Don Giussani e quella "strana compagnia"

A giorni in libreria, il primo volume di una nuova collana, "Cristianesimo alla prova". Raccoglie gli interventi di don Luigi Giussani agli Esercizi spirituali della Fraternità di CL. Eccone alcune pagine, in anteprima
Luigi Giussani

L’uomo che incomincia a capire che il suo essere, la sua personalità è appartenere a un Altro è un uomo diverso. Ci potrebbe essere un’analogia lontanissima, però attraente e patetica: quando una ragazzina è sbandata, smarrita, depressa e inquieta, e incontra il ragazzino che le dice: «Io ti voglio sposare», quella stessa ragazzina - quanti casi, amici miei, ci sono noti - da un giorno all’altro è un’altra, è un altro essere, è un’altra persona; da quando percepisce che la sua vita appartiene a un altro, la sua vita, la sua personalità cambia, cioè manifesta la potenzialità che prima era come bloccata nel profondo. Bene, è una lontanissima analogia di quello che capita all’uomo che ha coscienza d’appartenere a Cristo, a Dio: «io» vuol dire «appartenenza a Te», perché Tu sei tutto di me, sei il Signore, io Ti appartengo anche con tutto il seguito doloroso dei miei errori e dei miei tradimenti, e questo si chiama misericordia e perdono, perché Tu li bruci continuamente e li distruggi e io sono continuamente nuovo in questo riconoscimento di Te, mio Signore, cui appartengo, tutto, anche dunque nei miei errori. Ora, è talmente diverso un uomo sul cui orizzonte c’è l’albore e l’aurora di questo sole, è talmente un essere diverso, che Gesù, discutendo con un professore d’università dei suoi tempi, un pezzo grosso, un “barone” molto importante, gli ha detto: «Se uno vuole entrare nel regno di Dio», cioè se uno vuole capire la verità - era un professore universitario, la verità doveva interessarlo -, se uno vuole entrare nella verità, «deve nascere di nuovo». Nascere di nuovo! E l’ha detto in un modo così deciso, che quello, che si chiamava Nicodèmo - terzo capitolo di san Giovanni -, gli ha detto: «Oddio, ma come faccio a nascere di nuovo? Debbo forse rientrare nel ventre di mia madre per nascere di nuovo, adesso poi che sono vecchio?». E Gesù non dice di no, dice soltanto che non è quello il modo, l’espressione unica della realtà, c’è una realtà più profonda: «Quel che nasce dalla carne è carne, ma quel che nasce dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se ti dico: bisogna nascere di nuovo. Guarda il vento: tu non sai donde venga, né dove vada, ma ne odi la voce.

Un momento degli Esercizi della Fraternità

Così è di chiunque nasce dallo Spirito». Tu non sai come avvenga, ma ne odi la voce, vedi gli effetti: è un altro uomo, un altro uomo! Cristo fa il paragone addirittura di una nuova nascita, che è un’idea fondamentale in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo, almeno due volte, in un modo vibrato dice: «Ma non c’entra più nulla tutto il resto: quello che conta è la nuova creatura», nel capitolo 6 della Lettera ai Galati, in fondo, e nel capitolo 5 della seconda Lettera ai Corinti: «Quello che importa è la nuova creatura!». Perciò «non vale più né il ricco né il povero, né la destra né la sinistra, né l’occidentale né l’orientale, non vale più né il greco né il giudeo, né il libero né lo schiavo, né l’uomo né la donna», quello che vale è la creatura nuova, l’uomo nuovo! Chi capisce questo è un nuovo essere: resta come tutti gli altri, ma è diverso! Mio Dio, quanto è vero! San Giacomo addirittura dice che noi siamo l’inizio di una creazione nuova, e san Pietro dice, nella sua Lettera, che noi abbiamo lo stesso sangue di Dio, siamo generati con lo stesso sangue di Cristo. Ma il pezzo più imponente è quello che una volta si leggeva sempre alla fine di ogni Messa e che purtroppo adesso, con il rinnovamento liturgico, si è eliminato: «Il mondo fu fatto per mezzo di lui» - di un Altro, il Signore! - e senza di lui nulla è stato fatto di quello che è stato fatto. In lui è la vita. La vita è venuta nel mondo, quel «mondo che fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo riconobbe. Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti l’hanno accolto però, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» - «suo nome» è la potenza con cui Dio ci fa istante per istante; il nome di Dio è la potenza che crea -, a quelli che riconoscono, dunque, di appartenergli, «i quali, non da sangue né da volere di carne né da volontà d’uomo, ma da Dio sono stati generati».



