La Cattedrale di Ávila

Da tutta Europa ad Ávila: «Abbiamo già tutto»

Da Oslo, Londra, Bucarest... C'erano centocinquanta responsabili di CL alla tre giorni con don Carrón, nel cuore della Spagna. Per mettere a tema la vita partendo da quello che accade: «Perché ci conviene fare un cammino? Che utilità ha per noi?»
Davide Perillo

«Abbiamo tutto. Ma cosa sia questo tutto, lo comprendiamo solo nell’incontro con le circostanze, le persone, la vita». Torna più volte, questa citazione di don Giussani nei tre giorni di Ávila. L’ultima, domenica mattina, nella sintesi di Julián Carrón davanti ai centocinquanta responsabili di CL arrivati in Spagna da tutta Europa; dal Portogallo ai Balcani, da Malta a Oslo. Sono riuniti nella stessa sala del Seminario diocesano in cui proprio don Giussani, nel 1985, tenne un incontro decisivo nella storia del Movimento, se è vero che pochi mesi dopo le sue parole («noi siamo ciò che voi siete: la nostra storia e la vostra hanno le stesse radici…») tanti dei presenti, aderenti a Nueva Tierra, un movimento creato da un gruppo di sacerdoti spagnoli, confluirono in CL.

Carrón, che apparteneva a Nueva Tierra, a quell’incontro non c’era, era in Germania a studiare. Ma è strano e bello insieme ripensare alla storia che ora lo porta su quel palco, a introdurre il lavoro venerdì sera, riprendendo il filo della Giornata d’inizio: «Don Giussani ci aveva lanciato una sfida: se ci spostiamo dall’entusiasmo per Cristo, non lo conosciamo». E quindi ci ha dato un compito: «Conoscerlo». Non come parole e discorsi, ma «come conoscenza affettiva, esperienza. Per questo ora possiamo fare un punto su quello che è capitato in questi mesi. Che cammino abbiamo fatto? È successo qualcosa che mi fa dire: ho imparato qualcosa di Cristo?»

Don Carrón durante l'assemblea

E il criterio per rendersene conto è semplice: «Non puoi dire “conosco Cristo” fino a quando Lui non introduce un modo diverso di guardare la realtà. O la Sua conoscenza cresce fino al punto di determinare il nostro sguardo, o saremo determinati costantemente dalle impressioni delle cose, e quindi soffocheremo». Da qui la domanda che rilancia a tutti: «Perché, allora, ci conviene fare un cammino? Che utilità ha per noi?».

L’utilità si vede da subito, dall’inizio dell’Assemblea di venerdì. Beppe, che sta in Scozia, pone una domanda che in fondo hanno in tanti: «È evidente che il lavoro proposto incide nella vita: nel modo in cui guardi lavoro, famiglia, amici… Ma davanti alle grandi sfide, a quello che succede nel mondo?». Cita il caso di Alfie Evans (il bambino lasciato morire dalla sentenza di Liverpool, ndr.). Le discussioni, un cammino di giudizio «che un po’ alla volta mi ha ridato serenità, ma mi ha lasciato un dubbio: basta, davanti al mondo? Cosa vuol dire, in casi del genere, costruire sull’entusiasmo per Cristo e non all’ossessione per altro?». Carrón rilancia: «Ma da cosa hai ricevuto quella serenità? Dal fatto che ti sei ritirato dal problema o dall’aver trovato ragioni più adeguate, grazie al lavoro che hai fatto?». E incalza: «La questione non è lo schieramento, ma che ragioni abbiamo raggiunto».

La messa nella Cattedrale

Cita un testo recente, di Benedetto XVI (qui in pdf), in dialogo con Marcello Pera, ex presidente del Senato e filosofo liberale. Affermare certe verità evidenti anche solo alla ragione «è di per sé giusto», osserva il Papa emerito: «Ma se restiamo solo a questo, corriamo dei pericoli. Molto facilmente si dimentica il peccato originale e si può giungere a forme di ottimismo ingenuo che non rendono giustizia alla realtà». Così «non si percepisce l’effettiva complessità della conoscenza razionale in ambito etico».

«Cioè, non riusciamo a vedere con chiarezza che cosa è il vero», osserva Carrón. E aggiunge: «Quelle cose che prima, per l’influsso di una storia cristiana, erano riconosciute da tutti, ora non lo sono più. Senza renderci conto di questo, non possiamo dare un contributo adeguato». Dire certe cose è giusto: la difesa della vita, per esempio, è sacrosanta. «Ma una volta detto questo, non basta perché il valore possa essere percepito dagli altri. Occorre percorrere una strada che consenta all’altro di percepirlo come lo abbiamo percepito noi. E noi come lo abbiamo percepito? Per qualcosa che ci è accaduto. Per un incontro». E per una Presenza che continua: «Ed è seguendola che continuiamo a percepirlo. Altrimenti anche noi, prima o poi, staccheremo i valori dal loro punto sorgivo. E faremo fatica a riconoscerli, perché non siamo diversi: il mondo influenza anche noi...». La conclusione è netta: «L’unica modalità per poterlo comunicare agli altri è continuare a fare la strada che Dio ci ha proposto».

