Negri. «Don Giussani, una personalità imponente, ma umile»

A pochi giorni dalla morte di monsignor Luigi Negri, alcuni brani del suo intervento alla presentazione della biografia di don Giussani a Ferrara, il 31 marzo 2014 (dal libro "Un'attrattiva che muove")
Luigi Negri*

Ho conosciuto monsignor Giussani al Berchet, dove è stato mio insegnante di religione nei tre anni del liceo. Era l’ottobre 1957 e da allora non ci siamo più perduti di vista, nel senso letterale della parola, perché credo che negli anni che vanno dal nostro incontro alla sua morte, nel 2005, siano stati pochissimi i momenti in cui non ci siamo visti, ci siamo scambiati una battuta, abbiamo bevuto insieme un caffè oppure abbiamo partecipato alle riunioni con cui si attendeva alla vita e alla crescita di quella grande compagnia che era nata dal suo cuore e che, in qualche modo, noi dilatavamo attraverso il nostro certamente più umile servizio. Lui diceva, quando mi presentava in pubblico: «L’ho incontrato che portava ancora i calzoni corti» (e non era propriamente vero, perché portavo i calzoni alla zuava, cioè quelli che si chiudevano sotto il ginocchio con uno sbuffo, perché, passandomi gli abiti dismessi di mio fratello − questa è la boutique in cui mia mamma mi comprava le cose −, non riusciva ad allungarli e li adattava in uno strano modo che ricordava gli zuavi). Insomma, sono stato travolto da giovane.

La cosa che mi ha colpito fin dalle prime lezioni − l’incontro vero e proprio è avvenuto nella sede di Gioventù Studentesca, dove sono approdato qualche mese dopo, in primavera − era la sua personalità: si imponeva, ma benevolmente. Il mondo è pieno di gente che si impone con violenza, lui invece sapeva imporsi benevolmente, cioè dandoti lo spazio di entrare in questo incontro, senza spingerti fuori per affermare se stesso. Venivo da una bella e grande tradizione cristiana, legata alla mia famiglia, alla mia parrocchia, ho una gratitudine immensa per i miei genitori e per il mio parroco. Ma all’inizio del liceo Cristo cominciava a diventare un problema, una nostalgia; di fronte alla mentalità laicista e anti- cattolica, che nelle scuole iniziava a portare il suo attacco alla tradizione cristiana, ero in difficoltà, non in crisi, ma in difficoltà. Giussani, imponendosi, introduceva all’incontro con Cristo, parlava di un Altro, quasi avrebbe voluto scomparire affinché l’Altro, il Signore, potesse prendere forma attraverso la sua testimonianza nella nostra vita, diventare presenza, incontro che sollecitava una responsabilità.

Attraverso la sua presenza «passava» un Altro
È stata un’esperienza dirompente l’incontro con un uomo che non metteva in primo piano se stesso, perché attraverso la sua presenza, la sua parola, il suo modo d’essere, il suo temperamento, la sua figura «passava» un Altro. Questa è la radice della grande virtù che don Giussani ha testimoniato a noi e a tutti: l’umiltà. È un uomo umile. Umile vuol dire, come dice la tradizione ambrosiana − la parola umiltà è stata celebrata adeguatamente in tante pagine di sant’Ambrogio −, realista. Realismo, perché Cristo è venuto a salvarci e rimane nel mondo attraverso la Chiesa, e tutto quello che noi possiamo fare è essere tramite di questo, ciascuno con la sua storia e temperamento. Giussani diceva: «La mia vicenda è la vicenda di tanti che, volendo bene ai giovani, riescono, per grazia di Dio – in questo senso si può chiamare carisma – a comunicare loro certezze e affettività di cui altrimenti sembrerebbero incapaci». E nell’ultima lettera a Giovanni Paolo II ha scritto: «Non ho mai inteso “fondare” niente» (da A. Savorana, Vita di don Giussani, p. 1138), cioè non ha mai voluto costruire un progetto centrato su di sé, ma lasciare passare altro, è andato dietro ai momenti, agli incontri, alle parole, alle suggestioni che lo Spirito gli ha offerto. Ha obbedito. L’umiltà è la virtù dell’obbedienza.

