I sensi delle cose

Si parla tanto di società della post-verità e di “bufale”. Ma sono solo le conseguenze di un'assenza di concretezza. John Waters fa un viaggio nel nostro modo di essere informati. Da Tracce di maggio
John Waters

C’era un tempo in cui la gente - i nostri nonni, forse - si rapportava col mondo unicamente attraverso l’esperienza diretta. Ora noi interagiamo con esso soprattutto in modo indiretto, attraverso i media e internet, che ci forniscono versioni filtrate di avvenimenti e, a volte, disastri da luoghi lontani, di cui non abbiamo una conoscenza dettagliata. Non solo ci è praticamente impossibile comprendere molti di questi fenomeni, ma per noi è anche più difficile provare empatia per le persone coinvolte. La nostra unica opzione, perciò, è quella di una finta empatia camuffata in un processo inconscio di virtuosità virtuale. Diciamo cose che ci fanno apparire buoni, e così ci convinciamo di esserlo.

L'articolo su Tracce di maggio

Sembra indiscutibilmente una cosa buona arrivare a sapere quanto più possibile di ciò che sta accadendo nel mondo; e prima è, meglio è. Ma è davvero così? A cosa mi serve sapere nel giro di pochi minuti da Google News che da qualche parte in Medioriente c’è stato un bombardamento? La domanda stessa ci scuote - proprio perché siamo stati sommersi da messaggi che ci inducono a equiparare l’essere “informati” con l’essere persone “buone”, impegnate col mondo, preoccupate del nostro prossimo. Ma se invece tutto ciò fosse, in realtà, solo una forma di intrattenimento, in cui le nostre reazioni non sono veramente ciò che immaginiamo?

Tendiamo a credere che l’informazione sia sempre e ovviamente un bene. Ma forse è vero il contrario: la diffusione di grandi quantità di informazioni, in realtà, può essere distruttiva del significato. Le informazioni, in un certo senso, assomigliano al cibo: arrivati a un certo punto, non riusciamo a ingurgitare più nulla. Ma questo non è concepibile nella nostra cultura, in cui l’idea di essere “informati” è considerata come una condizione sempre più virtuosa. Il problema non è la mancanza di dati di fatto, ma che la nostra capacità di discernerli si sta affievolendo e rischia l’estinzione.

Il novanta per cento di ciò che chiamiamo “notizie” è solo pietismo stereotipato, un processo tautologico per mezzo del quale l’emozione stessa di chi legge diventa “la storia”. In migliaia intervengono su Twitter, nelle piazze o in Parlamento per «mostrare solidarietà con le vittime». Ma i fatti della “storia” non hanno un significato oggettivo in sé: il significato è generato dall’appropriazione della “storia” da parte di coloro che ne diventano gli utenti. Noi siamo la “storia”.

Per di più, è diventato quasi impossibile estrarre dei significati dalla società mediatica contemporanea, perché non siamo in grado di dire quanto di ciò che ci viene detto sia informazione grezza, non manipolata, quanto sia propaganda e addirittura quanto sia vero. In queste circostanze non dovremmo sottovalutare la possibilità che le cose ci vengano dette allo scopo di manipolarci, e che ci vengano dette solo le cose che servono a tale scopo.

È così che si è arrivati alla cosiddetta “società della post-verità” e al problema delle fake news, le “bufale” che girano in rete. Se ne parla tantissimo. Ma forse la realtà è che non sono altro che le inevitabili conseguenze di fenomeni a cui noi non abbiamo prestato abbastanza attenzione, perché abbiamo smesso di comprendere il “meccanismo” del nostro stesso funzionamento.

Si dice che ormai non esista più una vera evidenza. Ma l’altra faccia del problema può benissimo stare nel fatto che ci sono troppe evidenze, e quindi nessuna possibilità di coerenza. E questa mancanza di coerenza è un problema radicato non nell’evidenza stessa, ma nei mezzi di apprendimento che abbiamo a disposizione - noi che siamo gli utenti e aspiranti elaboratori dell’evidenza. Il “crollo della ragione”, a sua volta, non è esclusivamente un fenomeno intrinseco all’individuo, ma è inevitabilmente collegato alla disintegrazione, all’esterno, di una struttura di convinzioni condivise. Abbiamo un problema che i nostri nonni non avevano: venuta a mancare l’impalcatura di una consapevolezza comune, siamo sempre meno capaci di un giudizio che ci potrebbe condurre al significato.