Ferrán, catalano, ripercorre le vicende degli ultimi mesi: le discussioni sull’indipendenza, le divisioni («abbiamo lavorato, ma di fronte agli stessi elementi c’erano amici che dicevano cose opposte»), le difficoltà ad arrivare a un giudizio comune. Una novità spiazzante. «Però ci siamo sorpresi a guardarci l’un l’altro con affetto. Ci accoglievamo a vicenda». Conclusione: «Cristo non garantisce che siamo d’accordo su tutto. Ma la verità è Lui stesso, la Sua presenza tra noi. Questo ci permette di vivere l’unità anche nella differenza. E rende appassionante il cammino».

Ávila, con le sua mura

«Conoscere», osserva Carrón, «davvero chiede un lavoro. Ma le sfide che il presente non ci risparmia sono una possibilità: più la vita urge, più uno può capire la diversità che introduce Cristo. E di che cammino abbiamo bisogno per verificare che solo la Sua presenza può riaprire il rapporto anche con chi la pensa in modo diverso da noi in politica. E questo nel tempo fa chiedere: ma di cosa ho bisogno io? Cosa rende possibile che i rapporti non decadano? È così che ci rendiamo conto di cos’è il cristianesimo».

Interviene Nacho Carbajosa, responsabile della Spagna: «Vero, l’Avvenimento non ti fa arrivare alla stessa posizione politica. Ma non è uguale a zero: permette un percorso di conoscenza, eccome. Quando tu, Julián, hai messo davanti a tutti il giudizio di quella ragazzina catalana che ha smascherato la pretesa ideologica di chi diceva che il referendum sull’indipendenza era decisivo per la vita, quello è diventato un cammino per tutti. Una storia particolare diventa strumento per la moralità e da lì si può conoscere…». «Esatto», rincara Carrón: «Questi fatti sono semplici, alla portata di tutti. Ma nella loro semplicità hanno una potenza unica che rende possibile la speranza. Non nell’aldilà, ma nell’aldiqua. La vera novità culturale nasce dall’avvenimento. Non può essere generata da nessuna strategia: solo nel punto sorgivo dell’avvenimento cristiano. È inconfondibile. Altrimenti ha ragione Nicodemo: non si può rinascere da vecchi. E invece, è possibile che il Mistero faccia rinascere? Sì! A una ragazzina, davanti all'ideologia del referendum, è successo. E nessuno può cancellarlo dalla faccia della terra».

Altri interventi. Antonio, portoghese, insegnante, racconta dello sconforto davanti al “no” dei ragazzi a tante proposte. E della liberazione quando uno di loro, a lui che si lamentava perché nessun altro sarebbe andato in pellegrinaggio, gli fa: «E che problema hai se andiamo solo in due? A te serve?». «Ecco, lì ho capito che a tutte le mie proposte mancava qualcosa». Che cosa? «Io». «Appunto, per questo non si muoveva niente in loro. Il problema è vivere noi qualcosa che possa muovere davvero l’interesse nell’altro. Cosa muove l’uomo nell’intimo?». Le nostre strategie, no di certo.

Ogni momento è introdotto da un canto

Poi va al microfono Ilaria, che vive in Svizzera. Racconta «la fatica, lo scandalo per il mio tradimento. Mi sono allontanata dal Movimento. Ma così la vita diventava insopportabile». Solo che «la verità rimane comunque evidente in qualche modo». Il suo è stato il legame con un’amica. Che, invece, continuava a seguire. «Io dicevo cose anche giuste, ma lei era cambiata. Le mie verità non avevano il potere di cambiarmi». Da lì, poco a poco, il cedere, il ricominciare il cammino. E una vita che rifiorisce, in mille modi: a casa, sul lavoro, gli amici… «Capite la differenza tra il cristianesimo come discorso e l’avvenimento?», domanda Carrón: «È il cambiamento. Solo se uno prende sul serio se stesso può fare un cammino, non ideologico. Uno dicendo cose giuste non cambia; se si resta legati a questa compagnia, sì». Altri interventi, fatti, racconti. E l’assemblea si chiude con queste parole, sintetiche: «Vedete? Qualsiasi circostanza può essere strada per la conoscenza di Cristo, può vincere la separazione tra Lui e la vita. Solo questo potrà incrementare l’entusiasmo per Cristo».

La sala da pranzo è un mix di lingue e di incontri. Fa impressione, pensando a dove siamo. Le mura cinquecentesche sono poco più in là, memoria di pietra di una storia che qui ha vissuto i fasti della Reconquista, le vite di santi come Teresa e Giovanni della Croce. E poi la decadenza, della città ma soprattutto di ciò che dava anima a questa storia: della cattolicissima Spagna non è rimasto tanto. Eppure qui, tra queste mura…

Al pomeriggio, tre testimonianze. Davide Biasoni, responsabile per l’Europa, le introduce così: «La caratteristica del Mistero è che opera un cambiamento. Succede qualcosa di nuovo. Abbiamo chiesto a tre amici di raccontare semplicemente la novità che hanno sorpreso nella loro vita».