Ricordo la Domenica delle Palme del 1975: ci venne detto autorevolmente che dovevamo andare a Roma in tanti, più che potevamo, perché coloro che normalmente animavano la messa e la processione delle Palme del Papa, cioè l’associazionismo cattolico ufficiale romano, aveva presentato quattrocento iscritti! Noi del movimento arrivammo in diciottomila e animammo la messa sotto la pioggia. Paolo VI era debole, aggrappato al crocifisso, non si sapeva se era il crocifisso che portava il Papa o il Papa che portava il crocifisso. Stavamo distribuendo la comunione, ero vicino a don Giussani quando arrivò un funzionario della Santa Sede e disse in modo imperioso: «Sua Santità vuol vedere monsignor Giussani». (…) Incontrandolo, Paolo VI gli ricordò una cosa che gli aveva detto tanti anni prima, quando era ancora Arcivescovo di Milano: «Non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma vedo i frutti e le dico: vada avanti così» (p. 217). Nel 1975 disse una cosa ancora più importante: «Coraggio. Questa è la strada» (p. 514). Don Giussani non riusciva neanche a pensare che il Papa volesse parlare proprio con lui. Del resto, tutti gli inviti, anche quelli più importanti, per esempio quello ad andare in Giappone per parlare con i bonzi del Monte Koya, e tutta la trama di incontri che lo ha reso un punto di riferimento straordinario venivano da lui come subiti per un’obbedienza e non per una volontà di emergere. Era una umiltà per cui si faceva realmente tramite di un evento più grande di lui, a cui voleva introdurre coloro che, entrando con lui in questa storia, diventavano suoi amici.

Ecco la seconda suggestione che colgo da questi cinquant’anni. È stata un’amicizia straordinaria, il cui aspetto più acuto è che era un’accoglienza di me così come ero, senza pretese, precomprensioni, progetti o ansia. Non è stato un educatore pieno di ansia: ha seguito il mio cammino, ha guidato il mio cammino. E il tempo che c’è voluto è il tempo che ho dovuto impiegare io per capire certe cose; per esempio, l’immagine della mia vocazione si è formulata con una certa lentezza. Dunque, era un’accoglienza della mia persona che mi coinvolgeva in un evento di vita, di cui potevo diventare responsabile anch’io, nel mio piccolo. (…)

Nel suo libretto scritto durante il Concilio, prima dell’uscita della Lumen Gentium, Giussani scrisse, cercando di far capire che il cristianesimo non sono delle idee e non sono dei progetti morali; tale e quale Benedetto XVI nella Deus caritas est: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona»; non è un’unità sociologica, ma un’unità sacramentale, perché la Chiesa è l’unità di coloro che credono in Cristo, Lo riconoscono presente fra di loro e accettano di diventare il suo popolo; non è il popolo che fa presente Cristo, ma è Cristo che fa nascere il popolo. Questa realtà nuova è presente nell’ambiente, perché un uomo nuovo non vive da solo, isolato, ma dentro un contesto, perciò se è cristiano, se è impegnato cristianamente, deve vedersi nell’ambiente. Giussani sottolineava anche che − pensiamo a come questa frase sarebbe stata travolta e distrutta da certa contestazione ecclesiale − «la norma suprema del metodo cristiano è “il nesso con l’autorità, cioè col vescovo: ‘Uniti al vescovo come a Cristo’”» (p. 324), «così come tutti i vescovi vivono la comunione tra di loro “fondati” sulla “roccia” ultima che è il Papa». Una ecclesiologia limpida, quella di don Giussani. Il cristianesimo è un evento che vive nel mondo come popolo, radunato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, avrebbe detto il Concilio, che perciò vive per comunicare. Quando, tanti anni dopo, Giovanni Paolo II disse che la missione è «l’autorealizzazione della Chiesa», non potete immaginare che cosa significò per don Giussani e per i preti attorno a lui questo riconoscimento teologico, perché la missione è l’impegno a comunicare Cristo nel mangiare e nel bere, nel vegliare e nel dormire, nel vivere e nel morire, nella politica, nella società, nella cultura, in famiglia, nella nascita dei figli e nella loro educazione. Perché se qualcosa sfugge alla testimonianza di Cristo, vuol dire che Lui è venuto invano, vuol dire che ci sono pezzi della vita che sussisterebbero anche senza Cristo; ma se ci sono pezzi della vita che si possono affrontare e vivere in modo dignitoso, dal punto di vista umano, senza Cristo, allora Cristo non è più il Redentore. Si tratta di partecipare in modo responsabile, creativo, a un popolo che vibra per la novità che ha ricevuto e per il desiderio di comunicarla agli uomini. (…)

