Carrón: «Se non pensiamo che Francesco sia la cura è perché non capiamo la malattia»

Il Papa e il cammino della Chiesa nel «cambiamento d'epoca» che viviamo. A pochi giorni dall'uscita della traduzione inglese de La bellezza disarmata, la traduzione dell'intervista del vaticanista Usa John Allen alla guida di CL (da "Crux")
John L. Allen e Ines San Martin

Anche se molti cattolici, in particolare quelli più conservatori, trovano spesso papa Francesco un po’ provocatorio per il sistema, il responsabile dell’influente movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione afferma che se non pensiamo che il Papa sia la cura, è perché non capiamo la natura della malattia che ci troviamo ad affrontare nel mondo secolarizzato della post-modernità.

Meglio di molti altri, probabilmente, don Julián Carrón, succeduto al carismatico sacerdote italiano don Luigi Giussani alla guida dell’influente movimento di Comunione e Liberazione, il cui bacino naturale è quello del mondo cattolico più conservatore, ha compreso che papa Francesco può rappresentare una scossa per il sistema.
Per questo è un fermo sostenitore di Francesco, e insiste nell’affermare che se non pensiamo che questo Papa sia la cura, è perché non capiamo la natura della malattia che ci troviamo ad affrontare nel mondo secolarizzato della post-modernità.

«A volte non capiamo certi gesti del Papa perché non capiamo fino in fondo le implicazioni di ciò che egli definisce un “cambiamento di epoca”», ha detto Carrón a Crux lunedì scorso.

«È come considerare un tumore come un semplice caso di influenza, così che l’idea di curarsi con la chemioterapia sembrerebbe troppo drastica» ha aggiunto. «Ma una volta che abbiamo capito la natura della malattia, ci rendiamo conto che non saremo in grado di sconfiggerla con l’aspirina».

Nella sua abitazione milanese, tra gli altri argomenti, Carrón ha parlato con Crux dell’edizione in lingua inglese del suo libro La bellezza disarmata (Disarming Beauty) sulla natura dell’«avvenimento» cristiano.

«I cambiamenti che stiamo attraversando sono così radicali, così senza precedenti, che capisco perché tante persone non comprendano ancora cosa stia accadendo, o i gesti di papa Francesco», ha affermato. «Ma se non comprendiamo questi gesti adesso, li capiremo quando ci renderemo conto delle conseguenze che stanno producendo».

Carrón sostiene che ciò che è accaduto nella modernità è il fatto che le persone hanno perso di vista cosa significhi essere uomini; la crisi dunque è molto più profonda che non il semplice rifiuto di questo o quel precetto morale, e ciò di cui c’è bisogno oggi non sono richiami morali o argomenti teologici, ma il potere di attrazione che ha una vita cristiana vissuta pienamente.

«Vedo che molte persone sono turbate e imbarazzate dal Papa, proprio come le persone lo erano da Gesù nel suo tempo – e in particolare, ricordiamolo, le persone più “religiose”», dichiara. «Per esempio i Farisei, che non vedevano tutto il dramma della situazione degli uomini che avevano davanti, volevano un predicatore che semplicemente dicesse agli uomini cosa dovevano fare, imponendo loro dei pesanti fardelli».

«Tutto ciò non bastava a far ripartire l’umanità, poi venne Gesù, che entrò in casa di Zaccheo senza chiamarlo ladro e peccatore; questo avrebbe potuto sembrare una debolezza. Invece nessuno sfidò Zaccheo come fece Gesù», ha detto Carrón.

«Tutti quelli che avevano condannato la sua condotta di vita non lo avevano smosso, di un millimetro dalla sua posizione. È stato quel gesto totalmente gratuito di Gesù che riuscì dove gli altri avevano fallito», ha dichiarato.
Fondato da Giussani nel 1954, Comunione e Liberazione è un movimento ecclesiale laico nella Chiesa Cattolica; è particolarmente diffuso in Italia, ma è presente oggi in circa ottanta paesi nel mondo. Ha avuto illustri estimatori negli anni, tra questi il papa emerito Benedetto XVI, che celebrò le esequie di Giussani e che ha quali collaboratrici domestiche alcune donne del gruppo di CL dei Memores Domini.

Nato in Spagna e per molto tempo accanto a Giussani, Carrón ha assunto la guida di Comunione e Liberazione nel 2005, dopo la morte del fondatore.

Lungi dal percepire una frattura tra Francesco e i suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Carrón insiste nell’affermare che Francesco incarna oggi la “radicalizzazione” di Benedetto.