È un tipo d’uomo così nuovo, così veramente nuovo, che i rapporti che stabilisce (si capisce la natura di un essere dai rapporti che stabilisce; vale anche per un animale, anche per una pianta) sono diversi, più profondi; è un tipo di essere così nuovo l’uomo che riconosce di appartenere a Dio, che riconosce che il suo io è appartenere a un Altro, cioè che l’essenza della sua vita, la legge della sua vita è l’amare - perché amare è riconoscere che la mia vita sei Tu, cioè la mia vita è affermare Te -, è un essere talmente nuovo, che i rapporti che stabilisce sono rapporti più profondi di quelli che nascono dalla carne, dal piacere, dall’interesse, dalla convenienza, dalla natura. Scusate, ma questo è il miracolo da cui si capisce che Cristo è Dio. Qual è il miracolo da cui Cristo ha detto «il mondo capirà che sono Dio»? Non la risurrezione dai morti, non il tirare la gamba diritta a quello che l’aveva storta, non il dare la vista ai ciechi, perché questi sono miracoli che servono a chi già crede, o a chi è sul punto di credere: il miracolo che travolge il mondo è che della gente estranea si tratti come fratelli. «Ti prego, o Padre, che siano una cosa sola, affinché il mondo s’accorga che Tu mi hai mandato».



Per questo motivo, tra me e te, che neanche conoscevo, che non avrei mai conosciuto, con cui non avevo e non ho nessun tipo di interesse materiale, di nessun genere - sì, mi sei simpatico, ma questo è venuto dopo, ci siamo messi insieme prima di constatare che mi eri simpatico, e infatti ci sono tanti con cui ho stabilito rapporti e non mi sono simpatici, né io a loro -, tra me e te c’è un interesse che è più profondo di quello che hanno tuo padre e tua madre. Questo è il miracolo, e questo è ciò per cui siamo stati chiamati: una nuova generazione, un nuovo uomo nel mondo. Quelle «nuove forme di vita per l’uomo», cui il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) accennava in quest’aula, come trama espressiva d’una civiltà nuova della verità e dell’amore, nascono non dall’interesse, dal piacere, dalla convenienza, dalla coincidenza, ma da un’altra cosa: dal riconoscere che io appartengo a Cristo e tu appartieni a Cristo. È una cosa dell’altro mondo, ma che si svolge in questo mondo con estrema tranquillità, come molte persone e taluni gruppi fra noi ci danno esempio. Un rapporto talmente più profondo con la stessa carnalità, tant’è che il riconoscimento dell’appartenenza cambia il rapporto familiare: per esempio fa vivere il perdono, altrimenti impossibile - si può “passar sopra”, ma non perdonare -, fa attraversare ogni possessività. (...)



Questa generazione nuova, amici miei, questa grazia di scelta, per che cosa ci è stata data? Si tratta di scelta, amici, perché siamo qui in tremilaseicento, l’Italia è grande, e il mondo un po’ più grande ancora, e nessuno sa. La maggior parte di voi è sempre andata in chiesa, ma questa pertinenza di Dio con la carne e il sangue, con la vita, col mangiare e il bere, questa coincidenza del dio con la propria persona, e di Cristo con la propria vita, dov’è che l’avete trovata? Dove? Comunque, ci è stata data questa grazia perché noi la comunichiamo: si chiama testimonianza. La testimonianza è lo scopo della nostra vita, è l’aspetto supremo del lavoro della vita, ed essa è data fondamentalmente dalla coscienza dell’appartenenza. Un uomo che è pieno di questa coscienza testimonia: non c’è bisogno di parole particolari o di gesti particolari, c’è bisogno di un atteggiamento, cioè d’una realtà nuova di coscienza e basta, di uno che dice «io» con quella coscienza, in famiglia, tra gli amici, in comunità, in parrocchia, al lavoro, è lo stesso. La testimonianza a Cristo è ciò per cui esiste il cosmo ed esiste la storia, e noi siamo chiamati coscientemente a renderla, diventando così gli attori della storia: nella piccolezza, nella “parvità”, nella meschinità, nella piccolezza delle nostre forze, nella meschinità del nostro cuore, siamo stati chiamati a questo. «Non vi ho scelto» leggerete nel Deuteronomio «perché siete il popolo più grande e più numeroso, ma perché vi ho amato, perché il mio disegno è così». Pur nella fretta di questo accenno, guardate, amici miei, che nessuno di noi può scappare da questo giudizio sulla sua vita: perché la nostra vita sarà giudicata dall’amore, vale a dire dalla passione della testimonianza a Cristo, e la passione della testimonianza a Cristo è il riverbero della passione dell’appartenenza a Lui, comunque siamo. Non lo dico perché sono prete e debbo parlare sempre così. Parlo così perché sono uomo, e rimango prete perché alla mia umanità viene risposto con queste parole. Perciò sono identico a te, chiunque tu sia.
(da Una strana compagnia, pp. 141-146, BUR Rizzoli, 352 pagine, 14 euro)