è tutta un’altra vita. Nascono rapporti impensabili. E poi, diciamocelo, ci si diverte. Perché ci si può trattare come semplici colleghi oppure guardarsi in faccia e vivere. E anche la fatica non la si sopporta, la si vive insieme. Soprattutto in certe occasioni più impegnative». Un esempio? «Ferragosto è una festa importante. E noi cerchiamo, sempre, di fare qualcosa di speciale per i gruppi: il menu presentato in una certa maniera, il buffet addobbato diversamente... vuoi che quello sia un giorno diverso. In questo servi chi hai di fronte, il cliente. Hai in mente la sua faccia, non il numero della stanza».
Anni fa, don Giussani a un ragazzo che serviva al tavolo chiese: «Come ti chiami? Cosa fai nella vita?». E lui: «Federico, sono uno studente delle superiori. Dopo vorrei iscrivermi a Ingegneria». «Sai, se io non avessi fatto il prete, avrei fatto sicuramente il cameriere». Per la dignità che è servire l’altro.