«Dice le stesse cose, ma in una forma che raggiunge chiunque, semplicemente attraverso i gesti, senza per questo ridurre in alcun modo la profondità di ciò che ha detto Benedetto», ha affermato.

In sostanza, il libro di Carrón è una sintesi della visione della vita cristiana proposta da Giussani, così come è stata amplificata da ognuno dei tre ultimi Pontefici. L’idea chiave è che il cristianesimo è una «bellezza disarmata», ossia un modo di vivere che si impone attraverso nessun altro potere se non quello dell’attrattiva che esso ha in sé.

«Volevo mostrare che il potere della fede sta nella sua bellezza, nella sua attrattiva. Non ha bisogno di nessun altro potere, di nessun altro strumento o di circostanze particolari per risplendere, così come le montagne non hanno bisogno di nient’altro per toglierci il respiro».

Il titolo Disarming Beauty è una risposta esplicita al terrorismo e alla violenza di matrice religiosa?
È una risposta esplicita a un modo di vedere la fede, a partire da ciò che la rende unica. San Paolo una volta definì ciò che Dio realizzò nel farsi uomo come uno “spogliarsi” della sua divinità, del suo potere divino. Gesù è apparso nella storia spogliato di ogni sorta di potere, con il solo splendore della sua verità che emanava dalla sua persona, dal suo modo di agire, di guardare, di entrare in rapporto con gli altri, la sua misericordia, la sua capacità di abbracciare le persone e condividere la loro vita, di condividere le ferite degli altri. Tutta la potenza del suo amore per noi è passata attraverso la sua “umanità disarmata”.

Uno dei saggi nel libro è stato scritto subito dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi; in esso lei afferma che la sfida è creare uno spazio per «un incontro reale tra proposte di significato, pur diverse e molteplici». Può spiegarci a che cosa si riferisce?
Tantissime persone sono alla ricerca di un significato per la loro vita, di una ragione per andare al lavoro, per creare una famiglia, per affrontare la realtà, e spesso non la trovano e cercano di sfuggire in modi diversi. La questione fondamentale è questa: in un momento in cui il valore assoluto per noi moderni è la libertà, la sola possibilità di non ricadere nella forza per limitare la libertà altrui è che vi sia uno spazio in cui le persone si possano incontrare liberamente, per condividere il significato della vita, ciò che ognuno pensa che significhi vivere pienamente. Se ciò non accade, allora il vuoto che rimane finisce per generare conflitti.
Le persone non possono vivere senza un significato, e se rimane il vuoto finiremo per generare persone che prima o poi subiranno la tentazione della violenza… a casa, sul lavoro, e in qualche caso finiranno nel terrorismo. Il problema è come rispondere alla mancanza di significato che molte volte vediamo nella società oggi. Possiamo venirne fuori solo in una società libera, in uno spazio libero, in cui le persone possano incontrarsi e confrontarsi riguardo alle forme con cui ognuno sceglie di vivere, e su come sia possibile fare scelte diverse.

Lei dice che stiamo sperimentando una «profonda crisi dell’umano». Crede che anche papa Francesco abbia la stessa percezione, e come le sembra che egli stia cercando di rispondervi?
Egli è profondamente consapevole che la prima questione riguarda la natura della crisi, perché essa viene spesso ridotta semplicemente a una crisi economica, o a un problema di valori, mentre è molto più profonda. Riguarda ciò che ci rende uomini, la passività che vediamo in molti giovani che sembrano non avere le motivazioni neppure per lasciare la casa…

È quello che Giussani chiamava «effetto Černobyl», giusto? È come se una sorta di radiazioni avesse svuotato le persone di significato.
Esatto, questo svuotamento dell’umanità, che lascia le persone incapaci di provare un interesse vero per qualcosa. È un problema che ha la sua radice nell’indifferenza, nell’apatia. Troppo spesso cerchiamo di rispondervi con delle regole, delle procedure, per cercare almeno di limitare la violenza che spesso nasce da questa indifferenza. Ma tutto ciò risponde alle conseguenze, non va alla radice del problema. Finché non rispondiamo ai bisogni reali delle persone, risvegliando la loro capacità di trovare un significato che renda la vita vivibile, inevitabilmente non risponderemo alla reale natura della crisi, le cui radici stanno in questa riduzione di ciò che significa essere uomini.
Questo è il motivo per cui sono ottimista, perché sono convinto che il cristianesimo può offrire il suo contributo più grande proprio in questa situazione. Cristo ha cominciato tutto incontrando delle persone che guardando a lui si sono trovate a dire: «Non abbiamo mai visto nulla di simile», e lo hanno seguito. Non c’era alternativa alla sua presenza, e quell’incontro ha dato inizio alla più grande rivoluzione della storia. La sola questione è se siamo consapevoli di quale incredibile grazia noi abbiamo in quanto cristiani.