Ma alla radice di tutto, all’origine di questo crollo della ragione umana, c’è la negazione di quella che don Giussani chiamava «la realtà totale», che è l’unica vera fonte di coerenza su cui possiamo fare affidamento. La nostra immaginazione è stata oscurata dal dualismo: abbiamo separato il Mistero da ciò che noi consideriamo come il “razionale” o persino “il reale”.

Alla persona umana è accaduto qualcosa (o meglio, più di una cosa) che non è stata compresa o spiegata. Non è una questione filosofica, e nemmeno teologica. È un problema concreto che, paradossalmente, si radica nell’assenza di concretezza. L’Illuminismo ha provocato una dissociazione del pensiero dai sensi, dal “sentire e vedere e toccare e gustare e odorare”: gli strumenti che usiamo da sempre per scoprire la realtà si sono quasi atrofizzati a causa di un uso improprio. Abbiamo inventato sensazioni fatte apposta per distrarre i nostri sensi, ma al tempo stesso abbiamo smesso di utilizzarli per lavorare e coinvolgerci nella realtà. In un certo senso (!), noi usiamo i nostri sensi solo in maniera accidentale, o inconsapevole.
Per i nostri nonni, i sensi erano fondamentali non solo per il loro quotidiano coinvolgimento fisico con le cose, ma anche per i loro pensieri: quello che pensavano e sapevano veniva dal loro modo di stare nel reale, da ciò che toccavano, vedevano eccetera. Noi, invece, siamo stati allontanati dalla realtà; la nostra conoscenza ci arriva di terza o di quarta mano. La tecnologia ci dà l’illusione di manipolare la realtà, ma si tratta di una manipolazione sempre più remota, nella quale i sensi si stanno rapidamente atrofizzando.

«L’Illuminismo ha provocato una dissociazione del pensiero dai sensi, dal “sentire e vedere e toccare e gustare e odorare”: gli strumenti che usiamo da sempre per scoprire la realtà si sono quasi atrofizzati a causa di un uso improprio»

Gli strumenti sono stati inventati dall’uomo, spesso con notevole ingegno, per estendere la sua possibilità di incidere sul mondo. Ma certi strumenti tecnologici non sono affatto la stessa cosa. Per affermare la propria autonomia in un mondo che diventa sempre più incomprensibile, gli esseri umani spesso finiscono con il diventare parte delle tecnologie di cui si servono. In altre parole, accettano di farsi schiavi di ciò che viene sbandierato come la loro liberazione.

Quando il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges si rese conto che stava diventando cieco, trascorse parecchi mesi passeggiando per Buenos Aires, memorizzando ogni cosa e trasferendo il compito del “vedere” dai suoi occhi al suo bastone da passeggio. Quando divenne cieco, continuò a “vedere” col suo bastone, la memoria, l’attenzione e l’immaginazione. Nessuna macchina avrebbe potuto assisterlo utilmente in questa impresa senza renderlo un “invalido” (parola interessante, peraltro...).
Io raccomando calorosamente la lettura di uno scrittore americano che si chiama Matthew Crawford, autore di The Case for Working With Your Hands. In Italia è uscito come Il lavoro manuale come medicina dell’anima (Mondadori 2010), ma probabilmente il titolo migliore è quello francese: Éloge du carburateur.

Lo scrittore americano Matthew Crawford, filosofo e meccanico di moto

Motivo? Crawford è un filosofo e - attenzione! - un meccanico di motociclette; il suo testo è un avvincente miscuglio di esperienza personale e teoria filosofica. Il suo tema dominante è l’idea che la libertà e la ragione umana risiedano idealmente in un “io situato”, che la piena realizzazione dell’uomo avvenga nell’interazione col mondo, con la specificità degli oggetti e dei contesti, mediante abilità come la meccanica, la falegnameria, la scultura, eccetera. Quindi, lui sostiene che col declino della manodopera qualificata sia andato perduto qualcosa di fondamentale. Anzi, secondo lui la perdita della ragione nella nostra epoca si è radicata proprio nel distacco dalla realtà che caratterizza la maggior parte dei lavori.

