Disarmati nella lotta

La bellezza disarmata di Julián Carrón è una risposta alla crisi europea. Cosa c’entra con un mondo così lontano come il Sudamerica? Il dialogo all’Assemblea responsabili del Continente attraverso tre fatti. Da Tracce di maggio
Alessandra Stoppa

Colombia, Argentina e Messico: il processo di pace con le Farc, la riconciliazione a quarant’anni dal regime e il muro di frontiera nell’era Trump. Sono tre dei fatti che più segnano il volto dell’America Latina oggi. E per chi li vive da vicino sono anche il terreno di prova della fede cristiana. A volte sembra non avere forza, o finisce intrappolata negli schemi mondani, incapace di offrire una novità di risposta. Può la fede cambiare davvero le dinamiche umane, della società e della storia? E può un cristiano affrontare in modo concreto le grandi questioni che toccano tutti? O è meglio non esporsi?

L'articolo su Tracce di maggio

Sono alcuni degli spunti da cui, all’ultima Assemblea responsabili di CL del Sudamerica, è nato il dialogo con Julián Carrón. Il suo libro La bellezza disarmata è stato pubblicato in spagnolo e in portoghese. Questo fatto ha suscitato in alcuni perplessità e domande, perché la riflessione di Carrón è immersa nella crisi europea, che ha una fisionomia molto precisa, quella del Vecchio Continente esausto, in lotta con se stesso. La strada tracciata nel libro può valere in un mondo così lontano dall’Europa come è quello dell’America Latina? Là dove un europeo rimane colpito dalla freschezza di una forma di vita e di fede «più semplice, libera dalle sofisticazioni del nostro mondo», come scrive Javier Prades nella prefazione. E dove, al contempo, sono più violente le ingiustizie e più forti gli effetti delle «correnti antiumaniste» che arrivano dall’Occidente.  

Carrón si è confrontato con la situazione di Argentina, Colombia e Messico attraverso le domande di Horacio Morel (Buenos Aires), Juan Sebastián Vargas (Bogotá) e Victor Vorrath (Città del Messico). Tre padri di famiglia, rispettivamente: un avvocato, un imprenditore e un giornalista. Ne ripercorriamo a grandi linee il dialogo.

ARGENTINA
I due fronti e una presenza

La storia della violenza argentina degli anni Settanta è la storia di una crescente politicizzazione della società e del radicalizzarsi dello spirito del ’68 e della Rivoluzione cubana, da cui sono nate le forze rivoluzionarie: le più note sono i Montoneros e l’Ejército Revolucionario del Pueblo. «Ma tutta la società era coinvolta in quello che stava accadendo», spiega Horacio Morel, «anche se non per partecipazione attiva». Il suo primo ricordo politico risale a quando aveva 7 anni: «Ero per mano a mio padre e mia madre. Dal carcere uscivano i prigionieri politici che il Governo democratico stava liberando». Era il 1973. Tre anni dopo, ci sarà il golpe militare, con una serie interminabile di attentati, sequestri, azioni repressive. E il dramma dei desaparecidos.

«Un dato che mi ha sempre generato inquietudine», dice, «è che la Chiesa fosse presente in entrambi i fronti». C’erano i preti terzomondisti entrati nella lotta armata e c’erano quelli conniventi con il regime militare. Ricorda il caso del torturatore ufficiale del Garage Olimpo, uno dei centri clandestini di detenzione, che chiese al prete che lo assisteva: «Dio sa quello che stiamo facendo?». «Voi state lottando contro l’anticristo», fu la risposta.

A Buenos Aires lo striscione coi volti dei desaparecidos: circa 30mila, secondo le organizzazioni dei diritti umani

Oggi, le ferite profondissime di quegli anni non sanguinano solo nelle vittime o in chi deve convivere con quel che ha fatto, ma in tutta la società argentina. A dividerla è un giudizio che coinvolge il presente, perché «un popolo intrappolato nella sua storia ha bisogno di liberarsi». Può evolvere il contesto, ma la mentalità restare lacerata. A partire da un dramma ancora vivo e da come la Chiesa in passato ne ha abbia fatto parte, Morel chiede a Carrón perché insista sulla testimonianza come presenza e non come militanza.