Come, secondo lei, papa Francesco porta avanti questa idea della fede come un’esperienza che si radica in un incontro?
Egli è capace di presentarla nel modo più semplice, attraverso i gesti che compie, la sua attenzione alle persone, il modo con cui parla con chiunque. Conduce le persone a capire nel modo più semplice, con i gesti, nello stesso modo con cui Gesù si rendeva comprensibile attraverso i gesti.
È difficile aiutare le persone a comprendere tutte le dimensioni di fenomeni come l’immigrazione, per esempio, ma quando lui è andato a Lampedusa ha reso tutto visibile in un istante, era impossibile non capire cosa stava dicendo. Ci ha fatto sentire il desiderio di capire da dove veniva tutto ciò. Lo stesso accade quando si accosta a qualcuno che ha problemi sul lavoro, o che ha bisogno di perdono. È come Gesù, che si trovava di fronte a tutte le ferite del suo tempo e rispondeva a quelle ferite.

Eppure sembrerebbe che alcuni non capiscano il Papa, o forse non sono d’accordo con lui. Ha citato Lampedusa… il sindaco del comune, che era famoso in tutto il mondo per la sua azione di accoglienza dei rifugiati, è stato appena sconfitto alle elezioni, arrivando terzo.
I cambiamenti che stiamo attraversando sono così radicali, così senza precedenti, che capisco perché tante persone non comprendano ancora cosa stia accadendo, o i gesti di papa Francesco. Ma se non comprendiamo questi gesti adesso, li capiremo quando ci renderemo conto delle conseguenze che stanno producendo.
Se cominceremo davvero a prendere sul serio il problema dell’immigrazione, il problema della povertà, le difficoltà di moltissime persone ferite, sole, bisognose di misericordia, ciò porterà a un certo clima sociale, e allora vedremo le conseguenze, in un modo che nemmeno immaginiamo. Per esempio, quando il Papa usa il termine «muri», si riferisce a situazioni che solo dieci o quindici anni fa sarebbero state inimmaginabili. Voglio dire, un muro nel cuore dell’Europa più di vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino?
La nostra capacità di comprendere [il Papa] dipende dalla nostra capacità di comprendere la natura della sfida che abbiamo davanti. A volte non capiamo certi gesti del Papa perché non capiamo fino in fondo le implicazioni di ciò che egli definisce un «cambiamento di epoca». È come considerare un tumore come un semplice caso di influenza, così che l’idea di curarsi con la chemioterapia sembrerebbe troppo drastica. Ma una volta che abbiamo capito la natura della malattia, ci rendiamo conto che non saremo in grado di sconfiggerla con l’aspirina.

Nel libro lei passa disinvoltamente dal citare Giovanni Paolo II a Benedetto, a Francesco. Spesso questi tre Papi sono messi in contrapposizione l’uno con l’altro, me lei sembra vedere una grande continuità fra loro.
Vedo una grande armonia, anche se ognuno di essi ha dovuto affrontare tempi diversi. È ciò che il cristianesimo ha sempre fatto. Ognuno ha affrontato un insieme di condizioni storiche in cui la vita cristiana era chiamata a svilupparsi, e ogni epoca reca un diverso insieme di sfide a cui il cristianesimo è chiamato a rispondere concretamente. Giovanni Paolo II ha stupito tutti con la sua capacità di comunicare. Sembrava difficile trovare un altro come lui, e poi è arrivato Benedetto che ha colpito tutti per la sua intelligenza, la sua capacità di discernimento e di mettere in luce certi temi in un modo che nessun altro avrebbe potuto fare.
Dopo Benedetto, ancora una volta sembrava che non potesse esserci nessun altro come lui. Invece è arrivato un Papa che a mio parere è la radicalizzazione di Benedetto. Dice le stesse cose, ma in una forma che raggiunge chiunque semplicemente attraverso i gesti, senza per questo ridurre in alcun modo la profondità di ciò che ha detto Benedetto. Mi sembra che tutti e tre siano andati alla radice delle cose, non sono rimasti alla superficie, ma sono andati al cuore di ciò che stava concretamente accadendo nel loro tempo.
In questo senso, c’è un’armonia che colpisce anche tanti laici, ed è la capacità che la Chiesa sembra avere di dare un contributo nuovo e originale per affrontare le nuove sfide che ha di fronte. In questi tre Papi ne abbiamo un chiarissimo esempio: ognuno di loro, nel suo momento storico, ha saputo rispondere alle sfide di quel momento.

