L'Assemblea responsabili in Brasile (foto di Jakeline Oliveira Cordeiro)

America Latina. «Sveglia, cuore!»

Che cosa porta nella vita il metodo di don Giussani? Le esperienze di chi vive (e rivive) il carisma in quasi venti Paesi del Continente, dal Messico all'Argentina. In Brasile, la prima Equipe degli universitari e l'Assemblea responsabili
Alessandra Stoppa

Il primo gesuita spagnolo arrivato in queste terre, san José de Anchieta, tra i fondatori della città di San Paolo, costruì una capanna in mezzo agli indigeni. Erano tribù cannibali. All’ingresso scrisse: «Pyápe Peiké Aé Peçauçuba». In lingua tupi guaranì significa: «Entra, cuore. Qui è il tuo amore». Un invito dritto all’io e una dimora, se pur piccola, dove la gente poteva mangiare, dormire, pregare, essere curata e istruita. «Come doveva essere certo quell’uomo! Certo del fatto che Cristo dialoga con il cuore. In qualsiasi condizione. E attraverso un luogo che ti accoglie».

Per Julián de la Morena, responsabile del movimento in America Latina, l’esperienza iniziale del gesuita che evangelizzò il Brasile descrive in qualche modo quella del carisma di Giussani. «È la realtà viva con cui riconosco Cristo che mi dice: “Sveglia, cuore! Sono qui! Sono qui adesso”. Il cristianesimo è solo ora. Solo al presente. Come vediamo accadere». All’Aral, l’Assemblea responsabili dell’America Latina con Julián Carrón, dal 29 al 31 marzo, poco fuori San Paolo, le persone ai tavoli sono diversissime per mille ragioni, ma tutte parlano con urgenza della vita, stranamente grate che ci sia qualcuno che le provochi con delle domande, che le metta in crisi o di nuovo in moto. Colpisce il desiderio senza età di imparare da un altro qual è la sostanza della propria stessa esperienza.

Cosa permette a Vivian di vivere la pienezza di fronte alla malattia del giovane marito? A Gerónimo di accorgersi che, nella crisi lavorativa e familiare che gli è esplosa addosso, chi deve cambiare è lui? O ai cileni di riscoprire la bellezza del cristianesimo in una Chiesa ferita dagli scandali, e a Gabriella, venezuelana rifugiata in Colombia, di ringraziare nell’aver perso tutto? «Perché ho trovato l’abbraccio concreto di Cristo nella mia vita», dice lei. Così Eduardo può raccontare che la sua fragilità personale è curata dall’«usare bene la ragione»: «Posso non scappare di fronte al mio squilibrio, grazie a un cammino in cui scopro la profondità del mio io». E solo per questo, a sua volta, guardare con verità i cinquanta ragazzini «feriti come me» che accoglie con la sua onlus.



Storie e giudizi che approfondiremo sul prossimo numero di Tracce, e che hanno accompagnato l’intenso lavoro dei giorni a San Paolo, segnato dal riscoprire il metodo di Giussani. «Possiamo seguire in modo così astratto da arrivare a negare il metodo stesso. Perdendo il carisma per strada», dice Carrón sfidando i più di trecento da quasi venti Paesi, dal Messico all’Argentina, e scelti «dall’iniziativa di Dio che ci precede tutti, non certo per esclusivismo: la grazia è data a noi per il mondo», sottolinea la prima sera. «Possiamo vivere tutto con la coscienza che Uno ci ama al punto da darci l’esistenza. Il primo aiuto è riconquistare questa coscienza». Quella che lui ha visto nei giorni precedenti, quando quaranta giovani si sono trovati per la prima Equipe degli universitari del Sudamerica: «Per loro non era scontato essere qui: sentivano tutta la sproporzione di non esserne degni. Nessuno ne ha merito, infatti. Allora la predilezione totalmente gratuita di Cristo per noi è la prima evidenza che si impone, la prima a cui guardare! Se siamo semplici, prevale su tutto». Su tutto lo stato d’animo, su tutto ciò che succede.

«Perché io?». Era lo stupore dei ragazzi appena aprivano bocca in assemblea. Prima di ogni altra considerazione, prima dei problemi e di tutti gli interrogativi che avevano, sulla propria utilità per il mondo, sull’incapacità di perdonare, la solitudine, la Scuola di comunità, il desiderio che le cose durino, la relazione con il fidanzato e i rapporti prematrimoniali, lo studio, la forma della vocazione... Domande poste con tanta libertà a Carrón, che rispondeva con una raffica di altre domande: così le tre assemblee sono state un corpo a corpo sull’esperienza, «un continuo scavare in quello che diciamo e perché lo diciamo», dicevano i ragazzi a tavola continuando il dialogo tra loro: «Vuole che diventiamo liberi. Per questo non lascia cadere nemmeno una nostra parola». Alcuni di loro non lo avevano mai visto, eppure lo attendevano come un padre, certi di trovare un aiuto sicuro, all’origine della vita che li ha raggiunti. Per approfondirla sfruttano ogni momento, anche quando arrivano i trecento dell’Aral e il lavoro si dilata.



