Tu chiamala se vuoi, amicizia
Per i sociologi è “integrazione”. Ma tutti i giorni, si tratta del legame che nasce coi compagni e coi prof... Un viaggio nelle classi italiane dove i ragazzi musulmani sono quasi 300mila. Storie di una eccezionalità che è normale«All’inizio sono andata perché mi piaceva un ragazzo. Poi ho capito che c’era qualcosa per me». Naima ha 18 anni, frequenta un liceo in provincia di Milano, canta nel coro di Gioventù Studentesca, da tre anni va in caritativa ed è l’anima del piccolo raggio della sua scuola. Ma è marocchina e musulmana. Dopo i fatti di Parigi ha promosso nella sua scuola un’assemblea dove è intervenuta per dire: «Non mi sento né marocchina, né italiana. Io mi sento umana». E ha invitato tutti al raggio, «perché è un luogo dove ognuno può essere davvero se stesso. Si parla delle cose importanti della vita, delle domande che ho sempre avuto ma di cui non trovavo nessuno con cui discutere».
Nelle scuole italiane accadono cose eccezionali. Cioè capita che si verifichi quello che è più naturale: i compagni di banco diventano amici, le mamme si frequentano tra loro, al pomeriggio i ragazzi si trovano per giocare o studiare e, talvolta, a parlare del senso della vita. Chi l’ha detto che non possa capitare anche tra musulmani e cristiani? A volte i rapporti possono essere tesi, anche conflittuali. I pregiudizi da entrambe le parti si sprecano. Eppure, capita. Capita che nascano rapporti autentici, soprattutto tra ragazzi. I sociologi usano il termine “integrazione”, ma nella vita la gente la chiama amicizia.
Certo, soprattutto oggi, non è affatto scontato. Gli studenti musulmani nelle scuole italiane, secondo una stima fatta da Tuttoscuola, sono quasi 300mila. Nel 2001 erano 81mila. La media italiana è del 3,3 per cento della popolazione scolastica, con picchi del 5 per cento in Lombardia. Di questi, però, solo una minoranza è nata all’estero, se è vero che tra gli alunni stranieri quelli di seconda generazione sono ormai l’84% nella scuola dell’infanzia e il 64% in quella primaria. Ma la statistica, insegnano i polli di Trilussa, non sempre dà una fotografia esatta della realtà. A seconda della città e del quartiere, la componente di figli di immigrati in una scuola può arrivare oltre ad un terzo del totale.
«Prof, lei sa cos’è il jihad?». Una situazione complessa di per sé. Che si complica ulteriormente se si pensa ai sentimenti che i fatti di cronaca legati al terrorismo di matrice islamica producono in genitori, bambini e ragazzi. Naima lo sa e lo ha detto ai suoi compagni: «Soffro perché tanti non si accorgono che sta accadendo ciò che gli integralisti dell’islam desiderano. Siamo spaventati, diffidenti, divisi, privati delle nostre libertà. Quelli che chiamiamo jihadisti ci impediscono di giudicare da noi ciò che ci sta intorno. Ci spingono a etichettare il prossimo e ad averne paura. Così il vicino, la donna delle pulizie, il ristoratore e l’autista diventano nemici. Basta così poco per sapere qualcosa in più sul vero islam: una parola scambiata con un conoscente musulmano, con il “kebabbaro” o il pizzaiolo». O il compagno di scuola.
Come Omar, in una scuola superiore di Torino. Anche lui, musulmano egiziano, ha chiesto di parlare ai propri compagni dopo le stragi di Parigi. «Prof, lei sa cos’è il jihad? È un percorso interiore, perché una religione non è tale se non aiuta a capire chi sei e chi vuoi diventare». Un compagno, anziché ascoltare, chiacchiera con la vicina. «Ecco, lui ad esempio, non sta facendo il jihad», scherza Omar. Una ragazza chiede come è possibile che un occidentale finisca per arruolarsi nell’Isis. «Per colmare un vuoto. Perché tutti abbiamo domande sulla vita e sulla morte. Se non trovi risposte quel vuoto lo devi riempire: col divertimento, la droga o perfino con il lavoro e la carriera». E di esempi simili si potrebbe farne a decine. Fatti piccoli, a prima vista insignificanti se giudicati coi parametri dei grandi scenari politici e culturali. Ma decisivi, perché indicano una strada. Mostrano che l’incontro è sempre possibile, al di là di ogni nostro pensiero. Accade. E la realtà è più importante delle idee.