Lei non ama le etichette politiche, ma sa bene che Comunione e Liberazione ha una grande reputazione nella Chiesa, specialmente tra i cattolici più “conservatori”. Alcuni di questi sono oggi preoccupati riguardo a papa Francesco, pensano che egli stia in un certo senso “riducendo” le cose, mettendo da parte o minimizzando la dottrina tradizionale. Cosa si sentirebbe di dire per tranquillizzarli?
La prima cosa che direi è che dobbiamo partire dal riconoscere la reale natura della sfida che abbiamo di fronte. Non possiamo comprendere pienamente l’azione di papa Francesco, se non comprendiamo la natura di ciò che si sta verificando, questo «cambiamento di epoca». Se la nostra diagnosi non tiene conto di questo, non potremo cogliere l’importanza di certi gesti di questo Papa. Se cominceremo a capire la profondità della crisi, invece, allargheremo i nostri orizzonti e cominceremo a vedere certi gesti come una risposta profetica a questa nuova situazione.
Vedo che molte persone sono turbate e imbarazzate dal Papa, proprio come le persone lo erano da Gesù nel suo tempo – e in particolare, ricordiamolo, le persone più “religiose”. Per esempio i Farisei, che non vedevano tutto il dramma della situazione degli uomini che avevano davanti, volevano un predicatore che semplicemente dicesse agli uomini cosa dovevano fare, imponendo loro dei pesanti fardelli. Tutto ciò non bastava a far ripartire l’umanità, poi venne Gesù, che entrò in casa di Zaccheo senza chiamarlo ladro e peccatore; questo avrebbe potuto sembrare una debolezza. Invece nessuno sfidò Zaccheo come fece Gesù, soltanto con l’entrare in casa sua. Tutti quelli che avevano condannato la sua condotta di vita non lo avevano smosso di un millimetro dalla sua posizione. È stato quel gesto totalmente gratuito di Gesù che riuscì dove gli altri avevano fallito.
Che cosa occorre per cambiare una società come quella in cui viviamo? Il metodo usato da Gesù con Zaccheo. [Con papa Francesco] dobbiamo ricordarci del modo con cui molte persone perbene, sinceramente religiose, hanno reagito a Gesù. Per loro, il modo con cui Gesù operava era una sorta di scandalo, nel senso più forte del termine, un ostacolo a credere.

Sta dicendo che quei fedeli cattolici che criticano papa Francesco, per esempio riguardo alla Amoris Laetitia, non hanno capito che cosa è in gioco nella cultura di oggi?
Credo di sì. Credo che ciò che manca oggi sia una comprensione profonda della sfida che dobbiamo affrontare sul piano umano. A volte i critici vorrebbero che il Papa ripetesse certe frasi, certi concetti, ma essi sono vuoti per molte persone, e lo sono da molto tempo. Oppure vorrebbero delle regole da seguire, come se ciò potesse guarire la persona, o potesse condurre qualcuno a “verificare” la fede nella propria esperienza. Il problema che abbiamo tutti, noi compresi, è che spesso non siamo capaci di trasmettere la fiducia nel futuro ai nostri colleghi di lavoro, ai nostri amici. Solo se saremo audaci nel riconoscere la situazione, senza sentire sempre il bisogno di difenderci, forse impareremo qualcosa.

È chiaro che ciò che preoccupa certe persone è il fatto che quando Gesù incontrò Zaccheo, il punto era di portarlo a cambiare il suo cuore. Oggi, ad alcuni sembra che il Papa, e con lui certi preti e vescovi, si impegnino in un “incontro” senza la stessa aspettativa che vi sia una conversione dagli errori.
La conversione non dipende dal gesto, dipende da noi. Quando andiamo a incontrare un ladro, noi portiamo noi stessi a quell’incontro. Gesù non ha avuto problemi ad andare a casa di Zaccheo, senza bisogno di spiegargli tutta la sua teologia o le regole morali. È andato perché la verità si incarnava nella sua persona. Il problema è: che persone incontra chi ci incontra? Se quello che incontrano in noi è semplicemente un manuale di cose da fare, lo conoscono già e non sono capaci di metterlo in pratica. Ma se si trovano davanti una persona che offre loro amore, cominceranno a desiderare di andar dietro a quella persona e di essere come lei, che è ciò che è accaduto con Gesù.