Una correzione continua
Dunque, in questa partecipazione creativa io mi sono sentito valorizzato nelle mie doti e corretto nei miei limiti. La più bella parola che Giussani usava con noi più giovani era: «È una correzione, cioè̀ un reggersi insieme», non un dire che va tutto male. Un’autorità non può dire ai suoi ragazzi o a coloro che educa che va tutto male, ma non può neanche dire che va tutto bene, perché non è vero; mai, in nessuna situazione va tutto bene o va tutto male. Bisogna che l’autorità prudentemente valorizzi ciò che deve essere valorizzato e corregga quello che deve essere corretto. Se no, non è un padre, una madre, ma un padrone. (…)

Don Giussani ci ha corretto, ma in modo tale da non ridurre il rischio della nostra vita, perché l’educazione, ci ha insegnato lui, è un rischio; e il rischio non può essere evitato, il rischio che tuo figlio sbagli non può essere evitato. Perché́ Dio ha amato di più la libertà di Adamo che la verità della Creazione. Perciò, madri, non andate in crisi se i figli sbagliano, non è innanzitutto un giudizio su di voi. È l’esercizio della libertà che può inclinarsi positivamente o negativamente.

Ho ancora in mente il grande convegno di CL del marzo del 1973 al Palalido, le formulazioni di alcune relazioni, il più lungo applauso quando un relatore citò il Partito comunista italiano. Non potevo pensare che Giussani non avesse notato qualche difficoltà di metodo, di contenuto. E infatti, poco dopo cominciò ad accennare ad alcune preoccupazioni sul discorso che fu fatto, per esempio sulla preferenza data a un progetto di rinnovamento dell’università che non partisse dal soggetto. L’educatore non corregge a priori, ma a posteriori, dopo aver lasciato correre il rischio. La prudenza educativa fa correggere motivatamente e in modo tale che questo non riduca la capacità di rischiare, perché la cosa più bella di un uomo è che possa rischiare quel che ritiene giusto con la sua intelligenza e col suo cuore.

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Qualche tempo prima che morisse, avevo capito che si stava muovendo quello che purtroppo si è mosso, allora mi sono detto: «Vado da don Giussani». Stava veramente poco bene e gli ho detto: «Ho saputo che vogliono farmi vescovo». Lui mi guardò con quegli occhi che ti penetravano in profondità e ti accoglievano e mi disse: «Dì di sì, perché tu sarai il primo che diventa Vescovo avendo vissuto solo il movimento. Nel tuo curriculum non ci sarà una riga di impegni ecclesiastici, il tuo lavoro, quello che ti sei guadagnato in università, è il movimento, e se il Papa, ti fa Vescovo, vuol dire che basta l’esperienza del movimento per poter guidare la Chiesa. Sai cosa vuol dire questo per il movimento?». Gli dissi: «Non so cosa vuol dire questo per il movimento, so cosa vuol dire questo per me. Ti saluto», e ci siamo abbracciati. È stata l’ultima volta che l’ho visto, ma, come ho detto tante volte, è un’amicizia che continua, perché la comunione dei santi non è una cosa di cui si parla tentando di lenire il dolore, di superare la nostalgia e soprattutto di esorcizzare la dimenticanza; la comunione dei santi è una presenza, una compagnia che continua in modo diverso, ma non meno ricco e fruttuoso per me dei cinquant’anni che ho vissuto con lui.

* da Un'attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, a cura di Alberto Savorana (BUR Saggi - Milano 2015).