«Cosa significa testimonianza, e qual è la modalità di questa testimonianza, è una questione che si ripropone tutti i giorni», dice Carrón. A casa, con i figli, con gli amici, sul lavoro, in pubblico: «Volenti o nolenti, inevitabilmente noi abbiamo sempre una posizione culturale. Il problema è dove ha origine, che cosa la determina. Tutto sgorga dal sentimento che prevale in noi: se prevale l’incertezza, la paura, se prevale il voler imporre la nostra visione, o se la fede genera una posizione originale». Si può arrivare a ciò che si è visto nella storia - cristiani in fronti opposti - perché la fede non è qualcosa di «automatico», continua Carrón: «Abbiamo bisogno di cambiare sempre, come cambia la Chiesa che ha preso coscienza di sé nel tempo». Optare per la testimonianza come presenza non significa stare “fuori” dai problemi. «Ma è essenziale capire quale sia la modalità di presenza. Quand’ero bambino, a scuola tutti dovevamo andare a messa. Si pensava fosse la forma per trasmettere la tradizione cristiana. Ma mancava l’interesse. E il risultato lo abbiamo visto tutti».

«La fede non è qualcosa di automatico. Abbiamo bisogno di cambiare sempre, come cambia la Chiesa che ha preso coscienza di sé nel tempo»

Come si trasmette allora la verità cristiana? La pietra di paragone è il Concilio Vaticano II: «La verità non si impone che per la forza della verità stessa». Carrón invita a giudicare alla luce di questa affermazione i propri tentativi: «Ciascuno può vedere se la sua posizione corrisponde alla natura della verità, che non ha bisogno di appoggi esterni».

Nell’Evangelii nuntiandi, Paolo VI scrive: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Il testimone è più affascinante di chi “insegna” qualcosa e, soprattutto, si offre alla libertà. «Qualsiasi posizione mortifichi una delle due - verità o libertà - non è testimonianza. Avere una posizione di insistenza significa non capire la natura dell’uomo e la natura del cristianesimo», che non è un congiunto di “verità”, ma un’attrattiva dove fatti e parole sono intrinsecamente legati. È ciò che il cardinale Angelo Scola ha detto di Francesco: «Il suo modo di testimoniare la fede coinvolge tutti, anche i lontani. È un’apertura a 360 gradi, un magistero che passa molto attraverso i gesti, non soltanto attraverso le parole». L’esperienza pastorale di un Papa “venuto dalla fine del mondo” e il suo linguaggio accessibile a tutti sono la più grande sfida per «noi europei, eredi di visioni intellettualistiche e dottrinalistiche».

Continua Carrón: «Ma noi abbiamo la pazienza del cammino? Di tutto il tempo che occorre per generare un soggetto plasmato dalla fede?». Pensando che sia più efficace e veloce, «diamo le soluzioni. Così confondiamo il compito della Chiesa. È facile dare soluzioni, per pensarla tutti allo stesso modo. Ma non si genera nessun io».
 

COLOMBIA
Il «lato costruibile» della storia

Un conflitto di oltre cinquant’anni. Con 265mila morti e 8 milioni di vittime per trasferimenti forzati, mutilazioni, omicidi, sequestri, reclutamento di minori, espropriazione di terre, aggressioni sessuali, attentati. La guerra civile colombiana ha le sue radici nel 1948: l’assassinio del leader politico Jorge Eliécer Gaitán porta i due partiti allora al potere ad armarsi l’uno contro l’altro. Il conflitto esplode nel 1964, quando nascono le forze della guerriglia di estrema sinistra, tra le quali le Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. «Anni e anni di violenze, resi più cruenti dalla nascita del narcotraffico, il grande finanziatore del conflitto», dice Juan Sebastián Vargas

Il 2012 è l’anno in cui cominciano i negoziati di pace con le Farc, promossi dall’attuale presidente Juan Manuel Santos, «secondo il quale i tentativi di dialogo non hanno mai funzionato per tre ragioni: la debolezza delle forze militari; l’insufficienza dell’appoggio internazionale; la posizione dei capi della guerriglia, non convinti che vivere in pace fosse meglio». Quando le forze militari sono diventate più forti, quando è cresciuto l’appoggio internazionale - in particolare del Venezuela -, e sono stati assassinati molti capi della guerriglia, allora le Farc si sono convinte a dialogare.