Credo che molti sarebbero d’accordo sul fatto che non bisogna partire dalle regole, ma ciò che preoccupa la gente è se arriveremo mai ad esse.
Se una persona si innamora, a un certo punto questo avviene naturalmente. Quando uno si sposa, ed è realmente innamorato, è naturale desiderare di pulire la casa, di cucinare un buon pranzo, e così via. Il problema oggi è che le persone non stanno incontrando qualcuno per il quale abbia senso impegnarsi fino a questo punto. Un codice etico non è questo genere di incontro.

Concretamente, moltissime persone ispirandosi a papa Francesco oggi affermano che la Chiesa deve accompagnare il mondo LGBT, per esempio, o i fedeli divorziati risposati civilmente, e noi lo facciamo regolarmente. Ma quello che i critici dicono è: tutto questo non dovrebbe spingersi sino al punto di dire loro che la loro condotta deve cambiare?
Risponderò con un esempio. Troppo spesso pensiamo che l’alternativa sia di non dire niente o di essere ambigui. Io ho conosciuto un gruppo di coppie, famiglie, che coinvolge 18 o 20 famiglie; nessuna di queste coppie era sposata, per diverse ragioni, a volte anche comprensibili. Alcune famiglie appartenenti a Comunione e Liberazione hanno cominciato a trascorrere del tempo con loro, senza dire niente riguardo alla loro situazione “irregolare”. Col passare del tempo, si sono sposate tutte! Si sono trovate davanti persone che vivevano la vita di famiglia in un modo che non poteva lasciarle indifferenti. Alla fine, si sono sposate tutte non perché qualcuno ha spiegato loro le regole o la dottrina cristiana sul matrimonio, ma perché non volevano perdere quello che vedevano vivere da quelle altre famiglie.
Nel cristianesimo, la verità si è fatta carne. Il solo modo che abbiamo per comprendere fino in fondo questa verità fatta carne è incontrando e guardando un testimone. Tutta la liturgia del Natale riguarda la pienezza di Dio che si rende visibile. Se non si fosse reso visibile, non l’avremmo mai capito… questa è la grande sfida.
È inutile chiedere agli altri se essi sono tutto quello che dovrebbero essere. La vera questione è: noi siamo convinti testimoni della fede? Crediamo ancora nella bellezza disarmata della fede? Una persona innamorata sa cosa fare, e uno si innamora incontrando qualcuno. Questo è ciò che fa dell’esperienza di Gesù una “rivoluzione copernicana” per l’umanità.


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Recentemente Rod Dreher ha sostenuto che i cristiani dovrebbero abbandonare le guerre culturali in Occidente perché le abbiamo già perse, e il massimo che possiamo sperare è l’«opzione Benedetto», ossia la conservazione di piccole isole di fede in un contesto di cultura ostile e decadente. Lei sembra sostenere che dovremmo lasciarci alle spalle le guerre culturali, senza rinunciare a quelle posizioni, ma per un motivo differente.
Certo, assolutamente. Mi ha sempre colpito la contrapposizione tra il cercare di trasformare il cristianesimo in una religione civile e il cercare di renderlo qualcosa di totalmente privato. Per me è come cercare di correggere il disegno di Dio. Mi domando, chi avrebbe mai scommesso che Dio avrebbe incominciato a comunicarsi al mondo attraverso la chiamata di Abramo? Era la modalità più inverosimile, sconcertante, di procedere che si sarebbe potuta immaginare.
La scelta non può ridursi a quella tra la guerra tra culture e un cristianesimo svuotato di contenuto, perché nessuna di queste due ipotesi ha nulla a che vedere con Abramo e la storia della salvezza. Abramo fu scelto da Dio per incominciare a introdurre nella storia un nuovo modo di vivere, che potesse nel tempo generare una realtà visibile in grado di rendere la vita degna, piena.
Se Abramo fosse qui oggi, nella nostra situazione di minoranza, e andasse da Dio a dirgli: «Nessuno mi dà ascolto», cosa gli direbbe Dio? Lo sappiamo benissimo cosa gli direbbe: «È per questo che ti ho scelto, per cominciare a porre nella realtà una presenza capace di far vedere – anche se nessuno vi crede – che io farò di te un popolo così numeroso che la tua discendenza sarà numerosa come le stelle del cielo».
Quando Egli mandò suo figlio nel mondo, spogliato del suo potere divino per farsi uomo, fece la stessa cosa. Come ha detto san Paolo, egli è venuto per darci la capacità di vivere la vita in un modo nuovo. Questo è ciò che genera una cultura. La domanda per noi è se la situazione in cui ci troviamo oggi ci offre l’opportunità di ritrovare l’origine del disegno di Dio.