Il volantino. Quest’anno pure il presepe a scuola si è trasformato in un campo di battaglia. Motivo? Per alcuni offenderebbe la sensibilità dei musulmani. Fa niente se poi non è quasi mai così e le polemiche crescono su altri motivi. Ma al di là della guerra dei simboli, capita che anche il presepe possa essere un’occasione. Lo racconta un’insegnante di religione in una scuola media di Acqualagna, in provincia di Pesaro. La collega di arte organizza tutti gli anni un concorso presepi. La gara è a chi è più originale e riesce a toccare l’attualità (neanche a dirlo, il tema più gettonato sono stati gli attentati di Parigi). Ce n’è uno che attira l’attenzione dell’insegnante, molto semplice e tradizionale: la mangiatoia, il pozzo, i pastori con le pecore. Scopre che l’ha realizzato un ragazzino di prima media aiutato da tre compagni musulmani. Commossa, va a cercare il ragazzo e gli chiede come mai gli fosse venuto in mente di farlo con quei tre. E lui: «Siamo amici e gli ho chiesto se volevano fare il presepe con me. Mi hanno risposto: “Va bene”. Così l’abbiamo fatto insieme e ci siamo divertiti».
Spesso gli incontri iniziano a scuola, ma prendono corpo fuori. Domenico, ad esempio, insegna religione in una scuola media statale di Cesena. Tutti gli anni invita gli alunni a partecipare alla Colletta alimentare. Stampa un volantino e spiega il gesto in classe. Quest’anno, per problemi di tempo, fa distribuire l’invito alle bidelle che, senza far distinzione tra chi segue l’ora di religione e chi no, lo danno a tutti. Così Domenico il giorno della Colletta si trova con sessanta ragazzi, tra cui cinque musulmani. Incuriosito chiede a una del gruppo dei cinque perché fosse venuta: «Prof, oltre alla scuola non c’è niente di interessante da fare in giro».
Il ramadam. A Roma, alla scuola elementare Di Donato, gli stranieri sono il 43 per cento. Gli spazi, al pomeriggio, sono utilizzati dall’associazione genitori che organizza attività per ragazzi e adulti. C’è l’aiuto allo studio, i corsi d’italiano per stranieri, i laboratori e le attività sportive. Francesca, che alla Di Donato ha mandato quattro figli, è diventata amica di un gruppo di mamme musulmane. Si trovano al pomeriggio, a volte anche la sera. È nata una certa confidenza. Ci si racconta della vita. Delle cose che capitano a casa, quelle belle e anche quelle difficili. Ora i figli di Francesca non frequentano più la scuola, ma lei continua. «Vado ancora volentieri. Mi trovo bene. E poi si inizia così a combattere gli estremismi. Non significa diventare uguale all’altro: è conoscersi, provare a capirsi. Costruiamo relazioni sane».
Cettina lavora per l’associazione I Girasoli di Mazzarino, provincia di Caltanissetta. Si occupa dell’inserimento scolastico dei minori stranieri che arrivano in Italia non accompagnati. Sta con loro tutti i giorni e li accompagna nella sfida di trovare un posto in un Paese straniero, di cui non conoscono la lingua e la cultura. Racconta di Robert e Mohammed, il primo del Congo, il secondo del Gambia. Uno cristiano e l’altro musulmano. Entrambi devono sudare sulle pagine della Divina Commedia, di cui la professoressa vuole anche la parafrasi. «Per loro è davvero dura», spiega Cettina: «Anche se poi, parlando di quello che leggono, nascono discussioni interessanti. Come quando si sono accorti che Dante, quando scrive, è lontano da casa come loro».
Paola, invece, insegna a Pesaro. Una sera, a cena da una ex alunna, conosce Nabil, il vicino di casa marocchino. Sedici anni e mille domande sulla vita e sulla religione dei genitori. «La differenza tra noi musulmani e voi occidentali è che voi non avete paura della ragione e delle vostre domande», spiega Nabil: «Una volta ho domandato a mio padre perché facesse il ramadan, e lui mi ha risposto che lo fa per seguire Maometto che ha digiunato per un mese nel deserto. Ma è una risposta che non mi soddisfa». Paola ci pensa e risponde: «Durante una gita in montagna all’ultima vacanza di Gs, ho chiesto a una ragazza musulmana che era con noi perché ci tenesse a fare il ramadan. Camminavamo e lei non poteva né mangiare né bere. Mi ha risposto: “È un modo per far entrare Dio nella mia vita. È un incontro con Lui. Ed è Lui che mi dà la forza”». Nabil ha risposto: «Questa sì che è una buona ragione».