Crawford parla in modo brillante dell’unità con la realtà che diventa possibile non solo nell’aggiustare la sua moto, ma anche nel guidarla. L’abilità con cui prendi una curva, per esempio, dipende dalla tua conoscenza di come la moto si comporta ad alta velocità, e da come questa conoscenza permea il tuo corpo. Come tutti i grandi critici e pensatori, è convinto che esista qualcosa di più dell’“ovvio” che salta agli occhi. Per esempio, è costantemente attento a ogni cigolio, perché può indicare un problema di sottosterzo o che un giunto si è allentato. Non gli basta sapere ciò che bisogna sapere, ma cosa si dovrebbe sapere e come questa conoscenza si rapporta con la struttura delle cose reali, col loro vero scopo, il loro funzionamento. E questa è fondamentalmente un’impresa morale. «Per gli esseri umani», scrive, «gli arnesi rimandano alla necessità di una ricerca morale. Dal momento che la natura ci fornisce solo ricette ambigue, noi siamo costretti a chiederci: cosa è buono?».

Crawford guarda anche a quali ricadute possono avere le Grandi Idee dell’Illuminismo, trasformandosi in riflessi culturali. Ci siamo rintanati nella nostra testa, distogliendo la nostra attenzione dal mondo, e staccandoci così dalla concretezza delle cose e delle altre persone, convinti che la verità e la comprensione siano fenomeni soggettivi che spunteranno, volenti o nolenti, nella nostra testa. Ma non è così.

Gesù era un falegname. Noi lo dimentichiamo, o almeno dimentichiamo il significato del lavoro a cui si è dedicato per tutta la sua vita adulta, il mestiere che ha imparato dal suo padre putativo Giuseppe. Lui ha scelto di venire in un tempo in cui poteva essere un falegname invece, per esempio, di aspettare finché potesse diventare un inventore di algoritmi. Non ci ha lasciato nessuna descrizione del suo lavoro o la sua opinione su di esso, ma credo che possiamo tranquillamente presumere che la sua visione non fosse molto lontana da quella del suo grande discepolo Charles Péguy. Lavorare, scrive Péguy in Il denaro, è pregare: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura».

«Gesù era un falegname. E un falegname deve usare i suoi sensi per accumulare informazioni ed evidenze che gli permettano di comprendere una situazione o un problema. Usa i suoi attrezzi come estensione del suo essere; non per separarsi dalla realtà, ma per approfondire il suo approccio a essa»

Noi parliamo dell’“eccezionalità” di Gesù, ma raramente andiamo molto oltre nel definire cosa intendiamo. Un aspetto è sicuramente l’idea che coloro che Lo incontravano in carne e ossa erano affascinati da Lui, e se ne andavano così impressionati che non parlavano d’altro per giorni o settimane. Un altro aspetto è il modo in cui Gesù affrontava sempre i problemi, con modalità inaspettate, rifuggendo l’ovvietà a favore di una logica fondata su un modo di pensare che talvolta può apparirci contrario alla normale intuizione. La parabola del Figliol prodigo ne è un esempio: la “morale” o la storia non esalta un principio o un’etica, ma una comprensione pratica dei rapporti umani.

Tra le tante cose che possiamo dire di Gesù, però, c’è anche che quella che vediamo in Lui è la percezione della realtà di un falegname. Ovvero, basata sul vivere dentro le situazioni umane, e capace di vederle in modo simile a come Lui guardava i suoi attrezzi da lavoro e i materiali: realtà che gli parlavano di una logica che non era immediatamente ovvia. Un falegname deve usare i suoi sensi per accumulare informazioni ed evidenze che gli permettano di comprendere una situazione o un problema. Usa i suoi attrezzi come estensione del suo essere; non per separarsi dalla realtà, ma per approfondire il suo approccio a essa.

Questo non spiega tutto del modo in cui Gesù pensava o parlava, ovvio: ma è una modalità utile per definire una dimensione nella quale Lui era del tutto diverso dagli altri. Un falegname deve guardare, toccare, intuire. I suoi materiali hanno vita propria, non rispondono alle regole dell’artigiano. Sono il suo maestro, e lui è condizionato dai loro capricci ed eccentricità.

Essere un falegname, o un meccanico di motociclette, non è solo un modo di pensare: è un modo di essere. Da riscoprire.