Lei sembra abbastanza ottimista sul fatto che ciò sia possibile.
Assolutamente sì. Sono totalmente ottimista, per la natura stessa della fede. Il mio ottimismo si basa sulla natura dell’esperienza cristiana. Non dipende dalla mia capacità di lettura della realtà, dalla mia diagnosi della situazione sociologica. Il problema è che per essere in grado di ripartire da questo punto di partenza assolutamente originale dobbiamo ritornare alle radici della fede in sé, quello che Gesù ha detto e fatto.
Se c’è un motivo di pessimismo, sta nel fatto che troppe volte abbiamo ridotto il cristianesimo o a una serie di valori, a un’etica, o semplicemente a un discorso filosofico. Questo non è attraente, non ha il potere di affascinare nessuno. Le persone non percepiscono la forza di attrazione del cristianesimo. Ma proprio perché la situazione che stiamo vivendo oggi è così drammatica, da ogni punto di vista, paradossalmente è più facile proporre la novità del cristianesimo.

Se guardiamo all’Europa oggi, sta crescendo una nuova generazione che di fatto non è stata coinvolta nelle vecchie battaglie che hanno visto contrapposti religione e secolarismo; sono persone cresciute in una cultura abbondantemente post-religiosa, e di conseguenza spesso guardano a questo fenomeno non con animosità, ma piuttosto con curiosità. Tutto questo configura una nuova fase per l’evangelizzazione?
Sì, c’è una nuova fase. La domanda è se noi cristiani sapremo trarre vantaggio da questa opportunità per capire noi per primi che cosa è davvero la fede, cosa significa essere cristiani, perché essere cristiani dovrebbe essere interessante per noi e per gli altri. Dobbiamo approfondire questo punto indipendentemente dalla preoccupazione per i numeri, e proiettarci unicamente sulla pienezza dell’esperienza che Cristo pone nella nostra vita.
Penso a un’espressione che Giussani usava spesso, parlando della fede; diceva: «La fede è un’esperienza presente, dove trovo nella mia esperienza personale la conferma della sua convenienza umana». Senza di ciò, la fede non sarà in grado di resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario rispetto a noi.

Dunque la sua strategia per l’evangelizzazione all’inizio del XXI secolo è vivere la fede in una maniera tale che questa «esperienza di conferma» possa verificarsi, e poi gradualmente introdurre gli altri a questa forma di vita?
Quando un cristiano vive la fede con questo genere di gioia, con questa pienezza, è evidente che quando si reca al lavoro, o sta con gli amici, o è in aeroporto, gli altri vedranno questa novità in lui. Se arrivi al lavoro alle 8 del mattino, e nel tuo posto di lavoro trovi un collega che sta cantando, che ti abbraccia e condivide con te le tue debolezze e difficoltà, ti viene da chiedere: «Che cos’è che ti fa arrivare al lavoro cantando alle 8 di mattina?».
Questo comunica il cristianesimo molto di più di tante altre cose, più di tutte le motivazioni etiche, perché quando uno vede qualcosa del genere, gli viene naturalmente da chiedere: «Da dove viene questa gioia? Da dove viene questa pienezza di vita?». Uno può non pensare immediatamente che l’origine di questa felicità si chiami Gesù Cristo, che si chiami fede. Ma quando si comincia a capire che questa sorprendente modalità di vivere nel mondo reale, così felice, così lieto, ha la sua radice nella fede, allora diventa interessante.
Il cristianesimo, in sintesi, si comunica vivendolo. T.S. Eliot una volta chiese: «Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?». Per noi è il contrario; noi guadagniamo la vita vivendo nella fede. Se non sarà così, non saremo interessanti per nessuno, neppure per noi. In altri termini, è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?

Proporre non una serie di teorie, ma una modalità di vita?
È un’esperienza di vita.