L'Assemblea responsabili di CL in Sudamerica (Brasile, 17-19 marzo 2017)

La storia “pubblica” del dialogo inizia il 24 agosto 2016: sono rese note le 297 pagine dell’accordo e viene fissato il referendum popolare del 2 ottobre per approvarlo. La scelta tra “sì” e “no” è un travaglio per tutti: «Il primo fattore di confusione era la difficoltà tecnica del testo, che ha generato molte analisi. E le analisi, a loro volta, hanno generato divisione», racconta Vargas. Si spacca l’opinione pubblica, il mondo ecclesiastico, le famiglie. «C’era un clima di non fiducia verso il Governo», racconta Vargas, «oltre alla preoccupazione su alcuni contenuti e le possibili conseguenze degli accordi. Per la nostra comunità, il fatto decisivo è stata la visita del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, che ha parlato del referendum come di un’opportunità che non si poteva perdere per cominciare un nuovo modo di relazionarsi. Così, tanti di noi hanno deciso di votare “sì”». E, con sconcerto di tutti, ha vinto il “no”.

Scrive, all’indomani dell’esito, il gesuita Francisco de Roux, tra i fautori dei negoziati: «Questo risultato può essere il cammino che ci porta a superare il più profondo dei nostri problemi, che siamo noi stessi: divisi, incapaci di essere insieme sulle questioni importanti, consapevoli che la nostra animosità e aggressività, che si esprimono nella politica, nei media, nelle famiglie, hanno conseguenze letali. (...) Dobbiamo accettare con realismo ed umiltà di cambiare. Siamo parte del problema e la crisi di oggi aumenta la nostra responsabilità di essere parte della soluzione». Prendendo spunto da queste parole, Vargas racconta di essersi accorto che, discutendo del voto, lui stesso alzava il muro: «Io per primo ho la necessità di imparare a dialogare. E vorrei capire come si identifica il vero dialogo».

«Benedetto XVI ci ha ricordato che la politica è il luogo del compromesso, di un accordo per salvare il meglio possibile ora»

Carrón evidenzia una prima cosa: «Noi crediamo di recuperare la certezza afferrando con tutta la nostra forza, quasi istintivamente, una verità monolitica. Ma questo porta a un’incapacità di entrare in relazione con posizioni diverse dalle nostre e di poter vedere il “lato costruibile” delle cose». Il dialogo può essere imperfetto quanto si vuole, ma «l’urgenza è quella di avere un’apertura. Nella vita quotidiana come in politica. Benedetto XVI ci ha ricordato che la politica è il luogo del compromesso, di un accordo per salvare il meglio possibile ora».

Ma chi è nella condizione di dialogare? «Più sei incerto e più sei rigido, incapace di capire, incontrare, trovare una strada. Mentre noi pensiamo che la cosa più efficace sia essere rigidi. È il contrario! Chi è più certo è più aperto. La certezza non è imporre». Il reinserimento sociale di migliaia di guerriglieri sarà difficile: «Che certezza bisogna avere per accettare il rischio di questo processo? Ma se non lo si accetta, si rimane nel conflitto». È fondamentale quello che dice De Roux: «Il problema siamo noi stessi», riprende Carrón: «Occorre un soggetto disposto a cambiare, perché, se l’uomo non cambia, i conflitti si riproducono». Allora la sfida è una: «Chi nella società colombiana può generare persone capaci di superare il conflitto?». Oggi che i conflitti si moltiplicano, «l’esperienza di chi fa dei passi verso l’altro è una ricchezza per tutti. La Chiesa, determinata solo dall’incontro con Cristo, può essere la vera educatrice di pace».


MESSICO
Trump, Kant e noi

Victor Vorrath inizia leggendo un verbale: «Norberto Santa Cruz, 42 anni, originario di Ciudad Juárez, Chihuahua, è morto in ospedale la mattina del 4 marzo dopo essersi impiccato nella cella del carcere della contea di El Paso, Texas. Era stato arrestato nella zona della ferrovia per aver attraversato illegalmente la frontiera».

È solo uno dei tanti che «non hanno incontrato la speranza per affrontare il futuro», dice Vorrath. La crisi migratoria in Messico si «è acutizzata dopo l’elezione di Trump, ma frustrazione e risentimento erano già presenti nella nostra società. Di certo le minacce sull’ampliamento del muro, sulle deportazioni di clandestini e le frasi dispregiative verso i messicani hanno aumentato la paura». L’esito immediato è che la società è divisa nell’affrontare il problema. Nelle proteste contro il muro c’è chi incolpa il Presidente Usa e chi il Governo federale di Enrique Peña Nieto per la sua tiepidezza. «Il denominatore comune è accusare un altro. Senza riconoscere mai alcuna propria responsabilità».

