L'era smart e il bisogno di contatti
Caro Direttore,
un motto attribuito a Tertulliano dice che «la carne è il cardine della salvezza». Il padre della Chiesa inquadrava una questione decisiva in termini talmente materiali da risultare addirittura scandalosa per noi, passati senza quasi accorgercene dalla modernità al post-moderno iper-digitalizzato. Ha ancora senso l’insistenza della tradizione cristiana sul valore salvifico della carne? E se sì, perché?
Nella festa dell’Epifania appena passata si incontrano tre personaggi nei quali, da ricercatore scientifico, mi è sempre piaciuto identificarmi: i Re Magi, uomini di scienza che scrutano la natura alla ricerca di verità che possano aiutare a risolvere i problemi del vivere. Osservando gli astri sono portati ad abbassare lo sguardo.
Il loro viaggio termina presso la capanna di Betlemme, dove si fermano per adorare “un bambino”. Non è impertinente chiedersi che cosa mai vi sia di straordinario in un bimbo. La risposta per chi ha fede non è difficile: nel corpicino di questo bimbo, che cerca lo sguardo di sua madre, le sue carezze, ciò che diventa visibile è l’amore di Dio per la sua creatura, un amore che è desiderio di vicinanza, di intimità, di comunione di vita. È questo che a tutti i cristiani dicono le braccia di Gesù bambino tese verso la madre.
La ragione per cui nel cristianesimo l’interazione via “carne e sangue” è una cosa così seria è comprensibile a tutti. Ha a che fare col fatto che l’essere umano conosce, percepisce l’amore attraverso il linguaggio del corpo. Essere umani significa anche questo: non siamo puri spiriti. Nulla può sostituire la carne, uno sguardo, un abbraccio, una parola detta dal vivo. Dio non ci ha telefonato per dirci chi siamo ai suoi occhi.
A prescindere da ogni pur giusta considerazione di carattere politico e sanitario, credo sia importante non perdere di vista la vera lezione che la pandemia del Covid ci sta impartendo: la carne non è solo cardine della salvezza ultraterrena, ma anche, più laicamente, della salute terrena, che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità definisce anche come benessere “mentale e sociale”. Sono le cronache a dircelo. Le testimonianze degli insegnanti raccontano le difficoltà dei giovani, che portano addosso le conseguenze durevoli della didattica a distanza. Crescono drammaticamente i fenomeni di isolamento sociale e sofferenza psicologica. Le ricerche sullo smart working indicano che il lavoro a distanza ha livelli di efficienza simili a quello in presenza, ma ci si interroga meno sugli effetti di lungo periodo di una società sempre più smaterializzata e delocalizzata.
Sono dinamiche che erano in atto molto prima della pandemia. Già diversi anni fa il Surgeon General degli Stati Uniti, l’ufficiale sanitario dell'amministrazione, sosteneva senza esitazioni che la minaccia più grave alla salute pubblica non era il cancro o il diabete, ma la solitudine. Gli studi degli economisti Anne Case e Angus Deaton sulle “morti per disperazione” mostrano i nessi fra la riduzione dell’aspettativa di vita in alcune fasce della popolazione americana e il diradarsi dei legami sociali.
Quante volte ci siamo ripetuti, riecheggiando le parole del Papa, che nessuno si salva da solo. Ora che i vaccini hanno ridotto drasticamente la mortalità del virus, e ci si sforza di immaginare una nuova “normalità”, verrebbe da aggiungere che nessuno si salva nemmeno “da remoto”. Abbiamo ancora bisogno della carnalità della relazione con gli altri per essere pienamente noi stessi.
Il Covid è dunque solo una sciagura? Direi di no. Forse, nell’era di Internet e dei “metaversi” in cui sempre più si vive rinchiusi, paradossalmente ci voleva qualcosa come il Covid per restituirci il senso del grandioso potere che si nasconde nella fragilità delle nostre mani, nell’umiltà dei nostri volti, delle nostre labbra.