Papa Francesco parla spesso del creare una «cultura dell’incontro», e il concetto di incontro era fondamentale anche per Giussani. Guardando la Chiesa oggi, quali sono gli esempi di una «cultura dell’incontro» che la colpiscono maggiormente?
Sono sempre colpito dagli esempi di creazione di spazi per l’incontro tra persone totalmente diverse fra loro. Per esempio, qui a Milano noi [Comunione e Liberazione] gestiamo un doposcuola, un centro, in cui gruppi di docenti – alcuni appartenenti al Movimento, altri no – offrono il loro tempo libero per aiutare ragazzi che hanno problemi a scuola. Tra i ragazzi vi sono italiani, immigrati, fedeli di diverse religioni, per lo più cattolici o musulmani, e lì si vede uno spazio di incontro. Vengono da situazioni diversissime, e trovano lì un posto dove la loro umanità rinasce.
Una volta, un ragazzo è arrivato con una barra d’acciaio nello zaino; in circostanze diverse sarebbe stato trattato come un terrorista. Ma stando con quella gente, si è liberato di tutta la sua aggressività, e addirittura è diventato uno dei responsabili di quell’iniziativa. Questo è il potere dell’incontro.

Conosce anche esempi al di fuori del vostro movimento?
Beh, ovviamente non conosco tutto il mondo, ma qualche esempio posso portarlo. Frequento talvolta delle parrocchie a Roma e Milano, ed è possibile vedere quanto questo spirito di incontro sia vivace in esse. Conosco un sacerdote qui a Milano che è in rapporto con alcuni detenuti. Ha una impressionante capacità di coinvolgersi con loro, in un modo che li aiuta a ricostruire la loro vita.
Poi c’è l’esperienza delle APAC in Brasile, questa rete di carceri senza guardie e senza armi, in cui il tasso di recidività di reato, che nelle prigioni normali è intorno all’80%, scende al 15%. Si può pensare che sia un’illusione, che in realtà così non si faccia che incoraggiare la criminalità. Al contrario, è un esempio di ciò che accade quando c’è un incontro reale. Tutto ciò che va contro la vera umanità, presto o tardi svanisce.
Per esempio, c’era un detenuto che era scappato da un numero imprecisato di carceri, e che casualmente è arrivato a una di queste APAC, e non ha più tentato di scappare. Un giudice è rimasto così colpito da questa storia che ha voluto andare alla prigione per chiedergli: «Perché non hai tentato di scappare?». E il detenuto ha risposto: «Perché dall’amore non si fugge».
A volte il nostro problema è che non crediamo più in certe cose. Di fatto pensiamo che qualsiasi altra soluzione, anche violenta, sia più efficace del potere dell’amore.

Sta dicendo che alla fine il nostro «realismo» non è poi così realistico.
Questo è certo. Abbiamo dato per scontato che certe cose sono un’illusione, e abbiamo perso l’unica opportunità di andare veramente al fondo del cuore di ciascuno. Ancora una volta, questo è ciò che mi rende ottimista – la fede è efficace!
Come disse papa Benedetto XVI qualche anno fa, c’è ancora un’opportunità per il cristianesimo oggi, in questo mondo? Rispose di sì, perché il cuore dell’uomo ha bisogno di qualcosa che solo Cristo può dare. La capacità di corrispondere al vero desiderio ultimo dell’uomo è ciò che renderà il cristianesimo attraente.

Lei sembra anche dire che dobbiamo avere coraggio in questo senso, non avere paura di sfidare l’opinione comune in questo mondo.
Ciò di cui non possiamo accontentarci è un cristianesimo ridotto, un po’ ambiguo, pensando che questa sia la via per incontrare tutti. No, dobbiamo viverlo coraggiosamente, pienamente, dobbiamo essere convinti, con la stessa audacia con cui Gesù entrò a casa di Zaccheo, senza in nessun modo censurare le cose che egli aveva fatto, ma disarmato, rispondendo a quello che lui aveva nel cuore. Storicamente, questo è un metodo assolutamente nuovo. Gesù stupì san Paolo nello stesso modo in cui stupisce noi.
Non c’è nulla che sfidi il cuore di un uomo più di un gesto come questo, un gesto assolutamente sorprendente.