Vorrath riprende le parole del vescovo di Morelia, Carlos Garfias: «Come società e come cristiani dobbiamo chiedere perdono ai migranti per esserci dimenticati di loro. Non hanno trovato nel nostro Paese i mezzi per mandare avanti le loro famiglie». Peraltro in una terra dove non mancano risorse naturali ed economiche. E poi il dramma di chi fugge dal Messico è lo stesso di chi arriva, dal Centroamerica. Si parla sempre della frontiera Nord, ma quella Sud è forse ancor più violenta: studi dell’Istituto messicano della dottrina sociale cristiana (Imdosoc) parlano di abusi, violenze e sparizioni dei migranti.

Il muro tra Messico e Usa ha aumentato la paura e il risentimento tra i due popoli

«L’effetto Trump ha portato alla luce un problema di decenni, dimenticato. Ed è un bene, perché si stanno prendendo tante iniziative per affrontarlo. Ma la domanda è se in noi c’è un vero cambiamento di mentalità». Discutendo delle minacce di deportazione massiva, un suo amico ha detto: «Cosa possiamo fare con tutti quelli che torneranno?». E lui, timidamente: «Riceverli». L’altro è sbottato: «Anche se ti portano via il lavoro?». «Io lo capisco, la vita sarà più difficile per tutti», continua Vorrath, «ma qualcosa in me resiste dal cedere al pessimismo». Ripensa agli inviti del Papa ad accogliere e al “crollo delle evidenze” di cui parla Carrón nel libro: «Non è più evidente la dignità stessa dell’altro. E il nostro impegno davanti a lui. L’altro è qualcuno di cui è meglio liberarci per mantenere il nostro tenore di vita. È un ostacolo, o come direbbe Sartre: l’altro è l’inferno».

Anche la società statunitense vive una profonda divisione sul problema della migrazione. «Pure tra i cattolici, nelle parrocchie, dove i liberali si arrabbiano se si parla di difesa della vita e i conservatori se si difendono i migranti. Gli stessi cattolici giudicano la Chiesa e quello che deve fare da un punto di vista politico». Così sembra meglio, anche tra i fedeli, non parlare delle cose “concrete”. Davanti alla gravità dei problemi, «nasce un sentimento di impotenza, di scetticismo. Come se la “bellezza disarmata” fosse inutile ai fini pratici», continua Vorrath, e chiede a Carrón come si supera questo dualismo tra vita e fede: «Anche tra noi: possiamo ripetere la Scuola di comunità e affrontare la vita con altri criteri».

Carrón inizia con una domanda: «Cosa accomuna le due posizioni di cui parlavi: i fedeli che difendono la vita e quelli che difendono i migranti?». «Partono da un giudizio politico e non di fede», risponde Vorrath. «Entrambe sono posizioni cristiane», replica Carrón: «Entrambe nascono dalla fede. Il problema è se si riduce il cristianesimo ad etica. Apparentemente ogni nostra posizione nasce dalla fede. Tutti noi abbiamo la fede». Eppure finiamo per dire che genera divisione. O che non basta davanti ai problemi. «La fede non basta, se non sappiamo cos’è la fede», incalza: «Quello che io propongo è di cogliere l’occasione per riscoprire la vera natura del cristianesimo. Quando vogliamo difendere un valore, diciamo: “Non è una questione confessionale, è un valore evidente alla ragione, non serve la fede per riconoscerlo”. Ma questo è il primo errore. Per i più non è così. Per noi non è stato così. Abbiamo scoperto i valori fondamentali del vivere in forza di un incontro». Ma, senza accorgercene, ci siamo adeguati a quello che dice Kant: una volta che il Vangelo ha fatto conoscere le norme morali nella loro pienezza «ciascuno può convincersi della loro validità attraverso la sola ragione».

«La fede non basta, se non sappiamo cos’è la fede. Quello che io propongo è di cogliere l’occasione per riscoprire la vera natura del cristianesimo».

Anche noi pensiamo la stessa cosa, dimenticandoci di quello che ci è accaduto. «Un incontro, una storia particolare», conclude Carrón, «diventata veicolo per una verità universale. Senza Giussani che ci ha comunicato la fede come Avvenimento, penseremmo come tutti. Anche l’unità tra noi è solo frutto della potenza di Cristo: la comunione non è un accordo. Quello che è in gioco è la fede stessa. La fede. Il riconoscimento della Presenza di Cristo».