«La grazia più grande è poter fare un cammino», fissa Carrón: «Non coincide con l’"attività movimentistica", ma con il generarsi di una persona capace di affrontare le sfide della vita». Illuminante è il racconto di Alejandro dall’Argentina sul suo «salto di autocoscienza». Trentaquattro anni di movimento, «pensando con presunzione di seguire Giussani» e senza accorgersi di averlo lasciato sempre «esterno» a sé: «Perché non ho mai realmente implicato la mia umanità. Iniziando a farlo, tutto è nuovo». Anche Otoney, di Salvador de Bahia, ha messo tutta la vita nel movimento e «mi chiedevo perché nella comunità non crescessimo mai come numero, senza vedere che la novità sono io. C’è una Presenza in me, la scopro dentro il nucleo del mio io, che mi fa vivere il lavoro, la famiglia e le responsabilità in un modo che non è mio. E ora sono di nuovo qui perché tu mi corregga». Padre Ernesto, del Perù, ha incontrato CL da poco: «Non immaginavo ci fosse un luogo così nella Chiesa». Poi aggiunge: «Quando ripeto parole o idee di Giussani senza che siano mie, non sono contento e nemmeno aiuto l’altro. Non succede nulla...». «È tutto diverso quando è un’esperienza!», incalza Carrón: «Riduciamo il carisma a un discorso. Serve solo la lealtà di riconoscere la differenza. Siamo insieme per aiutarci a non perdere la novità che Giussani ha introdotto nella forma di vivere la fede: la natura del cristianesimo è un avvenimento che accade. Accade. E fa fiorire la vita, anche nella condizione più estrema».



Gli amici venezuelani vengono da un Paese in agonia e da settimane al buio per il blackout a intermittenza: i loro racconti (a cui daremo spazio su Tracce) sono una pietra di paragone per ciascuno all’Aral, non appena per le prove che affrontano ma per la leggerezza, la costruttività e la pace che hanno. «È un protagonismo possibile», continua Carrón, «se si segue la storia che ci ha raggiunti». Chi, una volta trovata, non l’ha più lasciata è Jesus Carrascosa (per tutti: Carras) ed è il motivo per cui la sua testimonianza riempie di speranza e di sana invidia, di voler arrivare con la stessa vitalità di cuore a 80 anni: li compie esattamente il primo giorno di Aral, in mezzo a tutti questi amici che lo festeggiano come figli. La sera racconta l’appassionata lotta anarchica nella Spagna di Franco, l’impegno per i poveri, una “fede” militante dove Cristo non era una presenza, poi la crisi feroce degli ideali, il viaggio in Ford verso l’Italia per conoscere “il vecchio” (Giussani) di cui gli avevano parlato e che travolgerà per sempre la vita sua e della moglie, passando per i tornanti della storia di CL e del mondo, i rapporti con i Papi, la responsabilità internazionale del movimento e il desiderio sempre crescente che «un giorno anche per me Cristo fosse così reale come lo era per Giussani». Alla fine, ringraziandolo, De La Morena spiega ciò che ha riempito la sala di occhi lucidi, per la commozione e le risate: «In te è evidente che dare la vita per l’opera di un Altro non è una rinuncia di sé, ma una festa».



Non è diversa la letizia con cui lavorano i volontari dell’Aral. Pilar, primo anno di università, ha speso un mese di vacanza per aiutare nella preparazione, perché il suo sogno era «vedere il posto da cui i miei genitori tornavano così contenti». Ergison ha venticinque anni e ha ricevuto il Battesimo a ventuno. L’ammissione è semplice: «Ho paura di perdere la pienezza che sto vivendo». «Tu devi essere cosciente di Chi te la dà. Solo così non avrai paura», gli risponde Carrón: «Chi la produce? I discepoli il giorno dopo sono tornati a cercarLo. Così noi possiamo appartenere alla realtà in cui il Mistero ci dà la felicità».
Dopo di lui, ascoltare la giovane Paula, di Rio de Janeiro, è vedere viventi le parole de Il senso religioso: «A me non basta qualcosa di grande, io voglio tutto». Carrón salta sulla sedia: «Io voglio tutto! Tutto! Questo è il movimento. Appartenere a un luogo che apre la tua natura al punto da desiderare la totalità». Cristo è venuto nella storia per suscitare l’ampiezza dell’animo: «È solo perché può compierlo, che lo spalanca».
Rimette davanti a tutti che soltanto un cristiano può parlare così del desiderio, e che questo riguarda la domanda delle domande: c’è ancora una possibilità per la fede oggi?



«C’è», dirà nella sintesi, «perché il cuore è fatto di un’aspirazione inestinguibile all’infinito. Il lavoro cui ci invita Giussani è quello della sua prima ora di lezione: un metodo vero per giudicare. C’è un aspetto fondamentale: l’esperienza. Brandire la nostalgia di totalità che ci costituisce e con essa paragonare tutto. Il problema è se coinvolgiamo la nostra umanità». Come nell’esempio semplice che ha colpito i più: «Quando la salute viene meno, ce ne accorgiamo immediatamente. E non ci bastano le parole. Mentre nella vita abusiamo delle parole, come "libertà", eppure è raro vedere persone libere. Occorre essere consapevoli della differenza nell’esperienza! O non vedremo come la fede risponde alle esigenze della vita. Cioè, il motivo per cui Giussani ha iniziato il movimento». E per cui continua oggi. «Continua non per tenere in piedi un’associazione, ma per l’esperienza di vita che facciamo».
A scaglioni sui pullman si parte. I venezuelani hanno il volo di notte. Alcuni amici brasiliani li aiutano a riempire le valigie con i vestiti e le medicine donati, e staranno con loro in aeroporto, cantando insieme fino all’ultimo. Nella sua testimonianza, Carras citava un verso del poeta spagnolo León Felipe su Crista: Vino, nos marco nuestra tarea y se fue. «È venuto, ci ha lasciato un compito e se n’è andato». Poi ha aggiunto che si sbagliava.