Un concetto chiave di Giussani, che lei ripete in tutto il libro, è che la fede è un «avvenimento». Può spiegare cosa significa e perché è così importante?
Che la fede sia un avvenimento significa che la vita di uno cambia quando egli incontra un fatto, come accadde a Giovanni e Andrea quando incontrarono Gesù. Non si può evitare la realtà di un fatto accaduto, non si può cancellarlo. Pensiamo a san Paolo, che era un persecutore dei cristiani, cercava di eliminarli; l’incontro con Cristo vivente rivoluzionò il suo modo di pensare.
È come la scena descritta da Manzoni ne I promessi sposi… l’esperienza dell’incontro con qualcuno così capace di perdono fu tanto sorprendente che era impossibile non abbandonarsi alla sua forza attrattiva. Quando il cardinale saluta l’Innominato e questi gli dice: «S’io tornerò? Quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!».
Questo è il tipo di esperienza sconvolgente che cambia la vita, questo è la fede. [Il personaggio del cardinale ne I promessi sposi è ispirato dalla figura del cardinale Federico Borromeo di Milano, 1564-1631.]
Papa Benedetto ha sempre detto che all’origine del cristianesimo non c’è una dottrina, un insegnamento, ma l’incontro con Cristo. La forma dell’«avvenimento» cristiano è questo incontro, non in maniera virtuale o solo come una proposta che fa uno qualunque. No, è un incontro così potente che non vuoi perderlo per il resto dalla vita.

L’obiettivo del suo libro è risvegliare la consapevolezza di questo avvenimento?
Sicuramente. Il problema è come comunicare questo avvenimento alle persone. È come l’esperienza dell’amore, dell’innamoramento… non avviene perché se ne parla, accade perché uno si innamora.

A un certo punto lei scrive che lo scopo della comunità – forse riferendosi a Comunione e Liberazione, ma anche più in generale alla Chiesa – è di generare «adulti nella fede». Cosa intende dire?
Intendo dire persone che siano rigenerate dalla partecipazione alla comunità cristiana, nel senso che acquisiscano una nuova capacità di affrontare la realtà, una nuova capacità di essere liberi in un modo diverso da prima. E una nuova capacità di trasmettere un senso di stupore agli altri. Se il cristianesimo non è in grado di generare un nuovo tipo di persone, allora rimarrà staccato dalla loro vita.
Non c’è niente di più decisivo, nel momento presente, della capacità di generare adulti nella fede, adulti che vivono con libertà fra gli altri e che possono testimoniare la fede non solo quando vanno in chiesa o partecipano a qualche attività “altra” rispetto alla vita quotidiana, ma nel concreto del loro lavoro e della loro vita.
C’è bisogno di persone che possano portare la novità della fede nel cuore del mondo, che suscitino la domanda: «Ma dove attingete questa novità, questa freschezza? Cosa c’è dietro?». La capacità di rispondere a questa domanda condurrà naturalmente le persone a qualcosa di più grande e migliore.
Questa è una reale testimonianza di fede… anche se gli altri non arrivano a identificare il nome di Cristo, solo guardare a quella persona rende impossibile non volere capire che cosa la rende così. Vorranno sapere chi è il “terzo”, e questa è una testimonianza.
Solo una vera testimonianza può rendere visibile e tangibile l’avvenimento della fede… la capacità di rendere la fede qualcosa di ragionevole per gli uomini può venire solo da una concreta esperienza di essa, da un «avvenimento». Questo è ciò che permette che uno non abbia paura di non essere compreso, e che possa resistere alla tentazione di ridurre il cristianesimo a qualcosa d’altro.
Le chiedo io una cosa: perché noi pensiamo a volte che per rendere comprensibile un gesto gratuito esso debba essere ridotto a qualcosa d’altro, debba essere meno gratuito? Quanto più è gratuito, tanto più dovrebbe essere sorprendente e attraente, no? Non dobbiamo ridurre le cose perché siano comprese.
A volte pensiamo che se uno non ha la fede, dobbiamo ridurre le cose perché le capisca. Ma è vero il contrario – quanto più un gesto è gratuito, come il perdonare qualcuno per un’offesa piuttosto che rispondergli allo stesso modo, tanto più ciò stupirà radicalmente quella persona. Non è che dobbiamo ridurre, smussare, per evitare lo scandalo… nessuno si è mai scandalizzato di essere perdonato.

Nell’ultima pagina del libro, lei scrive che la letizia è come il fiore del cactus. Cosa vuole dire?
La fede introduce nella vita un’attrattiva, che nello stesso tempo ci attrae verso di essa ma non ci lascia soli. Niente sfida maggiormente una persona di qualcosa che risponde in totale pienezza a tutte le sue aspettative. Nulla trasforma radicalmente la vita come il compimento di tutte le sue promesse! Ecco perché la fede è come il cactus… è bellissimo, ci attrae a sé, ma nello stesso tempo punge. Possiamo accettarla o rifiutarla, ma niente trasforma e turba la vita con la stessa potenza.

Potremmo dire che questo libro è un tentativo di esprimere la visione dell’evangelizzazione che nasce da Giussani e che è stata amplificata dagli ultimi tre Pontefici?
Per me, la risposta è sì.