Il primo è Adrian, rumeno, ortodosso. Ha incontrato il movimento 16 anni fa. «E ho ricominciato ad andare in chiesa perché il luogo in cui mi sentivo capito era la Scuola di comunità». A gennaio era con i ragazzi di Fdp-Protagoniști în educație che sono andati a trovare il Papa. L’incontro lo segna, profondamente. E gli regala una foto con il Pontefice e tanti dubbi: «Se la vede il mio parroco?». Poi capita che il sacerdote vada a casa sua, veda la foto e invece di irrigidirsi si commuova, inizi a parlargli delle sue iniziative per il dialogo, l’ecumenismo… «Era entusiasta di trovare un segno del compiersi di ciò che cercava lui».

La testimonianze. Al tavolo, da sinistra: Cesar, Marco, Adrian e Davide Biasoni.

La fantasia di Dio. Che a casa di Marco, italiano trapiantato a Londra, prende un altro volto. Neurochirurgo, sposato, ha quattro figlie. Due hanno problemi di salute, il rapporto con la realtà si è fatto difficile. «Quando i figli iniziano a soffrire, per i genitori è una prova. Ma alla Giornata d’inizio mi sono ritrovato davanti a quelle parole: senza la familiarità con Cristo, la vita è senza gioia». Lì le cose iniziano a cambiare. Fino a una sera in cui una cena con un vecchio amico, ora vescovo, rende tutto nuovo. «Il giorno dopo, in casa c’era la stessa situazione di prima. Ma ti scopri addosso una tenerezza inaudita, che non è mia. Dici “grazie”. E cominci a guardare come vorresti essere guardato. Ho capito che le circostanze non sono altro che questo: Gesù che nella sua immensa fantasia trova mille vie per arrivare a chiedermi “ma tu, mi ami?”».

L’ultimo è Cesar, insegnante. Segue i giessini spagnoli. Letteralmente, perché «il dono di quest’anno è vedere quello che il Signore fa tra di noi nella vita dei ragazzi. La responsabilità nostra è seguire il cristianesimo e indicarlo là dove accade». E inizia a raccontare episodi, a leggere lettere, a far emergere una profondità tra quei ragazzi che lascia a bocca aperta, e merita di essere ripresa più a fondo in un altro momento.

Il tempo per un racconto rapido di quello che sta succedendo sugli strumenti di comunicazione (il sito, la rivista che sta cambiando, le presentazioni dei libri). Poi per la messa si va in centro, nella Cattedrale. Commovente, nella sua bellezza. Proprio come la serata di canti dei ragazzi spagnoli del Clu, in cui si spazia dall’Irlanda all’Abruzzo, dall’Argentina a Madrid.

Domenica mattina, all’Angelus, padre Michiel Peeters, olandese, richiama proprio quella fase di Giussani: «Abbiamo tutto...». È il filo rosso della sintesi di Carrón, appunto. Un cammino in cui non c’è scandalo o sconcerto nel ricominciare, sempre: «È quando la vita è sfidata che ci rendiamo conto fino a che punto sappiamo ciò che credevamo di aver già acquisito». Abbiamo tutto: Cristo, la Chiesa, lo Spirito. «Ma perché, allora, le cose certe volte ci spaventano? Perché questo “tutto” possiamo scoprirlo solo nell’incontro con la realtà». Vivendo.

Serata di canti con i ragazzi del Clu spagnoli

Per questo «le sfide che abbiamo davanti – la politica, le questioni etiche, il lavoro – sono un momento propizio per scoprire chi è Cristo». E la domanda che ci facciamo in tanti modi - «Ma questo metodo di Dio non è troppo sommesso? Possibile che basti questo a cambiare il mondo?» - ci mette davanti a un’alternativa: o ritirarsi, spaventati dal crollo delle evidenze, o chiederci, come Ratzinger, «ma il cristianesimo ha ancora qualche chance?». E verificare la risposta che lui stesso dava: sì, perché corrisponde all’attesa del cuore.

«È l’audacia di Dio, che ci manda nella mischia armati solo di un detector, il cuore. E poi comincia una storia particolare fino a mandarci suo Figlio», e una catena di fatti che quel cuore lo sollecitano, lo incalzano, lo provocano. «Perché le nostre esigenze elementari non sono un pacchetto dato con una serie di definizioni: il cuore non è statico. È l’impatto con la realtà che lo risveglia».

Per questo più i tempi sono duri e più «è il tempo della persona». Di un “io” che si scopre irriducibile perché «come si diceva agli Esercizi, questa preferenza di Dio è ciò che ti rende te stesso; nient’altro». Non la tua capacità, la bravura, l’essere in tanti… La preferenza di Dio. «Ma occorre che questa coscienza ci entri dentro fino, alle viscere».

La grande sfida è se il cristianesimo può generare persone così, con questa coscienza di sé. Perché «quando uno si rende conto di questo, la vita comincia a fiorire». Tutto può cambiare, come si legge nel Volantone di Pasqua. Perché abbiamo tutto.